Quant’è vero Dio

di Alfonso Coppola

“La mia causa non è né il divino né l’umano, non è ciò che è vero, buono, giusto, libero, ecc. bensì solo ciò che è mio, e non è una causa generale, ma – unica, così come io stesso sono unico. Non c’è nulla che mi importi più di me stesso”.

Così scriveva nel 1844 Max Stirner nel suo saggio L’Unico e la sua proprietà. Parole che, probabilmente, al suo tempo potevano risultare solitarie, quasi scandalose, ma che oggi sono diventate sentire comune. Siamo completamente immersi in un clima culturale che, come un’onda gigantesca, ci appare inarrestabile. Un’onda che abbiamo denominato nichilismo e che, in seguito al suo passaggio, tutti gli ideali su cui da sempre l’umanità conveniva si sono ritrovati senza fondamento, ricondotti dalla coscienza al puro nulla.

Non è la prima volta che accade. “Non c’è nulla di nuovo sotto il sole”. Già Hegel, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, descriveva in questo modo lo spirito di Pitagora e Gorgia: «Io mi pongo come fine il mio piacere, la mia vanità, la mia fama, il mio onore, la mia particolare soggettività». La differenza, probabilmente, consiste nel fatto che quello che un tempo costituiva la filosofia di una ristretta cerchia di intellettuali, ora si rivela come un pensiero maggioritario, una convinzione largamente diffusa, un’idea vincente, lo spirito delle masse. Una corrosione dell’etica che ci rimanda a una più profonda corrosione della visione del mondo, quella che ha provocato il crollo di ogni suo fondamento e, in questa prospettiva, il crollo della religione.

È in questo contesto culturale che il recentissimo libro di Sergio Givone, Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Edizioni Solferino) si impone vigorosamente all’attenzione dell’opinione pubblica. Givone, considerato uno dei massimi filosofi italiani, piemontese trapiantato a Firenze, professore emerito all’Università di Firenze, dove per anni è stato ordinario di Estetica presso la facoltà di Lettere e Filosofia, introduce in questo modo il suo saggio: «Che cosa resta di Dio, se Dio si è rivelato agli occhi della scienza un’ipotesi non necessaria (“una graziosa ipotesi di cui non ho avuto bisogno”, avrebbe detto Laplace a Napoleone) o se, come tutti ripetono con Nietzsche, “Dio è morto”? Ben poco, sembrerebbe. Effettivamente che Dio sia sparito dall’orizzonte dell’uomo contemporaneo non sembra preoccupare più di tanto…Indifferenza, apatia, noncuranza hanno ormai preso il posto della desolazione che contrassegnava quell’affaccio sconfinato sull’enigma dell’universo o più banalmente sull’assurdità della vita…La nostra, come è stato detto, è l’epoca delle passioni tristi, altro che arcano senso del mistero per ciò che ci circonda e abbraccia!...Disputa risolta per scomparsa dell’oggetto in questione, dunque? Dio non ci riguarda più? La religione è ormai un abito frusto, da dismettere, o tutt’al più una faccenda privata, da coltivare nella propria anima, ma guai a pretendere che sia proprio la religione a orientare la nostra vita, come accadeva in passato»?

La risposta dell’Autore è che «qualunque cosa sia la religione, di essa si deve dire che “è” e non solo che “è stata”. Al contrario, sono state le ideologie che ne avevano decretato la fine prossima, in particolare marxismo e neo-illuminismo, a mostrarsi del tutto inadeguate a comprendere il fenomeno religioso. In base al grande racconto della modernità, la religione sarebbe presto evaporata come rugiada al sole sotto i raggi implacabili della scienza, e invece è accaduto che proprio la scienza, in particolare la fisica, rilanciasse le grandi questioni della metafisica. Non solo: la politica e le pratiche sociali avrebbero dovuto progressivamente emarginare e neutralizzare la religione, ma poi, quando si sono cercate le parole per uscire dalle secche di un pensiero unico e omologante, le si è chieste in prestito alla religione».

Nonostante gli innumerevoli «tentativi di delegittimarla come mistificazione intellettuale, come struttura di dominio, in una parola, come ideologia», la religione continua ad esistere, e nel suo cuore, continua l’Autore, è possibile «scoprire qualcosa che ci appartiene non meno di quanto ci appartenga la ricerca della verità o il perseguimento del bene comune…che senso ha il nostro essere al mondo e anzi l’essere in quanto tale, che senso ha la vita».

Credere in Dio significa dire di sì al fatto che il mondo, la vita, ci sia, e che sia dotata di un senso. Significa accettare la vita con fiducia.

È lecito tutto questo? È lecito continuare a coltivare dentro di noi una speranza di senso senza rinnegare la nostra natura razionale? Esiste la possibilità che tale speranza non tradisca la ragione e che, contemporaneamente, non ci faccia precipitare in quel cinismo di chi ritiene che la vita non sia altro che una lotta spietata votata al solo scopo di una temporanea sopravvivenza?

La risposta che il filosofo ci propone è che «delegittimare la religione, anche solo riducendola a esperienza privata, significa disseccare la fonte primaria di un’essenziale esperienza di verità». Ebbene, conclude, «se di Dio resta qualcosa, bisogna dire che nel mondo in cui Dio non serve più e anzi è morto, di Dio resta l’essenziale. Aggiungendo magari che proprio la religione è ancora lì a dirci chi veramente siamo…Possiamo pure dimenticare il problema dell’esistenza di Dio.

Non importa dimostrare l’esistenza di Dio: così fosse, si tratterebbe pur sempre dell’esistenza di un ente, se non di un idolo. Importa invece che Dio sia alla radice di ciò che ci diciamo gli uni gli altri, importa ciò per cui crediamo sinceramente valga la pena di vivere, importa del senso o del non senso dell’essere al mondo, e quindi dell’essere, perché aver fede in Dio significa credere che abitare il mondo non sia cosa insensata ma abbia senso, addirittura un senso ultimo, come sosteneva Luigi Pareyson. Importa della verità. È più vicino a Dio chi fa professione di ateismo, ma tiene ferma la verità, di chi nega la verità in nome di Dio».

(Articolo pubblicato sul periodico Zonagrigia.it il 30/08/2019)