Pensieri

VORREI INSEGNARVI AD ESSERE NOBILI - Milano - IT - 7 giugno 2022

La gratitudine fa bene al cuore. Lo riempie. Lo arricchisce.

La gratitudine è come una carezza, che si riceve e si dà. 

La gratitudine parte dal grazie, semplice, puro. Insegnato a dire quando si è piccoli, senza grandi spiegazioni. Si dice grazie, col cuoricino. Saranno gli anni che ci insegneranno a capire la bellezza e la potenza del grazie. 

A volte si dice grazie più per gentilezza ed educazione. Ma essere gentili è arte nobile. 

A Matilde, a Samuele, vorrei insegnare ad essere nobili, certamente, di cuore.

A ripetere e ripetersi, ogni istante, grazie. E a sentire quasi che gli istanti non bastino. Perché i grazie sono tantissimi. E il tempo sembra limitarli. 

A Matilde, a Samuele, vorrei insegnare ad essere nobili, certamente, di cuore. E grati. 

Per i doni ricevuti, siano questi volti, luoghi o momenti. Per le sfide piccole e grandi. E a riconoscere anche nella gratitudine un dono. Perché la gratitudine è come una carezza, che si riceve e si da. E’ un dono, che si riceve e si da.

LA MIA VIA CRUCIS - São Paulo - BR - 20 ottobre 2021

Al centro di questa città c’è la Cattedrale. Bella, bellissima. Monumento storico, ricco, imponente. Al centro di questa città c’è il primo edificio di San Paolo fondato dai gesuiti, il Patio do Colégio, con la prima chiesa. Al centro di questa città c’è il monastero di San Benedetto. Luogo spirituale, di pace, silenzioso nel caos delle strade principali. 

Eppure le vere croci di questa città non stanno dentro queste chiese. 

Al centro di questa città c’è la Via Crucis. Io me la immagino proprio così la Via Crucis. 

Qui ci sono le croci vere, di quelle persone con le quali non vuoi incrociare lo sguardo perché farebbe troppo male. Gli occhi si illuminano. Di lacrime però. Di tristezza però. 

E le croci di questi uomini, e donne, e bambini sono pesanti. Non voglio sapere perché abbiano sulle spalle queste croci. Non voglio sapere chi erano prima di arrivare su questa via Crucis. 

Voglio solo chiedere a Dio che ci sia la Resurrezione anche alla fine della loro via Crucis.

“Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra”. Solo da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio. 

Questa sera voglio pregare queste croci, e averle davanti agli occhi. Vorrei chiedere a Dio di non farmi dimenticare mai di queste croci. Vorrei chiedere a Dio di ricordarmi, ancora una volta graças a Deus, che la croce è solo una “collocazione provvisoria”.

ABITUDINE - São Paulo - BR - 8 luglio 2020

Mi sto abituando a molte cose. 

Alle infradito indossate anche se ci sono 15 gradi. Ai cappelli di lana e al costume al posto dei pantaloncini. 

Ai tatuaggi ovunque, anche sulla faccia. Alla musica ad alto volume sempre, perché piace, perché fa festa, perché è casino puro e qui, piace molto pure quello. Ai fili della luce aggrovigliati, incasinati, tanti, senza un senso apparente. 

All’odore di spiedino, sempre. All’odore di fritto e aglio a qualunque ora del giorno. Alla lattina di birra ghiacciata stretta tra le dita. Ai graffiti sui muri. Ai marciapiedi rotti, quando ci sono. 

Alle case senza intonaco, alle case con le facciate piastrellate un po’ così, a caso, in base ai reais che c’erano nel portafoglio quel giorno per comprare le piastrelle. Alla pattumiera agli angoli delle strade, ai cani randagi. 

Ai bambini che giocano in strada, alle mamme sedute davanti alle porte di casa. Ai papà nei baretti vicino casa. Agli aquiloni fatti volare in cielo da grandi e piccoli. Ai mulatti, ai neri, a chi si dichiara bianco sulla carta d’identità, ma che palesemente non lo è, anche solo per i capelli ricci, crespi e soffici. 

Alle acconciature delle bimbe, che mi chiedo sempre come, le (sante) mamme, riescano a farle, perché Matilde preferisce i rasta pur di non farsi avvicinare da una spazzola. 

Ma vorrei chiedere a Dio che i miei occhi non si abituassero mai alla povertà. 

Vorrei che i miei occhi avessero sempre la capacità di vederla e riconoscerla. Per provarne rabbia, tristezza, sconforto. Perché è solo così che continuerò a credere e desiderare la Bellezza, per tutti.

VICINI - São Paulo - BR - 11 marzo 202

Vivere accanto ad una favela non significa viverci dentro. 

E’ osservarla, sentirne i rumori, i suoni, gli odori. Ma non è esserne il rumore, il suono, l’odore.

E’ svegliarsi la mattina, aprire la finestra della cameretta di Matilde con gli occhi ancora stanchi perché sono solo le 6 della mattina, e sentirsi uno schiaffo sulla faccia perché i vicini sono già in movimento da ben prima di me. 

E’ fare colazione con caffè, latte e biscotti. E sentirsi uno schiaffo sulla faccia perché i vicini mangiano uova e pane, perché così, anche se salta il pranzo, qualcosa nello stomaco c’è.

E’ lavarsi la faccia con acqua fredda lamentandosi perché c’è solo l’acqua fredda. E sentirsi uno schiaffo sulla faccia perché alcuni dei miei vicini non hanno nemmeno l’acqua.

E’ prendere una macchina per portare Matilde all’asilo pensando a come sarebbe bello se si potesse andare in bicicletta. E sentirsi uno schiaffo sulla faccia perché i vicini desidererebbero anche solo poter portare i figli all’asilo. Con qualunque mezzo.

E’ lavorare. Da casa, da un centro della ONG, dall’università, col pc, col cellulare, via Skype, Whatsapp o Wherby. Lavorare bene, tanto, creando e ricreando, pensando, progettando. E lamentarsi perché si è stanchi del troppo lavoro, della vita frenetica in una città caotica. E sentirsi uno schiaffo sulla faccia perché i miei vicini spesso non hanno un lavoro. Punto. Ne basterebbe uno qualsiasi. E l’unica cosa che riempie la loro vita (e la pancia) è una birra, purché gelata.

E’ inventarsi cosa fare il pomeriggio con Matilde. E sentirsi uno schiaffo sulla faccia perché io e i miei vicini abbiamo un parchetto dietro casa che è più un’aiuola, piccola e sporca. E sentirsi un altro schiaffo sulla faccia perché io poi torno in una casa semplice e pulita, tranquilla, che conforta; mentre per alcuni dei miei vicini casa è violenza e paura. Quindi meglio il parchetto, o meglio l’aiuola, piccola e sporca.

E’ cenare e andare a letto. E contare tutti i giorni gli schiaffi presi. E ringraziare Dio perché questi schiaffi si sono sentiti, e bene. E chiedere a Dio, magari, di darmene un po’ meno il giorno dopo. Non perché io non sia in grado di sopportarli, ma perché significa che qualcosa nella favela accanto sta cambiando.

LA CATTEDRALE - São Paulo - BR - 13 febbraio 2020

Le scale che portano all’ingresso della Cattedrale di San Paolo fanno male, di quel male pungente, che anche di notte si fa presente. 

Sono faticose: ripide e pesanti. Lunghe, troppo. Irregolari, che è difficile prendere il passo. 

Ne conto 20 di gradini, forse 25. Grigi, tendenti al nero, non più al bianco. Di marmo, freddi.

Non mi volto a guardare l’inizio della scalinata. Alzo la testa verso la fine. Lì, il portone della Cattedrale.

So che dietro di me ci sono uomini, seduti, sdraiati. Inermi. 

So che dietro di me ci sono storie di uomini che hanno perso la speranza. Uomini stesi per terra, distrutti dal loro vissuto, ma che sembra stiano prostrandosi davanti alla maestosità della Cattedrale. 

So che dietro di me ci sono le paure di coloro che la strada la vivono sotto il sole, ma anche sotto le stelle. 

Guardo avanti. Mantengo la testa alzata, verso la fine della scalinata. Lì, sempre lì, il portone della Cattedrale.

Ma con lo sguardo non entro a sbirciare il colonnato. Con lo sguardo resto fuori.

E giusto sull’ultimo gradi no c’è lei. Che sembro io. 

Mamma. Che sembro proprio io.

E accanto lei. Che sembra Matilde. Figlia. Che sembra proprio Matilde.

Distolgo lo sguardo. Ma il cuore no. 

Un peluche sotto braccio, sembra un orsetto, non più bianco ma tendente al nero, un po’ come i gradini che portano alla Cattedrale. Una coccola della mamma. Cercano di dormire, stento a credere riescano a riposare. Sono le 11,30 di mattina eppure sembra desiderino dormire. Forse sotto il sole ci si sente più al sicuro. 

Una mamma che sembro io. Una figlia che sembra Matilde. E un papà che non c’è. Chissà se c’è, e se c’è chissà dov’è. Matilde il papà ce l’ha proprio accanto. Sempre. Presente. Innamorato.

Le scale che portano all’ingresso della Cattedrale di San Paolo fanno male, di quel male pungente, che anche di notte si fa presente.

Entro nella Cattedrale, e questa volta porto dentro sia lo sguardo che il cuore, perché certe cose le si può affidare solo a Lui.