I° Mercoledì di Quaresima
Cattedrale, 24 febbraio 2010
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Benedizione Sacerdotale
Lectio divina di Nm 6,22-27
1. Saluto
1. Cari fratelli e sorelle,
all’inizio del presente nuovo ciclo della lectio divina quaresimale, consentitemi di ringraziare il Signore perché anche quest’anno ci offre l’opportunità di riunirci, affinché la sua Parola illumini la nostra esistenza. Desiderosi come siamo di godere la luce sfavillante della Pasqua, prepariamo il cuore ad accogliere il seme della Parola, che è in grado di far nascere in noi l’uomo nuovo. Il libro dei Numeri è quello a cui faremo riferimento. Tale libro, il quarto nell’ordine, dopo la Genesi, l’Esodo e il Levitico, è chiamato dagli ebrei bemidbàr, che vuol dire “nel deserto”; infatti, è con queste parole che esso inizia. A partire dalla traduzione greca dei Settanta, è più conosciuto come “libro dei Numeri”, a causa del censimento che si trova nei capitoli 1-4.
Abbiamo scelto questi passi che riguardano la Benedizione Sacerdotale per rimanere in sintonia con la spiritualità dell’Anno Sacerdotale indetto dal Santo Padre per ricordare i 150 anni della morte del Santo Curato d’Ars.
Con l’aiuto dello Spirito Santo, poniamoci nella giusta disposizione per leggere il brano biblico di questa sera.
2. In ascolto del testo
2. La lectio divina prende avvio dall’ascolto attento, con cui si “entra in contatto” con il testo:
«22 Il Signore parlò a Mosè e disse: 23 “Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: Così benedirete gli Israeliti: direte loro:
24 Ti benedica il Signore
e ti custodisca.
25 Il Signore faccia risplendere per te il suo volto
e ti faccia grazia.
26 Il Signore rivolga a te il suo volto
e ti conceda pace.
27 Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò”».
N.B. Vi ricordo lo schema che abbiamo adottato: alla proclamazione del testo segue qualche minuto di silenzio, in modo da rileggerlo di nuovo con calma, con attenzione e sentire tale Parola come rivolta al nostro oggi e farla risuonare nell’interiorità del nostro essere.
3. Momento della lectio
3. Un brano biblico non va mai isolato dal suo contesto, altrimenti rischiamo di non comprenderlo in maniera adeguata. Perciò, il primo passo da compiere è individuare in quale punto del libro dei Numeri il nostro testo è situato. Mi sembra opportuno richiamare queste nozioni: Numeri si può dividere in tre grandi parti, che corrispondono ai tre grandi momenti della sua narrazione. La prima va dal capitolo primo fino al versetto 10 del capitolo decimo, dove sono raccontati i preparativi per la marcia nel deserto del Sinai. La seconda comincia in 10,11 e termina in 21,35 e narra il cammino del popolo fino all’arrivo alle steppe di Moab. La terza, infine, comprende i capitoli dal 22 al 36, in cui si espongono i fatti accaduti nelle steppe di Moab, alle soglie della terra promessa.
Il nostro brano, Nm 6,22-27, si trova nella prima parte; infatti, dopo il censimento delle tribù, che comprende i primi due capitoli, effettuato per contare quanti uomini erano adatti alla guerra, dalla quale erano esentati i leviti, e il censimento dei leviti, riportato nei capitoli 3-4, abbiamo i capitoli 5 e 6, nei quali ci sono leggi che riguardano il popolo nel suo insieme e la benedizione sacerdotale, pronunciata la prima volta da Aronne, secondo la testimonianza di Lv 9,22, in occasione della consacrazione del santuario nel deserto. Concluse queste necessarie precisazioni, possiamo inoltrarci nella scoperta delle bellezze del testo.
4. Il Signore parlò a Mosè e disse [v. 22]. Dal libro dell’Esodo in poi, nel Pentateuco Mosè rappresenta il vero interlocutore di Dio, il mediatore di quelle leggi che il Signore prescrive al suo popolo, affinché esso possa camminare davanti a lui in maniera giusta e santa. La funzione di mediatore non si esaurisce, però, nella semplice consegna di norme e prescrizione, ma include anche altri elementi, che riguardano il culto e, come in questo caso, un “testo liturgico” utile ai sacerdoti, che annoverano, tra gli altri, il compito di benedire.
5. Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo [v. 23]. La famiglia di Mosè apparteneva alla tribù di Levi, ma solo la famiglia del fratello Aronne venne scelta per adempiere le funzioni sacerdotali. Questo è il motivo per il quale il Signore dice a Mosè di riferire ad Aronne e ai suoi figli le parole con cui benedire il popolo. Aronne era il fratello maggiore di Mosè e ne ha appoggiato, tranne alcuni pochi episodi, la missione. Secondo il libro dell’Esodo (cf. 4,14ss) era molto eloquente; perciò, divenne il portavoce del fratello. La sua consacrazione sacerdotale, avvenuta per mano di Mosè, è raccontata in Lv 4. Benché sacerdote, quindi la persona che più di altri potrebbe fare da intermediario tra Dio e gli uomini, il suo ruolo “dipende” da Mosè, che è il capo riconosciuto e gode di un carisma insuperabile.
Il sacerdozio ebraico era ereditario; i figli di Aronne, quindi, svolgevano le mansioni sacerdotali in continuità con quelle paterne. Tali mansioni contemplavano l’esecuzione dei sacrifici a nome della comunità, la preghiera, la presenza nel santuario, dare oracoli e impartire la benedizione al popolo, cioè all’assemblea d’Israele.
Chi è veramente il sacerdote per la spiritualità ebraica? A differenza di noi, per i quali il sacerdote è “l’uomo del sacro”, per la Bibbia è colui che procura la prosperità. In altre parole, egli è “l’uomo delle benedizioni”, come sembrerebbe indicare il vocabolo con cui in ebraico viene designato: kohén. Questo è un ruolo altamente positivo per l’istituzione sacerdotale, che garantiva con la propria azione e con la benedizione la prosperità di cui un popolo aveva bisogno per vivere. Com’era possibile, infatti, esistere senza i beni materiali necessari e senza la pace, se ciò non era elargito dalla benedizione di Dio? Il lavoro umano, per quanto duro, intenso e ben condotto, non può essere il fattore determinante della prosperità, se non è accompagnato dal benevolo sguardo di Dio, che moltiplica il frutto delle fatiche umane.
6. Ti benedica il Signore e ti custodisca [v. 24]. È vero che il sacerdote è l’uomo delle benedizioni, ma la benedizione “passa” attraverso di lui; egli non ne è la fonte, la sorgente, perché la benedizione viene dal Signore. Perciò, il sacerdote non può dire “io ti benedico”, ma deve dire “il Signore ti benedica”; egli, cioè, invoca la benedizione divina, affinché il singolo o il popolo possano goderne. Questo permette di non far considerare il sacerdote un uomo della “magia”, quasi avesse il potere di condizionare Dio e di intercettarne il flusso di grazie. Al contrario, egli può soltanto intercedere presso la sovrana e libera volontà divina, affinché chi si presenta con cuore puro ottenga la prosperità che gli occorre. Insieme alla benedizione, al sacerdote è prescritto d’invocare anche per la custodia, per la protezione dai nemici e da chi si avvicina con intenzioni ostili. Vengono alla mente le parole di Sal 121,7-8: «Il Signore ti custodirà da ogni male: egli custodirà la tua vita. Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri, da ora e per sempre».
7. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia [vv. 25-26]. In questi due versetti, il 25 e il 26, la benevola assistenza del Signore viene espressa con due frasi che riguardano il suo volto e con altre due che menzionano grazia e pace. Il sacerdote, quindi, chiede che il Signore faccia splendere a vantaggio del popolo il suo volto. Tra i diversi significati che la luce comprende, non è da dimenticare quello traslato che si riferisce alla prosperità e alla salvezza; in Pr 13,9 si legge: «La luce dei giusti porta gioia, la lampada dei malvagi si spegne»; in Is 9,1: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce». È in Sal 67,2 che troviamo il legame tra la luce e il volto del Signore: «Dio abbia pietà di noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto». Anche il v. 26 afferma un concetto simile, che ricorda Sal 102,3: «Non nascondermi il tuo volto nel giorno in cui sono nell’angoscia». Se il Signore nasconde il suo volto, non c’è speranza; se invece lo mostra, significa che il credente può tornare a sorridere.
La grazia e la pace, lo shalom, sono i doni che il popolo si attende: la grazia, che è la benevolenza e l’amore di Dio; la pace, che implica non solo l’assenza di guerra, ma anche la prosperità, il benessere, l’armonia.
8. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò [vv. 27]. La strana espressione “porre su qualcuno il nome di Dio” non vuol dire altro che stabilire una relazione personale fra Dio e un essere umano. In tal caso, si tratta di un popolo intero che entra in relazione con il Signore. Questo è il senso profondo della benedizione: essere in relazione giusta con Dio, avendo la consapevolezza che ogni dono – pace, vita, prosperità, fecondità – proviene da lui. La riuscita esistenziale si realizza, dunque, attraverso il rapporto armonico con lui.
4. Momento della meditazione
9. Il momento della lectio ha illustrato il senso del brano, permettendoci di raccogliere tutto quello che era utile per compiere il passo successivo, la meditatio, durante la quale abbiamo l’occasione di confrontare il testo con le altre parti della Scrittura e, soprattutto, con la realtà della nostra vita cristiana. Per essere più chiari, preferiamo soffermarci su tre aspetti che colgono situazioni e temi che presentano una forte attualità, in campo ecclesiale e sociale. In primo luogo, poniamo la nostra attenzione sul sacerdozio, poi sulla benedizione e, infine, sulla pace e la prosperità.
Il sacerdozio ebraico, con tutte le sue peculiarità, non esiste più da poco meno di venti secoli, ma alcuni tratti sono ancora attuali. Scopo del sacerdozio è favorire il rapporto tra Dio e il popolo; egli è un intermediario, un mediatore, che si pone a servizio di Dio e di coloro che egli vuole incontrare. Quindi, il sacerdote non agisce per virtù propria, bensì in quanto strettamente legato a Dio. La sua funzione non è comprensibile se separata da Dio e da un popolo tra i quali si deve stabilire una relazione. Egli non è padrone di nulla, né dei poteri divini né del popolo al quale presta il proprio servizio. Egli è “pontefice”: fa cioè da ponte tra Dio e gli uomini.
La tradizione cristiana, fin dalla Lettera agli Ebrei, ha voluto interpretare la personalità di Gesù alla luce del sacerdozio, pur essendo conscia che egli non apparteneva a una famiglia sacerdotale; anzi, possiamo affermare con certezza che Gesù non ha avuto buoni rapporti con i sacerdoti del suo tempo. Eppure, egli realizza perfettamente una delle più importanti caratteristiche del sacerdozio: la benedizione.
In realtà, bisogna riconoscere che solo attraverso Gesù l’umanità ha ricevuto da Dio Padre la prima e più grande benedizione: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo» (Ef 1,3). Inoltre, abbiamo ricevuto il bene prezioso dell’Eucaristia, che è anzitutto benedizione, cioè fondamento del giusto rapporto tra Dio e l’umanità, che noi chiamiamo anche con il nome di “alleanza”. Essa è stata stabilita per mezzo della carne e del sangue del Figlio di Dio, che volontariamente si è offerto sulla croce, a sua volta trasformata da strumento di morte in segno di vita e di speranza, come mediteremo nel prossimo triduo pasquale.
10. Il secondo aspetto è la benedizione, che ci suggerisce di allargare gli orizzonti e di riflettere sul fatto che ogni cristiano, in virtù del Battesimo, è sacerdote. Se la benedizione ci richiama a impostare correttamente la relazione con Dio, non di meno c’impone di rivedere le nostre relazioni con i fratelli e con la realtà terrestre. Dovremmo sapere, infatti, che nulla ci appartiene, perché, parafrasando san Paolo, “tutto è nostro, ma noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio” (cf. 1Cor 3,23). Per impostare bene le relazioni con i nostri fratelli e le realtà terrestri che ci sono state affidate, bisogna ammettere che tutto – la vita, la salute, il lavoro, i beni, etc. – è dono del Signore Dio, ossia frutto della sua benedizione, di cui è destinatario ogni uomo, affinché viva dignitosamente.
Il tema della benedizione, quindi, ci suggerisce di non dimenticare la solidarietà e la giustizia sociale, che non riguardano soltanto le nazioni lontane, nei continenti non ancora pienamente sviluppati, ma anche la nostra Italia, e il Sud in particolare, dove avvengono tragedie connesse alla miseria e dove il lavoro è un miraggio sempre più lontano. Infatti, se la benedizione è dono di Dio, benedizione è anche quella che l’essere umano eleva al Signore per ringraziarlo per quanto gli ha donato; se questa benedizione, però, viene “rubata” da chi è più furbo o più violento, come si potrà benedire Dio per i suoi doni?
11. La pace e la prosperità, insieme a tutti gli altri effetti della benedizione divina, quindi, sono affidati anche all’impegno di ciascun uomo, che intenda essere autentico “sacerdote”, mediatore della benedizione. Abbiamo spiegato che si tratta di un tipo di sacerdozio che si svolge negli ambiti quotidiani del lavoro, della politica, delle professioni, e che consente alla pace e alla prosperità di diffondersi, di diventare causa della gioia di esistere; l’obiettivo dovrebbe essere quello che la comunità cristiana di Gerusalemme, sotto la guida degli apostoli, aveva cercato di perseguire: «Nessuno infatti tra loro era bisognoso» (At 4,34). La vera prosperità non è quella che vede alcuni arricchirsi e sfruttare tutti i vantaggi offerti dalle tecnologie mentre altri ne vengono esclusi, ma il frutto di cui tutti partecipano, che viene conseguito attraverso il bene comune.
Siamo coscienti che questi ideali non avranno mai una perfetta realizzazione su questa terra, ma non per questo non ci si deve battere per essi. Dalla benedizione sacerdotale, quindi, conseguono tante cose, che ci riportano di nuovo a Cristo, colui che «è la nostra pace» (Ef 2,14), colui che ha abbattuto ogni barriera per riconciliarci con Dio e per portarci al suo cospetto.
3 Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
4 In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità,
5 predestinandoci a essere per lui figli adottivi
mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d’amore della sua volontà,
6 a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
7 In lui, mediante il suo sangue,
abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe,
secondo la ricchezza della sua grazia.
8 Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi
con ogni sapienza e intelligenza,
9 facendoci conoscere il mistero della sua volontà,
secondo la benevolenza che in lui si era proposto
10 per il governo della pienezza dei tempi:
ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra.
11 In lui siamo stati fatti anche eredi,
predestinati – secondo il progetto di colui
che tutto opera secondo la sua volontà –
12 a essere lode della sua gloria,
noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
13 In lui anche voi,
dopo avere ascoltato la parola della verità,
il Vangelo della vostra salvezza,
e avere in esso creduto,
avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso,
14 il quale è caparra della nostra eredità,
in attesa della completa redenzione
di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.
Preghiera dei fedeli
Fratelli e sorelle, lo splendore del volto del Signore ci inonda e illumina la nostra esistenza che ha bisogno di pace.
Diciamo insieme:
Benedici noi, Signore, e concedici la pace.
Padre nostro.
Benedizione finale.