Costruire classi pensanti

Peter Liljedahl, ricercatore canadese in didattica della matematica, dopo più di dieci anni di sperimentazioni con centinaia di insegnanti, è arrivato a interessanti conclusioni riguardo all'applicazione di vari accorgimenti, per favorire un modo di stare in classe da lui definito "classe pensante".

Una classe pensante favorisce e richiede ragionamento, invece che adattarsi a una presenza passiva in aula. Gli studenti e gli insegnanti ragionano, da soli e collettivamente, imparano insieme e costruiscono conoscenza e comprensione attraverso attività e discussioni. Gli insegnanti non solo incoraggiano il ragionamento, ma lo richiedono, implicitamente ed esplicitamente. Non tutte le classi funzionano così: come si può ottenere un ambiente di questo tipo?

Il testo seguente è un riassunto e traduzione del capitolo "Building Thinking Classrooms: Conditions for Problem-Solving", scritto da Peter Liljedahl, professore alla Simon Fraser University, Canada, per il libro "Posing and Solving Mathematical Problems: Advances and New Perspectives", edito da Springer.

La traduzione è stata autorizzata, ma non rivista, dall'autore, ed è stata pubblicata sul sito xlatangente.

Dieci anni di sperimentazioni

Le sperimentazioni in classe di Peter Liljedahl cominciarono più di 10 anni fa, quando era impegnato in una ricerca sul "momento Eureka!" ("AHA! experience"), ovvero quell'istante in cui, dopo un prolungato impegno per risolvere un problema o capire un concetto, si ha un'intuizione e si riesce a superare quello che prima era un ostacolo. Le ricerche indicavano che agli studenti basta uno di questi momenti per cambiare i sentimenti verso la matematica e perfino la capacità di fare matematica.

Divenne quindi naturale cercare di provocare queste esperienze, attraverso la proposizione di problemi accattivanti, che avrebbero dovuto introdurre un ostacolo, superabile poi con il ragionamento e grazie a un momento Eureka. A posteriori questa speranza si rivelò essere semplicistica, ma la sperimentazione diede comunque avvio a un lungo progetto di ricerca. La sperimentazione consisteva nel proporre alcuni di questi problemi interessanti e impegnativi a una classe delle scuole medie (studenti di 12-13 anni).

L’insegnante propose i problemi, mentre Liljedahl osservava. I risultati furono pressoché nulli: gli studenti si trovarono la strada sbarrata, come previsto, ma non dopo prolungati sforzi. Al contrario, si arrendevano quasi immediatamente e non davano ascolto ad alcun incoraggiamento.

Dopo tre lezioni deludenti, ricercatore e insegnante convennero che era meglio smettere quella sperimentazione e cercare di capire meglio cosa succedeva in classe. L'insegnante tornò al suo solito metodo di lezione e Liljedahl rimase in classe come osservatore. Ben presto si accorse che la classe era una "classe non pensante", in cui l'insegnante faceva lezione secondo un'assunzione implicita che gli studenti non fossero in grado di ragionare, o non volessero farlo. Osservando altre classi, si accorse che questa ipotesi era molto comune tra gli insegnanti. Stando così le cose, non ci si poteva aspettare che gli studenti si impegnassero spontaneamente nel problem-solving per un tempo sufficiente per rimanere bloccati e persistere finché non arrivasse un momento Eureka. Quello che mancava a questi studenti e insegnanti era l’abitudine al ragionamento.

Il ricercatore progettò quindi dei workshop per insegnanti delle scuole medie (per studenti di 10-14 anni) interessati a portare il problem-solving nella loro didattica. I volontari non mancavano, anche perché il problem-solving era la moda del momento, nel curriculum e nei libri di testo. Tra le proposte vi era quella di far lavorare gli studenti per individuare strategie risolutive, discuterle, dare loro un nome e preparare dei poster per descrivere le strategie, che servissero come riferimento per le future sessioni di problem-solving.

I risultati furono contrastanti: le relazioni degli insegnanti sull'impatto della sperimentazione variavano da "Agli studenti è piaciuto molto" fino a "Si sono arresi molto presto" e "Non sono in grado di lavorare insieme". Questa variabilità si rivelò essere dovuta alle pratiche didattiche: gli studenti già abituati a ragionare e immersi in una cultura del problem-solving trovavano un sostegno e un volano nel "vocabolario" scritto sui poster, mentre nelle "classi non pensanti" il coinvolgimento e l'apprendimento erano pressoché nulli.

Servivano allora degli strumenti per spezzare le consuetudini delle classi e coinvolgere gli studenti. Gli strumenti dovevano essere facili da adottare, in modo che tutti gli insegnanti interessati li potessero sperimentare, e dovevano garantire agli studenti delle modalità di partecipazione libere dai condizionamenti preesistenti e dai pregiudizi tipici verso le lezioni di matematica. Le teorie didattiche in proposito abbondano, eppure abbondano anche le "classi non pensanti". Quindi Liljedahl decise di non affrontare il problema in modo teorico, ma pratico, partendo dalle pratiche didattiche diffuse.

Per più di dieci anni si impegnò in una ricerca sugli elementi e le pratiche didattiche che favoriscono, mantengono e ostacolano le "classi pensanti", osservando oltre 40 insegnanti. Gli elementi centrali individuati furono questi:

Per esempio, in una delle "classi non pensanti" osservate:

Quindi partì una lunga ed ampia fase di sperimentazione, in cui si cambiavano i vari parametri e si valutavano gli effetti. Per la misurare l'efficacia delle pratiche si tennero in conto vari "segnali di impegno", alcuni comportamenti degli studenti osservabili e misurabili qualitativamente o quantitativamente, come ad esempio il tempo intercorso tra la consegna e l'inizio della discussione o la partecipazione di tutti i componenti di un gruppo.

Per decidere come cambiare i parametri, si scelse di adottare un approccio radicale, da "bastian contrario": se una pratica didattica non funzionava, si cercava di adottare dapprima il suo opposto per poi bilanciare dopo vari tentativi. Ad esempio, quando far sedere gli studenti si rivelava inefficace, si provò a farli stare in piedi; quando rispondere alle domande si rivelò inutile, si smise del tutto di rispondere.


Come costruire classi pensanti

Nelle condizioni osservate, i fattori che più influenzavano la creazione una "classe pensante" si rivelarono essere il tipo di consegne, l'ambiente di lavoro e il modo di formare i gruppi.

Le consegne date devono essere la risoluzione di "buoni problemi": all'inizio essi devono essere coinvolgenti e richiedere lavoro collaborativo, in modo da portare gli studenti a confrontarsi per arrivare a una soluzione. Una volta che si è instaurato un clima di "classe pensante", i problemi possono essere più standard; devono riguardare tutti i contenuti delle lezioni e far emergere aspetti importanti relativi alla lezione del giorno. Vediamo più in dettaglio gli altri due fattori.


Le "superfici verticali non permanenti"

Riguardo all'ambiente di lavoro, si rovesciò la situazione tipica: invece di lasciar sedere gli studenti nei banchi, si provò a farli stare in piedi e lavorare alle lavagne. Una sperimentazione specifica si propose di confrontare l'uso di lavagne verticali o orizzontali (su cui si può cancellare), lavagne a fogli mobili, orizzontali e verticali (non cancellabili), e quaderni.

I risultati mostrarono che le lavagne favoriscono la discussione, la partecipazione, la persistenza, la non-linearità del ragionamento e il trasferimento della conoscenza: avendo la possibilità di cancellare, gli studenti "rischiano" di più e più presto, commettono errori e si correggono a vicenda, si confrontano all'interno del gruppo.

Le lavagne orizzontali, cioè appoggiate sui tavoli, e verticali, hanno un effetto simile, ma con quelle verticali gli effetti positivi sono più marcati e inoltre si favorisce lo scambio di conoscenza tra gruppi diversi, che è necessario se si vuole trasformare la classe da un insieme di gruppi pensanti in una vera a propria "classe pensante".

Le "superfici verticali non permanenti", non solo le lavagne, ma anche i vetri delle finestre, come in qualche classe dove non era possibile avere più lavagne, si rivelarono quindi il mezzo migliore tra quelli testati.

In una seconda fase di sperimentazione, tutti i 300 insegnanti di scuole primarie e secondarie a cui fu proposto questo cambiamento si dichiararono pronti a provarlo nelle loro classi, il 95% la provò effettivamente nel giro di una settimana e il 98% lo stava ancora usando dopo 6 settimane ed era intenzionato a continuare.

Raramente una nuova proposta viene accolta con così grande entusiasmo. Secondo Liljedahl, questo è probabilmente dovuto in gran parte al fatto che nell'incontro di formazione gli insegnanti lo sperimentano in prima persona, come fossero allievi, e si rendono conto dell'influenza sul modo di lavorare.

Ma se le "superfici verticali non permanenti" erano la soluzione, qual era il problema? La ricerca non era iniziata con il riconoscere che sedersi ai banchi costituiva un ostacolo alla realizzazione di una "classe pensante", ma questa è piuttosto una conclusione a cui si è arrivati applicando l'approccio da "bastian contrario".

A posteriori, la motivazione per cui la tradizionale disposizione nei banchi era controproducente era l'anonimità garantita da questa tradizione. Se gli studenti sono in piedi davanti a una lavagna o una finestra, sono tutti visibili, non si possono nascondere, non si possono tirare indietro: tirarsi indietro significa andare verso il centro dell'aula, dove non c'è nessuno, o dove c'è l'insegnante. Invece stando nei banchi è più facile smettere di partecipare, consapevolmente o meno: la disposizione incoraggia una presenza in classe disceta e anonima. Quando è richiesto più impegno, più ragionamento, più collaborazione, è facile tirarsi indietro se si sta seduti in un banco. Stare in piedi invece ostacola il ritiro: se qualcuno smette di partecipare, si sposta verso il centro dell’aula e il suo ritiro diventa evidente sia all’insegnante che agli studenti.

 

I "gruppi visibilmente casuali"

I gruppi di lavoro sono solitamente formati dagli stessi studenti, che scelgono in base alle amicizie, o dall'insegnante, che persegue degli obiettivi didattici, come la produttività, il livellamento, o semplicemente la costruzione di un ambiente di lavoro pacifico.

Ricerche precedenti avevano evidenziato che la disparità tra questi obiettivi sociali ed educativi nella formazione dei gruppi porta spesso a condizioni in cui alcuni studenti sono scontenti; questo fa diminuire l'efficacia del lavoro di gruppo.

Liljedahl si accorse presto che non c'erano sostanziali differenze di efficacia nel lavoro di gruppo se essi erano formati in modo "strategico" oppure in modo casuale, ma senza che gli studenti vedessero la fase di scelta casuale. In questo caso gli studenti immaginavano che la suddivisione fosse comunque fatta in modo controllato e non randomizzato, e gli effetti erano gli stessi.

Invece, quando la divisione veniva fatta in modo casuale sotto gli occhi degli studenti, ad esempio lanciando dei dadi, il modo di lavorare dei gruppi cambiava.

Se i gruppi venivano cambiati spesso (due volte al giorno nella scuola primaria e ad ogni lezione nella scuola secondaria), si notavano molti effetti positivi:

Nella seconda fase di sperimentazione, su 200 insegnanti di scuole primarie e secondarie a cui fu proposto di sperimentare il lavoro a "gruppi visibilmente casuali", il 93% si dichiararono pronti a provarlo nelle loro classi, il 91% lo provò effettivamente nel giro di una settimana, e dopo 6 settimane il 88% lo stava usando e il 93% era intenzionato a usarlo.

Dalle interviste effettuate risulta alcuni insegnanti avevano smesso di usare questo accorgimento tra 1 e 6 settimane perché le cose andavano talmente bene che pensavano di poter lasciar scegliere agli studenti come formare i gruppi. Però appena si accorsero che ciò non funzionava altrettanto bene, tornarono ai gruppi visibilmente casuali.

Come per le superfici verticali non permanenti, anche per i gruppi visibilmente casuali l'entusiasmo degli insegnanti si rivelò sopra le aspettative. Di nuovo, una spiegazione può riguardare la semplicità della misura e l'immediato riscontro della sua utilità. Inoltre gli studenti vi si abituano velocemente e senza resistenze.

 

Conclusioni

Infine, le due misure vennero proposte e sperimentate congiuntamente. Gli effetti positivi si combinarono; gli insegnanti riportarono grandi miglioramenti nella comunità-classe. Nell’articolo originale si prendono in considerazione brevemente anche gli altri elementi elencati.

La ricerca si è focalizzata sui metodi pratici per costruire “classi pensanti”. Per fare ciò non bastava trovare modi per incentivare il ragionamento e la collaborazione, ma servivano anche metodi per scardinare le norme e consuetudini radicate nelle classi, sia negli studenti che negli insegnanti. I metodi presentati hanno funzionato quasi universalmente nelle 600 e più classi in cui sono stati sperimentati.

La ricerca presentata ha dato risultati per molti versi straordinari. Ma il risultato più interessante emerso non riguarda tanto i nuovi metodi, quanto un quadro più chiaro della situazione: le consuetudini didattiche che regolano la vita in classe nel Nord America, ma anche in altri Paesi del mondo, sono talmente forti e radicate che sono diventate norme istituzionali. I metodi presentati qui rappresentano una rottura violenta di queste norme, e permettono agli studenti di porre l'accento sull'imparare piuttosto che sul rispettare delle consuetudini.

Dopo la fine della ricerca, l'autore tornò a visitare le classi di molti insegnanti che avevano sperimentato i metodi proposti. Questi insegnanti stavano ancora usando i due metodi descritti, oltre ad aver applicato e affinato altri metodi relativi ad altri aspetti dell'insegnamento. La sperimentazione sembra quindi aver avuto un impatto più duraturo di tanti altri interventi di formazione degli insegnanti.

Perché? Probabilmente per due motivi: primo, gli insegnanti stessi raccontano quanto gli studenti amino il "nuovo modo" di fare matematica, al punto che quando gli insegnanti tornano a usare un'istruzione direttiva, anche solo per brevi periodi, gli studenti protestano. Secondo, gli insegnanti si sentono più efficaci nel loro compito; gli studenti mostrano quelle caratteristiche che gli insegnanti avrebbero voluto vedere in loro, ma che non riuscivano a provocare prima di cambiare metodologia di insegnamento.


Commenti personali

Questo paragrafo non fa parte dell’articolo, ma riporta alcune mie opinioni personali del 2016.

La ricerca e le sperimentazioni raccontate sono state svolte in Canada. Sicuramente le problematiche, e quindi i rimedi proposti e sperimentati, sono legati alla particolare situazione della didattica in quel contesto; non necessariamente ciò che porta miglioramenti in un contesto è applicabile direttamente ad altri. Tuttavia mi è sembrato interessante rendere disponibile questo articolo anche agli insegnanti italiani che non parlano inglese, per i vari spunti interessanti che può dare. Anche se la mia esperienza di insegnamento è molto limitata, mi è venuto naturale pormi delle domande. Le mie classi sono “classi pensanti”? Come gestisco la didattica rispetto ai nove punti individuati? Sono soddisfatta delle risposte che ho dato o vorrei cambiare qualcosa?

Tramite un breve scambio di e-mail con Peter Liljedahl ho scoperto che nelle classi in cui i metodi proposti sono stati applicati, i risultati di apprendimento in test standard inizialmente non differivano molto da quelli di classi più tradizionali. Secondo lui questo è un segnale di un altra questione centrale nella didattica: l'aspettativa che un insegnamento innovativo debba produrre risultati migliori nei test tradizionali. Ma molti aspetti non vengono "catturati" da questi test: il clima in classe, l'impegno, la motivazione, la capacità di ascoltare e di comunicare, la permanenza dei concetti studiati solitamente sfuggono alla valutazione in un test tradizionale. Più recentemente Liljedahl ha comunque cercato di misurare alcuni di questi aspetti, e dai primi riscontri sembra che in vari casi il rendimento nei test standard sia aumentato e soprattutto la capacità di ricordare a lungo termine sia cresciuta notevolmente.

Nella formazione degli insegnanti in Italia si sta sempre più ponendo l'accento sul laboratorio di matematica, concetto che a parer mio lascia spazio a varie interpretazioni. Ad esempio, serve manipolare oggetti concreti per definire un’attività laboratoriale? È necessario lavorare a gruppi? Ritengo che il concetto di laboratorio deva essere interpretato in modo non restrittivo e penso che esso si avvicini molto al concetto della "classe pensante" definita da Liljedahl.

Oggi, nel 2023, dopo alcuni anni di insegnamento scolastico, mi sembra di esigere che le mie classi siano "pensanti", e se non riesco a renderle tali, ci entro malvolentieri e mi sembra di non essere un'insegnante efficace. Nel mio liceo trovo generalmente facile costruire "classi prime pensanti", forse perché i ragazzi sono molto ricettivi nell'affrontare una nuova scuola ed è relativamente facile costruire delle abitudini nuove, visto che tutto è nuovo: l'ambiente, i compagni, gli insegnanti, le richieste, le aspettative... Inoltre molti ragazzi hanno l'entusiasmo e la curiosità tipica di questa età; più tardi subentrano abitudini e interessi diversi e per alcuni anche anche la noia e la fatica nell'affrontare lo studio di discipline complesse. Infine nelle classi prime sono previste 5 ore settimanali di matematica; ne dedico sempre una intera a lavori di gruppo. Nelle seconde non è così facile, perché all'indirizzo scienze applicate le ore si riducono a 4, mentre gli argomenti da affrontare sono identici a quelli dello scientifico tradizionale, dove però ci sono 5 ore.

Inizialmente costruisco gruppi completamente casuali, poi, appena conosco un po' gli studenti, faccio in modo che in ogni gruppo ci sia almeno uno studente "motore" e che gli studenti deboli siano in gruppi diversi. A volte invece creo gruppi di livello e assegno problemi differenti. In seconda, torno spesso a costruire gruppi completamente casuali o a lasciar scegliere agli studenti.

Non ho ancora fatto lo sforzo di procurarmi "superfici verticali non permanenti", cosa non facile vista la nostra organizzazione scolastica. Mi piacerebbe provare, ma vorrei valutare meglio due aspetti che potrebbero essere non ottimali: con una lavagna è più probabile che un solo studente prenda l'iniziativa di scrivere, mentre con il quaderno insisto che ognuno deve scrivere tutto; come convincere a ricopiare la soluzione o il procedimento trovato, in modo da obbligare a riguardarlo e pensarci di nuovo: temo che gli studenti siano fortemente tentati dallo scattare una fotografia; però credo che dover scrivere sia un invito più forte a ragionare rispetto al guardare una foto.