Lavoro sul testo descrittivo e sulla caratterizzazione dei personaggi nel testo narrativo.
Cercate, leggete e commentate brani di romanzi celebri in cui sono descritti gli abiti dei personaggi principali:
....abiti che li caratterizzano e restano nella storia della letteratura.
....abiti che simbolicamente resistono al tempo.
I brani possono essere stampati su carta riciclata e incollati su un cartone di riciclo decorato dagli alunni e appeso in aula.
Personaggi:
Pippi, Anna Karenina, l'abito da sposa di Lucia Mondella, Jane Eyre e tanti altri
PIPPI CALZELUNGHE
I suoi capelli color carota erano stretti in due treccioline rigide che se ne stavano ritte in fuori, di qua e di là dalla testa; il naso pareva una patatina ed era tutto spruzzato di lentiggini. E sotto il naso si apriva una bocca decisamente grande, con una fila di denti bianchissimi e forti.
Originale era il suo vestito: Pippi se l’era cucito da sola. Veramente la sua idea era di farlo blu, ma poi, non bastandole la stoffa, era stata costretta ad applicarvi qua e là delle toppe rosse. Un paio di calze lunghe, una di color marrone e l’altra nera, copriva le sue gambe magre.
Infine non bisogna dimenticare le sue scarpe nere, lunghe esattamente il doppio dei suoi piedi: gliele aveva comprate il suo papà nel sud America, grandi così perché i piedi di Pippi potessero crescervi a loro agio, e lei non aveva mai voluto calzarne delle altre.
ANNA KARENINA
Anna non era in lilla, come assolutamente voleva Kitty, ma indossava un abito nero di velluto, con la scollatura bassa, che scopriva le sue spalle piene e tornite, come d’avorio antico, e il seno e le braccia rotonde dal minuscolo polso sottile. Tutto l’abito era ornato di merletto veneziano. In testa, sui capelli neri, tutti suoi, aveva una piccola corona di violette e un’altra eguale sul nastro nero della cintura, fra le trine bianche. La pettinatura non dava nell’occhio. Si notavano soltanto, e l’abbellivano, i corti anelli capricciosi dei capelli ricciuti che sempre le sfuggivano sulla nuca e sulle tempie. Sul forte collo tornito c’era un filo di perle. Kitty vedeva Anna ogni giorno, era innamorata di lei e non riusciva a immaginarsela che in lilla. Ma ora, vedendola in nero, sentì che non ne aveva compreso tutto il fascino. Ora lei le apparve completamente nuova e inaspettata. E capì ora che Anna non poteva essere in lilla e che il suo fascino stava proprio nel fatto che essa non si lasciava dominare dalla sua toilette, che la toilette non poteva mai prendere risalto a spese di lei. Neppure l’abito nero con le lussuose trine risaltava su di lei; era solamente una cornice, e risaltava lei sola, semplice, naturale, elegante, e nel contempo gaia e animata.
LUCIA MONDELLA
Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere; e lei s’andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch’esse, a ricami. Oltre a questo, ch’era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare.
MARY POPPINS
All’improvviso, nel buio che avanzava, scorsero una figura che si avvicinava al vialetto di casa.
È papà? – domandò Michael, ma si accorse che si trattava di una donna. Con una mano teneva saldo il cappello, con l’altra reggeva una grossa borsa. Il suo incedere era curioso perché sembrava sollevata dal vento. Bussò forte al cancello e, dopo che lo ebbe oltrepassato, un turbine la innalzò di nuovo e la condusse fino alla porta, dove atterrò con un fragore che scosse l’intera casa.
Non ho mai visti nulla del genere – disse Michael con bocca a penzoloni per la sorpresa.
Andiamo a vedere chi è! – disse Jane trascinando il fratellino fuori dalla camera.
Raggiunsero la cima delle scale: da lassù godevano di un’ottima vista sull’ingresso.
Scorsero la madre uscire dal salotto seguita dalla nuova arrivata: una donna alta, coi capelli nerissimi, grandi mani e grandi piedi, profondi occhi azzurri.
La signora Banks fa strada fino alla stanza dei bambini, senza accorgersi che dietro alle sue spalle Mary Poppins siede sul corrimano delle scale e scivola verso l’alto, davanti agli sguardi attoniti di Jane e Michael.
Avute le ultime informazioni, Mary Poppins accetta l’incarico e la signora Banks la lascia sola coi bambini.
Quando la signora Banks se ne fu andata, Jane e Michael si avvicinarono a Mary Poppins che se ne stava immobile con le braccia incrociate.
Come sei arrivata? Sembrava ti portasse il vento.
È così.
La donna non aggiunse altro. Si sfilò la sciarpa, appese il cappello alla testiera del letto e si chinò per disfare il bagaglio. Michael non riuscì a trattenersi:
Che strana valigia che hai!
Tappeto.
Serve per portare tappeti?
No. È fatta di tappeto.
Oh. Capisco – disse il bimbo confuso.
I due fratellini si sporsero per osservare il contenuto della borsa.
.- Ma non c’è nulla dentro! – disse Jane.
Mary Poppins inarcò il sopracciglio piccata.
Nulla, hai detto? – e subito tirò fuori un grembiule bianco inamidato che allacciò attorno alla vita. Poi estrasse una saponetta, una boccetta di profumo, una scatola di forcine e una bottiglia scura con agganciato un cucchiaio. Recava un’etichetta con scritto: “Un cucchiaio prima di andare a dormire"
NUNZIATA
Mio padre portava la sua solita valigia, e lei un’altra, circa della stessa misura. Mentre mio padre, che non m’aveva ancora visto, cercava i biglietti per il controllo, io, per prima cosa, andai davanti a lei e senza spiegazioni le ritolsi di mano il bagaglio: il mio dovere lo sapevo. Ma sentii, per un istante, che essa mi faceva resistenza, quasi m’avesse preso per un rapinatore di valige. Poi, subito, a riconoscere nel mio gesto un indizio, mi guardò tutta animata. E richiamato mio padre con una lieve stratta alla giacca, gli domandò:
— Vilèlm, questo è Arturo?
— Ah, sei qui, — mi disse mio padre. Essa arrossì, per avermi creduto un ladro, e mi fece un piccolo saluto, pieno di confidenza, ma anche di discrezione.
Per fortuna, non le venne in mente di abbracciarmi come usa nel salutarsi fra parenti. Io l’avrei respinta, perché, davvero, non ci si può adattare all’idea che uno è tuo parente, così, da un momento all’altro.
Dopo essermi caricato della sua valigia, mi avvidi ch’essa portava anche una borsa, logora, e così gonfia d’oggetti che non si poteva chiudere. Feci per ritoglierle di mano anche quel peso; ma lei, al mio gesto, strinse più forte la borsa, senza volerla cedere, e rinserrandone la chiusura con le due mani, quasi difendesse un tesoro.
Ci incamminammo tutti e tre lungo il molo, verso la piazzetta del porto. Sebbene impediti dalle valige, io e mio padre andavamo più svelti di lei. Essa camminava goffamente sui suoi tacchi alti, ai quali non pareva avvezza, e che la facevano inciampare ogni minuto.
Io, pensai, avrei preferito di andare a piedi nudi, piuttosto che adattarmi a simili calzature da signora.
Fuori di quei tacchi alti, però, e delle sue scarpette nuove, la sposa non aveva proprio nulla di signorile; né di raro! Che cosa m’ero figurato, forse? Di veder arrivare, al fianco di mio padre, un qualche essere meraviglioso, che attestasse l’esistenza della famosa specie femminile descritta nei libri? Questa napoletana, nei suoi abiti informi, consunti, non appariva molto diversa dalle solite pescatore e popolane di Procida. E m’era bastato, subito, un primo sguardo, per vedere che era brutta, non meno di tutte le altre donne.
Come le altre, era infagottata, aveva il viso bianco e ricolmo, gli occhi mori, e i capelli (di cui lo scialle che le avvolgeva la testa lasciava scoperta appena l’attaccatura), neri come le penne del corvo. E non si sarebbe detto nemmeno che era una sposa: la sua persona sembrava già quella d’una donna fatta, ma non così il suo viso, dal quale io, benché inesperto di età femminili, riconobbi, per una intuizione immediata, ch’essa era quasi ancora una fanciulletta, di poco più anziana di me. Ora, è vero che una femmina, a quindici-sedici anni (ché tanti, circa, lei doveva averne) è già cresciuta e grande; mentre che un maschio, a quattordici, è considerato ancora un ragazzino. Ma tuttavia, sempre più m’indignava la pretesa di mio padre: che io, pur senza contare gli altri motivi, potessi ammettere per madre una persona superiore a me di appena un paio d’anni, se non forse meno!
Essa era di statura piuttosto alta, per una donna; e provai, anzi, vergogna e dispetto all’avvedermi che era di parecchio più alta di me (questo, però, non è durato molto. Mi bastarono pochi mesi per raggiungerla. E alla fine, poi, quando son partito dall’isola, essa mi arrivava a mala pena al mento).
[…] Arturo, col padre Whilelm e la matrigna, Nunziata, arriva a casa. Nunziata visita la casa, così diversa da quella in cui abitava lei con la sua famiglia, dove non avevano una cucina ma usavano “solo un fornello a treppiede, che d’inverno s’accendeva in camera, sul pavimento, e d’estate in istrada, per terra davanti alla porta”. Whilelm tratta la sposa con sufficienza e in sua presenza parla di lei al figlio di lei lasciandogli intendere che si tratta di una giovane povera e ignorante. Al momento di decidere come Arturo dovrà rivolgersi alla matrigna, Nunziata, commossa dal fatto che Arturo non ha mai conosciuto la propria madre, afferma che per lei il ragazzo potrebbe anche chiamarla “ma’” perché lei ha nel cuore il sentimento di fargli da madre. L’espressione contrariata e furente di Arturo, a quella proposta, è inequivocabile. Si stabilisce dunque che potrà chiamarla per nome o come vorrà lui.
La squadrai con alterigia e dispetto: imbacuccata nel suo sciallone nero, con quegli occhioni, essa pareva un gufo, che non vede mai il sole; aveva il viso di cera, come la luna! E chi sa mai quali segreti importanti teneva in quella sua borsetta di pelle tutta sdruscita, rognosa: da quando io l’avevo vista La sposa parve domandarsi se ormai, qui nella cucina, potessimo considerarci arrivati a casa nostra, e il suo viaggio di nozze finito. Dapprima, ne interrogò con gli occhi mio padre; ma poiché lui in quel momento non le badava, si decise per proprio conto e risolutamente si sfilò dai piedi le scarpette dai tacchi alti. Evidentemente, non vedeva l’ora di liberarsene! Con molto rispetto, le depose sopra una sedia, e da allora io non gliele ho riviste addosso mai più. Essa le teneva sempre riposte, come sacri tesori, insieme ad altri ornamenti del suo corredo, che non usava mai.
Fui soddisfatto di vederla diventare più piccola, senza quei tacchi alti: adesso, la differenza fra le nostre stature, che tanto mi umiliava, appariva quasi trascurabile. Essa portava, sopra le calze lunghe di seta, delle calzettine corte di lana scura, rammendate; i suoi piedi erano piccoli, ma di forma tozza e poco elegante; e le sue gambe, dalla caviglia piuttosto grossa, avevano una rozzezza quasi ancora infantile.
Dopo le scarpe, essa si tolse anche lo scialle che, fermato con una spilla sotto il mento, le avvolgeva il capo, e apparvero i suoi capelli, tirati su, e tutti stretti con una quantità di pettini, fermagli e forcine. Questa cosa risvegliò l’attenzione di mio padre, che si mise a ridere: — Che hai fatto! — le disse, — ti sei tirata su i capelli! È stata màmmeta! No, non mi piace. Tanto, si vede lo stesso che non sei una fémmena grande. Vieni qua, voglio rifarti io bella, come piaci a me.
Ella ci guardò, sottomessa ma esitante, e per colpa di questa esitazione la volontà di mio padre si accese più forte. Con una animazione inaspettata, impetuosa, egli le ripeté di avvicinarsi. Allora, io potei vedere la paura enorme ch’essa aveva di lui: pareva dovesse affrontare un brigante armato, e stava là, combattuta fra l’ubbidienza e la disubbidienza, senza poter decidere quale delle due la spaventasse di più. E mio padre con un passo la raggiunse e l’afferrò: essa tremava, con una espressione selvatica, quasi che lui l’avesse presa per malmenarla.
Nella luce del ponente
Mio padre intanto ridendo le strappava i fermagli e i pettini, e le disordinava i capelli con tutte e due le mani, e pettinini e forcine cadevano da ogni parte. Una grande capigliatura nera, tutta di riccioli e boccoli naturali, come una pelliccia selvaggia, le scendeva scompigliata intorno al viso, fino alle spalle. Il suo viso s’era fatto ombroso e quasi protervo, e nei suoi occhi s’era acceso uno splendore di lagrime; essa non ardiva, però, di schivare mio padre; solo, quando lui ebbe finito di disfarle i capelli, squassò forte la testa, con l’atto che si vede fare talvolta ai cavalli, o anche ai gatti.
Io guardavo incuriosito tutti quei riccioli, anche perché m’era tornata in mente una certa frase detta, pochi minuti prima, da mio padre; ma egli indovinò il mio dubbio, e mi disse:
— Che t’immagini, tu, Arturo! No, no: l’hanno spidocchiata bene, per le sue nozze.
Egli la tratteneva per la gonna; ma essa non tentava neppure di fuggire. Con una mano stringeva sempre la sua preziosa borsetta, nascondendola un poco dietro il fianco, per proteggerla dalla turbolenza di mio padre; e rimaneva docile, fra noi due, di fronte alla porta vetrata. Adesso, le sue iridi, che nella penombra erano nere nere, rivelavano screziature diverse, come le penne dei galletti. Il cerchio, invece, che le disegnava le iridi, era proprio scuro morato, simile a un orletto di velluto. E intorno, il bianco dell’occhio si serbava ancora intinto di viola-azzurrino, come nelle creature piccole.
Le sue guance erano piene e rotonde, come in quei volti che, ancora, non hanno preso la forma precisa della gioventù. E i suoi labbri, un poco screpolati dal freddo, somigliavano a certi fruttini rossi (sempre un poco rosicchiati dagli scoiattoli, o dai conigli selvatici), che crescono a Vivara.
Adesso, che m’appariva per la prima volta in piena luce, la sua faccia dimostrava ancora meno dell’età che io le avevo dato da principio, sul molo. Se il suo corpo, alto e sviluppato, non l’avesse smentita, si sarebbe creduto, a vederla, ch’essa era ancora negli anni dell’infanzia. La sua pelle era chiara, pura e liscia, quasi che perfino la tela, con cui s’asciugava il viso, fosse stata attenta a non sciuparla. Essendo donna, certo essa aveva passato tutta la sua vita rinchiusa: perfino sulla fronte, e intorno agli occhi, dove noialtri, avvezzi al sole, abbiamo sempre qualche ruga o qualche macchia, lei non aveva nessun segno. Le sue tempie erano d’una bianchezza quasi trasparente: e nell’incavo delle sue orbite, sotto l’occhio, la sua pelle bianca, intatta e liscia somigliava a quei petali delicati, che aperti non durano nemmeno un giorno, e appena cogli il fiore, si ombrano.
Il suo collo, sotto quel gran capo chiomato, appariva assai sottile, ma dalla gola al mento c’era una curva ricolma, tenera. Là, ella era di un colore ancora più candido che in viso; e adesso, là vicino, le si era posato un boccolo nero. Altre due frezze più lunghe, tutte inanellate, le toccavano una spalla, e dietro la nuca, quasi sotto l’orecchio, le spuntavano alcuni ricciolini corti, simili a quelli delle capre. Dei grandi riccioli pesanti le coprivano la fronte fino ai sopraccigli; e sulla tempia, invece, aveva un boccoletto leggero, fino, che si muoveva a ogni respiro.
La sua capigliatura pareva cresciuta a capriccio, secondo la fantasia. Per me, che non li avevo mai veduti prima, era un divertimento osservare tutti quei riccetti e boccoli; ma per lei, avvezza a portarli fino da piccola, essi non dovevano avere niente di straordinario, erano una cosa naturale. Se ne avvolgeva uno attorno a un dito, per nascondere l’esagerato turbamento in cui l’aveva messa mio padre; e poco dopo, vergognandosi d’esser tanto scapigliata, se li scansò familiarmente, con la mano, d’intorno alla faccia. Allora, apparvero scoperti i suoi orecchi, minuti, ben fatti, che si distinguevano, con la loro tinta rosa, dalla bianchezza del viso e del collo. Secondo la solita usanza delle donne, essa aveva i lobi forati; e vi portava infilati due cerchietti d’oro, di quelli che le femmine, il giorno del battesimo, ricevono in dono dalla comare.
Mentre si riassestava, per istinto, i capelli, ella non sapeva liberarsi, tuttavia, dalla sua misteriosa paura, e aveva un’aria sperduta, di allarme, vicino a mio padre. Mio padre fece sventolare, con una scossa impetuosa, il lembo di gonna per cui la tratteneva, e la lasciò: — Io, — le dichiarò in tono capriccioso e avverso, — ho preso una fidanzata ricciolella, e voglio una moglie ricciolella — Essa rispose, con voce mite e tremante:
— Ma io mica vi porto collera, se m’avete disfatto i capelli. Voi ditemi la vostra volontà, e io faccio come volete voi.
— E che nascondi, là? — le disse mio padre. — Avanti, mostraci i tuoi gioielli.
E con una risata aggressiva le strappò di mano la famosa borsa, rovesciando sulla tavola tutto quello che conteneva. Erano sul serio dei gioielli! un mucchio di bracciali, spille, collane, quasi tutti regalatile da mio padre durante il fidanzamento.
Io, che non ero esperto di simili cose, ritenni, da principio, che fosse tutto oro vero, topazi, rubini, perle e diamanti veri. Invece, erano gingilli falsi, comperati alle fiere o sui carrettini. Mio padre l’aveva conquistata con dei pezzi di vetro, come si fa coi selvaggi.
Di vero, in quel mucchio, c’era solo qualche ramo di corallo, e un anellino d’argento, con una Madonna incisa, che le aveva regalato la sua comare per la cresima, e che adesso non le entrava più.
(Tutti quei gioielli, essa non li portava mai: li teneva riposti nell’armadio, con adorazione religiosa. Addosso, non portava altro che gli orecchini della Comare, la medaglia d’argento col Sacro Cuore, infilata a un cordoncino, e la fede: ma questi per lei non erano nemmeno dei gioielli, erano parte del suo corpo, come i riccioli).