BioTecnoMondo

Possiamo vaccinare le piante?

La biotecnologia permette di vaccinare le piante malate grazie all’introduzione di segmenti di Dna, come accadde per la papaya hawaiana

di Shane Mason


L’industria della papaya delle Hawaii degli anni ’90 si è trovata in pericolo a causa del virus RingSpot, Prsv (Papaya RingSpot Virus). Il virus, trasmesso dagli afidi, attacca le piante che non possono essere curate. La pianta malata perde la capacità di compiere la fotosintesi clorofilliana e l'unica soluzione per evitare la diffusione del virus è distruggerla.

Alcuni ricercatori dell’Università delle Hawaii e di Cornell hanno però trovato un metodo simile alla vaccinazione per rendere la papaya resistente al virus. Hanno iniettato nelle piante virus modificati che generano la resistenza al Prsv.

Tali virus non possono essere trasmessi direttamente ai figli, ma con la biotecnologia possono essere inseriti nel codice genetico come se fosse una vaccinazione permanente, in modo tale da essere trasmessi alla generazione successiva.

La prima idea è stata quella di iniettare, nel Dna della pianta, la sequenza di una delle proteine di cui è composta la capsula esterna del virus. La tecnica utilizzata per l'iniezione è il metodo biolistico che consiste nello scagliare nelle colture di tessuti di Papaya delle palline di tungsteno ricoperte dalle sequenze di Dna. Nel caso in cui queste palline raggiungano la cellula, rilasciano il Dna del virus che così si incorpora in quello della cellula.

La pianta vaccinata subisce però un cambiamento, come per esempio il colore della sua polpa che diventa meno pregiata anche se gode di ottima salute.

Come abbiamo visto, la biotecnologia ha ridotto l'epidemia di virus RingSpot e ha salvato l'industria della papaya, nonostante vi siano oppositori contro la tecnologia transgenica. Per evitare impollinazioni indesiderate tra la papaya modificata e la papaya convenzionale i coltivatori Ogm e non-Ogm devono parlarsi.

Un batterio per sterminarle tutte

L’Enea ha sviluppato una nuova biotecnologia basata sull’utilizzo del batterio Wolbachia, che limita la riproduzione della zanzara tigre ed elimina la sua capacità di trasmettere virus

di Marta Zocco



Quante volte abbiamo augurato a questi insetti fastidiosi di sparire per sempre dalla faccia della Terra?

Oggi questo sogno può diventare realtà grazie al lavoro di alcuni scienziati italiani.

Elena Lampazzi, Riccardo Moretti e Maurizio Calvitti, ricercatori del team Enea, hanno introdotto nella zanzara dei ceppi specifici del batterio Wolbachia e hanno osservato che negli esemplari femmina, la capacità di trasmettere il virus Zika si è azzerata mentre quella di trasmettere i virus di Dengue e Chikungunya si è ridotta a meno del cinque percento. Gli esemplari maschi sono stati in grado di rendere sterili le femmine selvatiche dopo la fase di accoppiamento e l’intera prole prodotta da queste, ha ereditato il fattore di sterilità.

Questa biotecnologia non si basa su modificazioni genetiche, ma sulla manipolazione della naturale flora batterica dell’apparato riproduttivo degli insetti. Essa utilizza ceppi batterici già diffusi nell’ambiente e del tutto innocui per l’uomo.

I ricercatori di Enea hanno somministrato un antibiotico per rimuovere il batterio Wolbachia dalle cellule del tessuto riproduttivo della zanzara tigre. Poi lo hanno sostituito, tramite microiniezione embrionale, da varianti diverse dello stesso batterio, prelevate dalla zanzara comune e dal moscerino della frutta, che hanno permesso di ottenere sterilità e diminuzione trasmissione virus.

Questo metodo costituisce un’alternativa agli insetticidi artificiali, nocivi per l’ambiente, è ecocompatibile e quindi sfruttabile in sicurezza anche nei centri urbani.

Nonostante esso non sia ancora utilizzato in Europa, il Ministero della Salute italiano ha permesso la sperimentazione in campo su aree controllate.

Possiamo dunque sperare di dire presto addio alle zanzare!

La bambina dei record

Dopo anni di difficoltà, una coppia negli Stati Uniti d’America riesce finalmente ad avere due bambine grazie a un’associazione no profit trovata per caso in uno spot pubblicitario

di Gaia Marconato


Nell’ottobre dello scorso anno, nel Tennessee, Tina e Ben Gibson hanno adottato Molly, la prima bambina al mondo nata da un embrione congelato 27 anni fa. La bambina ha solo due anni in meno della madre! Ha anche una sorella, Emma, venuta al mondo nel 2017 grazie a un altro embrione congelato 24 anni prima.

I signori Gibson, seppur giovani, hanno riscontrato difficoltà nell’avere bambini in modo naturale, ma grazie a uno spot pubblicitario hanno trovato la luce alla fine di questo profondo tunnel. Hanno infatti contattato la Nedc (National Ebryo Donation Center), associazione vista nella pubblicità, nata 17 anni fa che è riuscita a far adottare mille embrioni provenienti da 300 donatori differenti.

I due giovani genitori hanno deciso quindi di aderire all’associazione, prima con l'adozione dell’embrione di Emma e in seguito con quello di Molly. Le due bambine sono geneticamente sorelle: sono state donate e congelate insieme.

Il caso della bimba americana è un esempio di quanto tempo un embrione congelato possa resistere, perché la conservazione in azoto liquido è vicina allo zero assoluto, per l’esattezza a -195 gradi Celsius. A quella temperatura le attività degenerative della cellula si fermano, rimane soltanto una mobilità cellulare molto limitata che fa sì che la cellula rimanga viva.

La stessa Nedc afferma che la data di scadenza della cellula congelata è infinita, ma il tempo di congelamento è ancora limitato dall’età della tecnologia. I requisiti che gli embrioni devono presentare per poter essere congelati sono molto rigidi, poiché i processi di congelamento e scongelamento possono danneggiarli.

Ecco uno dei tanti esempi della straordinaria crescita della conoscenza scientifica, soprattutto nel campo della crioconservazione embrionaria.

Prime:
un nuovo editing genomico

David Liu dell'Università di Harvard ha trovato un nuovo modo di modificare il Dna, più preciso ed efficiente

di Daniele Pistolesi


Arriva un nuovo tipo di editing genomico. Dopo quello classico e dopo il base editing, il prime editing sbarca nel mondo delle biotecnologie con una nuova tecnica che potrebbe rivoluzionare questo settore.
Questo nuovo editing usa lo stesso enzima dei due precedenti: cas9, che grazie a una molecola guida di Rna, permetteva di arrivare al tratto di Dna prescelto in modo da tagliare e modificare il Dna. David Liu, docente ricercatore all'Università di Harvard e inventore di prime, è riuscito a rendere l’enzima cas9 doppiamente programmabile: al posto di recidere il Dna, grazie ad un agente chimico, riesce a trasformare le lettere delle basi azotate.
Il base editing era simile come funzione, ma non era doppiamente programmabile e ciò permetteva di effettuare solo quattro delle dodici conversioni possibili. Decisivo l’intervento di Andrew Anzalone che trova il modo di rendere doppiamente programmabile l’enzima, in modo che, oltre ad individuare il sito dove apportare le modifiche, possa portare le informazioni su quali tipi di modifiche effettuare.
Così il prime editing riesce a intervenire in conversioni più complesse e precise, come quelle per guarire malattie genetiche come la Tay Sachs e l’Anemia Falciforme con bassissime probabilità di effetti indesiderati e una probabilità di successo del 35 e 55 per cento. Inoltre riesce a convertire le lettere in modo da raggiungere sulla carta l’89 per cento di successo sulle correzioni di malattie genetiche.
Le premesse di questa tecnica sono di arrivare a un modello di editing genomico che riesca a correggere la totalità dei tratti del Dna e Liu conta sullo sviluppo di prime per raggiungere questo obiettivo.
Prime sembra quindi essere l’editing migliore tra i tre conosciuti, per il futuro del settore delle biotecnologie.

Clonazione o tortura cinese?

La clonazione permette di duplicare il patrimonio biologico di qualsiasi essere vivente con produzione di individui identici, come nel caso delle scimmiette cinesi clonate e “torturate”

di Elisa Poretti


Che effetto ti fa l’idea che da qualche parte del mondo possa esserci qualcuno identico a te?
Per fortuna o purtroppo, le clonazioni sugli animali non sono terminate, ma al contrario si sono protratte nel tempo, fino ad arrivare al 2019, quando, in Cina, sono state clonate delle scimmiette insonni. Gli scienziati cinesi volevano studiare gli effetti dei disturbi del sonno e patologie come la schizofrenia e la depressione. Ma Michela Kuan, biologa e responsabile nazionale del settore vivisezione della Lav (lega anti vivisezione italiana), non crede a questa motivazione e spiega che secondo lei con questi esperimenti si vuole raggiungere la clonazione umana. La tecnica messa in atto, sostiene la Kuan, ha una percentuale di riuscita del 25%, e di conseguenza provoca una sofferenza negli animali e uno sfruttamento inconcepibile.
Esistono tre tipi di clonazione: Embrionale, Riproduttiva e Terapeutica. La più diffusa e utilizzata è la Riproduttiva. In questo tipo di clonazione si usa la tecnica Scnt (Somatic cell nuclear transfer), che unisce la cellula uovo enucleata (privata del suo nucleo), con il nucleo di quella somatica (tutte le cellule che compongono il corpo umano), per creare un embrione. In seguito viene impiantata la blastocisti, stadio di sviluppo dell'embrione a 6/7 giorni dalla fecondazione, in un animale adulto che porterà alla nascita di un clone del donatore. La Snct è la tecnica che possiamo ritrovare anche nella pecora Dolly, il primo mammifero ad essere stato clonato a opera degli scienziati Willmut e Campbell in Scozia nel 1997.
A 20 anni dalla nascita di Dolly, la maggior parte dei benefici attesi dalla clonazione non sono emersi. Ma questo evento ha cambiato per sempre il pensiero scientifico.

USA: via libera ai salmoni Ogm

Sebbene le perplessità iniziali soprattutto da parte degli ambientalisti, non solo i produttori, ma anche gli scienziati garantiscono che i pesci Ogm non sono dannosi, anzi facilitano la produzione e la protezione delle specie a rischio

di Francesco Porro


Le ricerche per ottenere salmone geneticamente modificato sono iniziate negli anni Novanta da parte dell’azienda statunitense AcquaBounty Technologies. Il permesso da parte degli organi competenti, per la commercializzazione, è arrivato dopo vent’anni.
Il nuovo salmone contiene i geni di due altri pesci: il salmone reale e un pesce simile all’anguilla. Le modifiche genetiche consentono al salmone Ogm di produrre livelli costanti dell’ormone della crescita così da poter raggiunge le dimensioni di un adulto in 16/18 mesi, invece che nei consueti due anni e mezzo.
La Food and Drug Administration (Fda), l’Agenzia federale statunitense che si occupa di regolamentare i farmaci e gli alimenti, ha autorizzato nel 2015 la commercializzazione negli Usa. Con qualche condizione: il pesce potrà essere allevato in due stabilimenti attrezzati uno in Canada e uno a Panama, dentro vasche buie e chiuse, dove non si mescolano con altre specie nemmeno attraverso le acque di scarico.
La presenza di pesci Ogm in un ecosistema non è pericolosa, affermano gli scienziati, ma gli ambientalisti temono che questi pesci possano interagire con gli ecosistemi naturali in modo dannoso. Si preoccupano della capacità dei pesci transgenici di competere, persistere e riprodursi in un ambiente naturale, così da divenire una specie invasiva. Come precauzione, molte società d’ingegneria genetica come l'Acqua Bounty Technologies, hanno modificato i loro salmoni per renderli sterili, affinché mantenessero solo una parte del pesce Ogm fertile.
Come affermano i produttori, la vendita del salmone Ogm, non solo offre un’alternativa al normale pescato, così da poter ridurre la pesca commerciale sui pesci selvatici, ma permette di ottenere più carne in meno tempo e con meno costi.

Tabacco selvatico
per combattere il Covid-19

Un consorzio internazionale utilizza il genoma della pianta Nicotiana Benthamiana per la produzione di un vaccino efficace contro il Covid- 19

di Diego Franchi


La Nicotiana Benthamiana, pianta originaria dell’Australia, utilizzata in precedenza per la produzione di biofarmaci, è ora protagonista nella ricerca per la produzione di vaccini.

Lo studio è condotto nell’ambito del Progetto Newcotiana ed è finanziato dal programma europeo Horizon 2020 con oltre sette milioni di euro. Si sfrutta la alla messa a disposizione del genoma decodificato della Nicotiana benthamiana da parte del consorzio internazionale coordinato dalla Queensland University of Technology di Brisbane (Australia), composto da quattro centri di ricerca tra cui ENEA.

Giovanni Giuliano, genetista e coordinatore del progetto per ENEA dichiara: l’utilizzo del genoma decodificato della Nicotiana Benthamiana è una grande novità, per la prima volta è stata sequenziata una pianta non alimentare.

Numerosi gruppi di ricerca pubblici e privati sono al lavoro per per sviluppare reagenti diagnostici e vaccini per combattere la pandemia Covid-19 ma uno dei maggiori problemi è la produzione in grandi quantità e a costi ridotti.

Ecco che una soluzione a questo problema è quella di utilizzare le piante come vere e proprie biofabbriche grazie alla possibilità di essere coltivate in grandi quantità utilizzando semplici tecnologie agricole.

Un altro punto a favore per l’utilizzo della Nicotiana Benthamiana è che, in quanto pianta non commestibile, non crea problemi di contaminazione accidentale della catena alimentare.

Organi in laboratorio,
il futuro della medicina?

Una ricerca internazionale ha portato alla costruzione il laboratorio di un organo umano complesso e funzionante

di Ridoy Ahmed


Un gruppo internazionale di scienziati è riuscito a ricostruire il timo e ha pubblicato i risultati sulla prestigiosa rivista Nature Communications.
Il timo genera linfociti T, cioè cellule immunitarie, fondamentali per proteggere il corpo dalle malattie. Questo organo “insegna” ai nuovi linfociti a riconoscere le proteine estranee al corpo, attraverso le diversità. Non è quindi semplice riprodurne uno.
Per poterlo ricostruire bisogna utilizzare una struttura sintetica simile al corpo umano, ottenuta di solito da un organo al quale rimane solo la struttura proteica. Ma il timo è un organo piuttosto piccolo quindi questo approccio non è possibile. Per ora si utilizzano quindi, come modlli, i topi, nei quali hanno trapiantato cellule staminali che producono le cellule del sangue. Da questi animali gli scienziati hanno ricavato “l’impalcatura” proteica.
Per completare la rigenerazione hanno fatto crescere su queste impalcature cellule staminali prelevate da giovani pazienti di cardiochirurgia. A questo punto il timo viene trapiantato nei topi e osservato per controllarne le funzionalità. Li hanno valutati anche in vitro dai quali hanno scoperto che sono in grado di ampliarsi e di produrre citochine, proteine importanti per la comunicazione all’interno del sistema immunitario.
I ricercatori del team internazionale hanno ricavato molte informazioni utili per le future tecniche mediche. A questo proposito, Paola Bonfanti del Francis Crick Institute di Londra, dichiara che questa ricerca in futuro migliorerà le conoscenze del nostro sistema immunitario e dello studio dei tumori, combattuti dalle cellule prodotte dal timo, e che porterà ad altre importanti innovazioni in campo medico. Questo traguardo è però solo l’inizio di una lunga strada.

Nano gru molecolari

Nel settembre del 2017 un gruppo di ricercatori del California Institute of Technology ha realizzato robot in miniatura fatti di Dna

di Matteo Cartanese


Immaginate piccoli robot che svolgano le faccende di casa al posto vostro. E se la casa fosse il vostro corpo? Questi nano aiutanti potrebbero raggiungere zone inoperabili dall’uomo.
Ecco in sintesi l’idea un gruppo di ricercatori del California Institute of Technology, guidati da Anupama J. Thubagere
: robot in miniatura realizzati con singoli filamenti di Dna, capaci di spostare microparticelle in punti desiderati di ambienti incredibilmente minuscoli.

Questi prototipi di robot sono formati da filamenti di Dna e divisi in tre blocchi principali, una “gamba”, due “piedi” in grado di viaggiare su guide molecolari e una “mano”.

I ricercatori hanno scelto il Dna come materiale di partenza grazie alle sue semplici caratteristiche chimiche. Il singolo filamento è formato dalle basi azotate, adenina, timina, guanina e citosina. Grazie a queste sequenze si possono comandare i filamenti, è possibile allungare le braccia oppure cambiare la piattaforma molecolare dove queste macchine si spostano. Si riesce così a modificare il percorso dei robot o il posto su cui devono posizionare le microparticelle.

Nelle prove effettuate, i ricercatori hanno posizionato diversi tipi di molecole di differenti colori (rosa, giallo) da raccogliere e depositare in luoghi specifici: il robot ha effettuato le “consegne” entro 24 ore, in ogni viaggio ha spostato tre molecole nel posto prestabilito, con l’80% di precisione. Ogni spostamento era di 6 nanometri e impiegava 5 minuti di tempo.

In un futuro questi robot potrebbero diventare veri e propri operai del corpo umano in grado di trasportare farmaci in posti non raggiungibili o sostituire materiale molecolare.

Un algoritmo prodigioso

Grazie al lavoro di ricerca della DeepMind Company è ora possibile prevedere il modo in cui le proteine si ripiegano

di Francesco Zucchi


L’algoritmo Alphafold della DeepMind Company, un’azienda di programmazione statunitense, ricostruisce la forma delle proteine una volta ripiegate. I polimeri, ovvero le proteine, sono catene di amminoacidi che assumono incalcolabili varietà di forme, riconducibili a quattro strutture principali. E' quindi fondamentale comprendere la stretta relazione che esiste tra la loro forma e la loro funzione.
Quando una proteina cambia forma perde anche la sua funzione. Per curare le malattie derivanti dalla non funzionalità delle proteine sono stati condotti diversi studi.

Il primo scienziato che comprese che le proteine possono riguadagnare la loro forma originale da sole fu Christian Anfinsen, che spiegò come fosse la sequenza peptidica (di amminoacidi) a codificare le regole del ripiegamento.

La sfida degli scienziati era di trovare quelle regole e prevedere il percorso di piegatura. E' stato un grande successo.

Questo algoritmo è la porta di accesso alla scoperta delle cure per malattie come l'Alzheimer o come quelle causate dall’errato ripiegamento delle proteine.

Alcuni scettici però, tra cui Wendy M. Williams, dubitano dell’accuratezza di Alphafold e affermano che non è prudente fidarsi dell'algoritmo senza il supporto di strumenti più autorevoli come la cristallografia. Questi studiosi sono dubbiosi anche riguardo al metodo con cui Alphafold opera. Esso infatti non dice nulla sul meccanismo di piegatura della proteina, ma ne prevede soltanto la struttura finale grazie all’apprendimento automatico standard che utilizza le proteine già inserite nel Protein Data Base.