[14] Iam docebo quemadmodum intellegas te non esse sapientem. Sapiens ille plenus est gaudio, hilaris et placidus, inconcussus; cum dis ex pari vivit. Nunc ipse te consule: si numquam maestus es, <si> nulla spes animum tuum futuri exspectatione sollicitat, si per dies noctesque par et aequalis animi tenor erecti et placentis sibi est, pervenisti ad humani boni summam; sed si appetis voluptates et undique et cmnes, scito tantum tibi ex sapientia quantum ex gaudio deesse. Ad hoc cupis pervenire, sed erras, qui inter divitias illuc venturum esse te speras, inter honores, id est gaudium inter sollicitudines quaeris: ista, quae sic petis tamquam datura laetitiam ac voluptatem, causae dolorum sunt. [15] Omnes, inquam, illo tendunt ad gaudium, sed unde stabile magnumque consequantur ignorant: ille ex conviviis et luxuria, ille ex ambitione et circumfusa clientium turba, ille ex amica, alius ex studiorum liberalium vana ostentatione et nihil sanantibus litteris - omnes istos oblectamenta fallacia et brevia decipiunt, sicut ebrietas, quae unius horae hilarem insaniam longi temporis taedio pensat, sicut plausus et acclamationis secundae favor, qui magna sollicitudine et partus est et expiandus. [16] Hoc ergo cogita, hunc esse sapientiae effectum, gaudii aequalitatem. Talis est sapientis animus qualis mundus super lunam: semper illic serenum est. Habes ergo et quare velis sapiens esse, si numquam sine gaudio est. Gaudium hoc non nascitur nisi ex virtutum conscientia: non potest gaudere nisi fortis, nisi iustus, nisi temperans. [17] 'Quid ergo' inquis, 'stulti ac mali non gaudent?' Non magis quam praedam nancti leones: cum fatigaverunt se vino ac libidinibus, cum illos nox inter vitia defecit, cum voluptates angusto corpori ultra quam capiebat ingestae suppurare coeperunt, tunc exclamant miseri Vergilianum illum versum:

namque ut supremam falsa inter gaudia noctem egerimus nosti.

[18] Omnem luxuriosi noctem inter falsa gaudia et quidem tamquam supremam agunt: illud gaudium quod deos deorumque aemulos sequitur non interrumpitur, non desinit; desineret, si sumptum esset aliunde. Quia non est alieni muneris, ne arbitrii quidem alieni est: quod non dedit fortuna non eripit. Vale.

Solo il saggio è felice

Ti insegnerò come tu possa renderti conto di non essere saggio. Il saggio è pieno di gioia, allegro e sereno, imperturbabile; la sua vita è pari a quella degli dèi. E ora esamina te stesso: se non sei mai triste, se nessuna speranza ti fa trepidare in attesa del futuro, se notte e giorno il tuo spirito fiero e soddisfatto di sé mantiene un atteggiamento stabile e sempre uguale, hai toccato il culmine dell'umano bene; ma se cerchi dovunque ogni genere di piaceri, sappi che ti mancano ugualmente saggezza e gioia. Vuoi raggiungerla, ma sbagli se speri di arrivarci tra le ricchezze e gli onori: cerchi cioè la gioia tra gli affanni: i falsi beni, cui aspiri convinto che ti daranno contentezza e piacere, sono causa di dolori. Tutti, lo ribadisco, tendono alla gioia, ma ignorano dove sia possibile trovarne una duratura e intensa: c'è chi la cerca nei banchetti e nell'intemperanza, chi nell'ambizione e nella folla dei clienti che gli si accalcano intorno, chi nell'amante, chi poi nella vana ostentazione delle scienze liberali e negli studi letterari che non giovano a niente; tutti costoro si lasciano ingannare da piaceri fallaci e di breve durata, come l'ubriachezza che fa scontare l'allegra pazzia di un'ora con un lungo malessere, come gli applausi e il favore della folla acclamante che si ottiene e si paga a prezzo di gravi preoccupazioni. Riflettici; questo è il risultato della saggezza: una gioia stabile. L'animo del saggio è come il mondo sulla luna: là c'è sempre il sereno. Hai, dunque, un valido motivo per desiderare la saggezza: una gioia perpetua. Questa gioia nasce unicamente dalla coscienza delle proprie virtù: può gioire solo l'uomo forte, giusto, temperante. "E allora?" chiedi. "Gli stolti e i malvagi non provano gioia?" Non più dei leoni che conquistano la preda. Quando sono stanchi di vino e di orge, quando hanno passato la notte negli stravizi, quando i piaceri accumulati smisuratamente nel corpo cominciano a farlo marcire, allora, infelici, gridano quel famoso verso virgiliano:

Tu sai come abbiamo trascorso l'ultima notte tra false gioie.

I lussuriosi passano ogni notte tra false gioie e come se fosse l'ultima: ma quella gioia che tocca agli dèi e a chi li emula è continua, senza fine; finirebbe, se derivasse da altri. Ma poiché non è un dono di altri, non è soggetta all'arbitrio altrui: la sorte non può strappare ciò che non ci ha dato. Stammi bene.

Commento

Seneca, in questa lettera, sostiene che la felicità si identifica con la sapientia. Fuori dall'equilibrio interiore non esiste possibilità di sentirsi felice; anzi, ciò che gli uomini comuni ritengono indispensabile al fine di raggiungere la felicità (ricchezza, potere, fama) non fanno altro che produrre ansia.

La felicità appare qui come una condizione catastematica*, vicina a quella ricercata dagli epicurei e descritta da Lucrezio nel ''De Rerum Natura''.

Il saggio è uguale agli dei, si innalza al loro livello, perciò vive in uno stato di perenne benessere. Seneca, dunque, inquadra la figura dell'uomo felice nel saggio, caratterizzato da gioia immensa e stabile. La parola chiave di questo testo è gaudium, che indica lo stato emotivo raggiunto dal saggio stesso: plenus gaudio ("pieno di gioia"), biliaris ("allegro"), placidus ("calmo"), inconcussus ("imperturbabile"), ex pari cum dis ("simile agli dei").

Questa sua condizione di serenità gioiosa è la discriminante che serve a distinguere l'uomo comune dal saggio.

Nell'ottica di Seneca c'è una nota di amarezza legata alla sua sfiducia verso il destino: meglio non attendersi nulla dall'eterno, ma far accrescere la propria anima per essere felici.


*catastematico: caratterizzato da assenza di dolore e turbamento.

Autori a confronto: Lucrezio

Dal "De rerum natura"

Suave, mari magno turbantibus aequora ventis,

e terra magnum alterius spectare laborem;

non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,

sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est. 5

5Suave etiam belli certamina magna tueri

per campos instructa tua sine parte pericli.

Sed nil dulcius est, bene quam munita tenere

edita doctrina sapientum templa serena,

despicere unde queas alios passimque videre

10errare atque viam palantis quaerere vitae, 10

certare ingenio, contendere nobilitate,

noctes atque dies niti praestante labore

ad summas emergere opes rerumque potiri.

O miseras hominum mentis, o pectora caeca!

15qualibus in tenebris vitae quantisque periclis 15

degitur hoc aevi quodcumquest! nonne videre

nil aliud sibi naturam latrare, nisi utqui

corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur

iucundo sensu cura semota metuque? 20

. . .

Nam veluti pueri trepidant atque omnia caecis 55

in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus

interdum, nilo quae sunt metuenda magis quam

quae pueri in tenebris pavitant finguntque futura.

Hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest

60non radii solis neque lucida tela diei 60

discutiant, sed naturae species ratioque.

Traduzione

(È) gradevole, quando nel vasto mare i venti sconvolgono le distese marine,

da terra guardare il grande affanno di un altro;

non perché sia una piacevole gioia il fatto che qualcuno sia travagliato,

ma perché è gradevole vedere da quali mali tu stesso sia libero.

(È) gradevole anche vedere grandi contrasti di guerra

disposti attraverso i campi di battglia senza tua parte di pericolo.

Ma nulla è più piacevole che occupare i ben protetti

spazi sereni innalzati dall'insegnamento dei sapienti,

donde tu possa guardare dall'alto gli altri e vederli qua e là

errare e cercare vagando la via della vita,

gareggiare in ingegno, contendere in nobiltà,

notte e giorno sforzarsi con straordinaria fatica

per emergere alle più grandi ricchezze e per impadronirsi del potere.

O infelici menti degli uomini, o animi ciechi!

In quali tenebre di vita e in quanto grandi pericoli

si trascorre questa esistenza, qualunque essa sia! Non vedere

che null'altro la natura pretende per sé, se non che

separato dal corpo il dolore sia assente, che goda nell'animo

di una piacevole sensazione, lontana dalla preoccupazione e dalla paura?

. . .

Infatti come i bambini trepidano e tutto nelle cieche

tenebre temono, così noi nella luce temiamo

talvolta le cose che non sono da temere per nulla più di

quelle che i bambini nelle tenebre paventano e immaginano che accadranno.

Dunque questo terrore dell'animo e queste tenebre è inevitabile

che non i raggi del sole né i luminosi dardi del giorno

disperdano, ma la visione della natura e la ragione.


Tornando a Lucrezio, degno di nota è il confronto tra il concetto di felicità tra l'autore epicureo e Seneca. Dal "De Rerum Natura" possiamo estrarre un frammento del proemio del secondo libro (De Rerum Natura II, 1-61). http://www.poesialatina.it/_ns/Greek/tt2/Lucrezio/L2_0001-0061.html

Questo brano concerne il tema fondamentale dell'epicureismo: la felicità conquistabile per mezzo dell'ataraxia.

Il contenuto è semplice e diretto: è bello guardare gli altri affannarsi perché serve a prendere coscienza dei tormenti di cui si è privati. La potenza e la ricchezza non rendono felici, solo la luce della razionalità potrà illuminare il cammino verso la nostra meta e scacciare le tenebre dai nostri cuori.

Il Saggio può guardare l'irrequietezza altrui in modo lucido e distaccato di chi ha raggiunto la pace delle passioni. Tuttavia l'analisi del testo ci indica un percorso di interpretazione alternativo, in cui non è tanto la pace a essere in primo piano, ma il tormento esistenziale, la ricerca disordinata e ansiosa della viam vitae (- la via della vita-). I templa serena, cui Lucrezio allude, con esaltato entusiasmo, non sembrano escludere, infatti, definitivamente, l'inquieta, frenetica ricerca; l'insistito suave, suave, suave, più che la stasi del traguardo atteso, si configura come una pausa preziosa e desiderata (un intervallum insaniae), una fase, precaria e fragile, con cui ci si è tolti, almeno per quel momento, dalla mischia. Un po 'come l'infinito leopardiano che, lungi dal costituire un punto d'arrivo, rappresenta un brivido dolcissimo, fugace e faticoso.

La defezione dalle passioni della vita, perciò, diventa l'alternativa irrinunciabile alla stupidità del vivere. Tuttavia, l'orgoglio della conquistata serenità non basta a rimuovere il brivido di smarrimento che, comunque, coglie l'uomo alla vista delle tenebre e dei pericoli: qualibus in tenebris vitae quantisque periclis / degitur hoc aevi quodcumquest. Centro poetico del testo, quindi, non sembra essere il saggio, in cui vuole identificarsi Lucrezio che, nella sua appartata serenità, guarda il mondo degli altri, di quelli che vanamente si agitano. E', invece, la viam vitae alla cui ricerca insensata si protende l'anonima umanità dolorante, cieca nel suo disordinato brancolare. La monotona scelta lessicale indirizza, infatti, verso due campi semantici fortemente prevalenti e contrapposti (come accade di frequente in Lucrezio): vedere e buio-cecità.

Autori a confronto: Leopardi

Testo

Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perché è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. né per durata, 2. né per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perché nessun piacere è eterno, 2. né la sua estensione, perché nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perché, come ho detto non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perché è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con se materialmente l’infinità, perché ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è indeterminata, e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perché non si può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera illimitata. Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, [166] trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell’anima, perché quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago. Se anche fosse possibile che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata, perché la natura delle cose porta ancora che niente sia eterno.

. . .

Quindi potrete facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre, del che ci facciamo tanta maraviglia, come se ciò venisse da una sua natura particolare, quando il dolore la noia ec. non hanno questa qualità. Il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perchè non si tratta di una piccola ma di una somma [167] inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perché l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato.


Altro confronto che possiamo fare con il testo di Seneca è quello con Leopardi.

La riflessione del poeta latino può essere paragonata a quella del recanatese, esposta nel suo diario personale: lo Zibaldone (165-166). https://luciopicca.blogspot.com/2017/01/zibaldone-165-172.html Le affermazioni di Seneca vengono qui smentite attraverso la "teoria del piacere", uno dei fondamenti del suo pessimismo.

Seneca dà per scontata la felicità del saggio, mentre lo Zibaldone fa trasparire il pensiero opposto di Leopardi, essendo l'infelicità una condizione naturale e necessaria per l'uomo. E' nel suo cuore, infatti, un'insaziabile ed eterno contrasto tra il desiderio infinito di piacere e la limitatezza di ogni piacere destinato a finire.

L'ansia di felicità sarà, perciò, inappagata e lo renderà, come direbbe Seneca, sempre sollicitus.

L'uomo di Leopardi è creatura romantica che affida al sentimento le ragioni stesse del vivere e non identifica nella razionalità e nel controllo delle passioni il proprio ideale di vita, come riteneva il mondo classico.

Per Leopardi lo stato di equilibrio e di pace interiore può anche essere una condizione ammirevole, ma non di felicità. Felicità è un fremito, un'emozione che travolge, una vertigine di sensazioni, quali appunto l'adolescente sogna e crede possibile nella sua vita, destinato a essere smentito e deluso dal contatto con la realtà.

Si noti come il procedimento argomentativo sia in Leopardi stringente, pacato, razionale, inconfondibile. Invece, Seneca si avvale soprattutto di effetti retorici, volti a trascinare e convincere il lettore attraverso l'emozione che suscitano in lui le domande incalzanti, le ripetizioni, le brevi e secche affermazioni, tipiche della brevitas.

Accade una curiosa compensazione: al contenuto altamente drammatico del testo leopardiano corrisponde uno stile pacatissimo e controllato; al contenuto razionale e logico del testo senecano corrisponde un stile teso e vibrante.