Gennaio - 2024 - numero 7
Gennaio - 2024 - numero 7
"L’albero di Auschwitz"
di Nestore Ciaramelletti
Auschwitz, 1945, Auschwitz 2024, leggendo il quotidiano, un pensiero mi balenava nella mente, legato ad un particolare della foto scattata dalla giornalista per documentare l’arrivo del Presidente della Repubblica, Mattarella, in visita in questo luogo dell’inferno e della memoria.
Al di sopra del cancello nero e della paura, campeggia la scritta “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi), una di quelle frasi in uso in quegli anni, invenzioni del regime nazi-fascista, usata per nascondere a occhi esterni e ingenui le nefandezze perpetrate verso la dignità e la vita dell’uomo. In prossimità del cancello, attrae la mia attenzione la presenza di un albero, alto e con i rami spogli, vicino ad un muro, senza finestre e bianco; immagine di desolazione, perfetto nella sua semplicità, adatto a incutere terrore, come in un film horror.
Decido, non so per quale ragione, credo per pura curiosità, di vedere se quella pianta esisteva anche al momento dell’arrivo delle truppe di liberazione. Cerco online una foto che mi faccia viaggiare fino a quel gennaio del 1945. Digito nella barra di ricerca, in qualche frazione di secondo ecco l’immagine che cercavo, quell’albero era lì, antico e immobile, spoglio, senza fronda. Nella foto, in bianco e nero, si vede la sbarra di ingresso alzata, a sorvegliarla non più un militare tedesco con elmetto e fucile, ma due uomini in abiti civili che guardano verso l’obiettivo del fotografo. L’ingresso al campo di sterminio è ormai aperto, le atrocità al suo interno sono adesso visibili al mondo, la scritta che campeggia in alto ora mostra il suo lato oscuro e la sua vera crudeltà. Solo il cancello con il filo spinato, anch’esso aperto, ricorda che quello era un luogo di detenzione e morte. In fondo alla strada bianca, nella desolazione chiara e scura del bianco e nero della foto d’epoca, due macchine, una sembrerebbe una jeep militare americana.
L’albero era lì, spettatore immobile delle migliaia di persone che percorrevano quella stradina sterrata, dritta e affilata come una lama lucente. Proprio vicino a quella pianta, passavano i prigionieri, ammassati in camion militari, passavano, senza più tornare; da lì sono passati i liberatori e oggi passano i turisti, magari nemmeno notando la presenza di quell’albero. Quella pianta nel 1945 era di dimensioni ridotte, giovane e però presente, simbolo silenzioso di vita e crescita. Sì, crescita, perché quell’albero oggi è ancora lì, le sue dimensioni sono notevolmente aumentate. Adesso il suo tronco è possente, sovrasta la piccola struttura vicina, quasi tocca il muro bianco della costruzione. E’ spoglio, come nella foto del 1945, muto e vivo testimone che ha resistito alla guerra, ai massacri, alle deportazioni, ma che è ancora lì, baluardo silenzioso nel ricordo delle atrocità. Tra poco le gemme dei suoi rami, come piccoli gioielli della natura, finiti gli ultimi freddi dei rigidi inverni, si mostrereanno nel loro verde intenso, trasformandosi in foglie che insieme ad altre foglie creeranno una macchia di colore verde in forte contrasto con il grigio e nero di quel campo maledetto, a simboleggiare la rinascita, la Resistenza, la speranza, baluardo di giustizia e sofferenza. Il vento passerà ancora per molti anni tra le sue foglie e tra i suoi rami, le voci dei turisti che ormai hanno preso il posto di ordini militari e pianti e urla faranno ecco tra le fronde. Tutti guardiamo a quella pianta, finità lì per caso, cresciuta da un piccolo seme, che per caso ha superato, con i suoi cicli, morte e rinascita attraverso numerose stagioni, continuando il suo viaggio nel tempo e nella storia scrigno del passato, per citare Primo Levi, contiene ancora dentro di sé gli dei più antichi.
La cenere dei forni crematori sarà per sempre imprigionata e custodita nella sua corteccia. La sua linfa scorrerà nella memoria e nel ricordo. Rappresenterà per molti anni la rinascita e la vita, una forma di vita che chiama alla vita, contro ogni forma di brutalità e cattiveria dell’uomo, un monumento, un monito per il futuro, saldo nelle sue forti radici, perché certe atrocità di cui è stato testimone non si ripetano mai più.
Nel silenzio delle pietre: commemorazione delle vittime Palestinesi
di una giovane palestinese
Nel gioco di ombre e luci della memoria,
intravediamo volti sfumati, ricordi incisi nel tempo,
e il richiamo dei giorni che non dovrebbero mai essere dimenticati,
come pagine ingiallite di un libro sacro. I testimoni silenziosi degli eventi passati
ci guardano con occhi che parlano senza parole.
Nel rispetto del dolore, siamo chiamati ad ascoltare,
a far fiorire il giardino della comprensione.
Nel giardino degli anni trascorsi,
non etichettiamo il dolore, ma lo accogliamo.
Non richiamiamo il dolore nella memoria, ma ci perdiamo
tra i riflessi di coloro che l’hanno vissuto.
Non la pronunciamo, ma stringiamo
tra le mani invisibili il senso di ciò che è stato, lasciando che il bagliore della conoscenza
tenga vivo il ricordo di chi è stato travolto dal buio, per rievocare la facilità del male e
l’importanza del bene.
Sfortunatamente però, quando si vuole nascondere la conoscenza e la consapevolezza, la
memoria non riesce a fiorire nel cuore di tutti e per questo dobbiamo fare in modo che
quante più persone nel mondo siano consapevoli delle disgrazie che stanno avvenendo in
Palestina,Terra che sussurra storie antiche, tra le ombre dell’eterna lotta.
Sotto il cielo costellato dai missili, un popolo danza
sul filo sottile della resistenza,
dove il suolo conserva le lacrime della memoria,
e il vento porta il grido di chi non si arrende.
Terra dove le luci si son spente, dove le mura raccontano epoche di dolore e ogni pietra urla
la sua storia a chi non dimentica.
In ogni oliva che si perde nell’arido terreno, si cela la forza di chi lotta per la libertà, la forza
di coloro con in mano il potere di presentarci il quadro dalla loro prospettiva.
Noi palestinesi che abbiamo avuto la benedizione di poter vivere una vita più privilegiata dei
nostri parenti, dobbiamo fare in modo che tutti conoscano quel che ci sta accadendo.
Nulla é nato il 7 ottobre, dobbiamo smentire chi crede in ciò, poiché tenta di cancellare dalla
propria memoria il passato che nasconde la verità.
Il passato che ci ricorda di quando abbiamo accolto tante anime buone, a cui è stato tolto il
vantaggio di brillare, e poche anime cattive che semineranno lo scompiglio e la paura nel
nostro paese.
Noi palestinesi abbiamo vissuto assieme agli ebrei, li abbiamo accolti, sfamati, sempre
protetti e difesi di fronte alle tragedie da loro provate.
Adesso però ci troviamo quì, a Gaza, dove troviamo perse le anime di ormai più di 30 mila
persone, di cui la maggior parte bambini.
Oh Terra mia, che strabordi di uccellini che irroreranno il Cielo Eterno, le anime dei bambini
di Gaza che finiranno per cinguettare e svolazzare nell’ armonioso paradiso.
Quanti sogni sepolti assieme alle macerie delle loro case, quanto bene che non ha avuto il
tempo di espandersi e
pensate, a coloro che avrebbero potuto tenere in vita la memoria e fare in modo che la luce
regni per sempre sopra al buio.
Ma oh, Palestina, terra martoriata,
dove la vita si dipana come un canto spezzato,
i tuoi figli guardano oltre le frontiere,
sognando un domani senza catene.
Ricordiamo quindi le anime di chi ha lottato per la propria patria e di chi non si è arreso di
fronte a un genocidio, a una pulizia etnica, a un regime di Apartheid, a un sistema di
segregazione razziale.
Parlo di chi si è unito alle radici della propria terra di fronte a un carro armato, dei piccoli che
seminavano i propri sogni, non terrorismo.
Non sono solo numeri, ma bensì storie intrecciate,
di bambini che giocavano tra le vie strette,
di genitori che speravano in un domani sereno,
ma il destino ha tessuto trame di sofferenza.
Nel buio, i loro nomi si intrecciano
con il respiro del deserto, con l’onda del mare,
e la luna veglia come una madre affranta,
sull’innocenza perduta, sui sogni infranti.
Noi, figli della Terra Santa, la quale accoglie le religioni più professate, invitiamo il mondo ad
ascoltare il respiro soffocato di chi si trova sotto le macerie, di chi vorrebbe urlare e di chi
vorrebbe liberarsi, e di tendere la mano oltre le barriere dell’ indifferenza, perché solo
nell’unitá riusciremo ad avere giustizia.
Una giovane palestinese.
Inchiostro tra le pagine
Rubrica di libri di Aurora Boco 5CB
il gatto
Allan Poe - Baudelaire - Lovecraft
Edgar Allan Poe (1809), Charles Baudelaire (1821) e H.P. Lovecraft (1890). Grandi scrittori e poeti dell’Ottocento che condividono un interesse particolare per “il popolo con la coda” come li definiva Lovecraft, di cui lui stesso era un grande amante.
Il gatto nero - Edgar Allan Poe
La vicenda si apre sul protagonista inizialmente amorevole e premuroso nei confronti del suo gatto nero, che, trascinato dall’alcol diventa scontroso e irritabile con tutti, fino ad arrivare ad odiare la figura del gatto che ucciderà crudelmente ed in maniera del tutto repentina. Subito dopo l’incendio della sua dimora, l’uomo incontrerà nuovamente un nuovo gatto, identico al primo, che avrebbe dovuto sortire la stessa triste fine del primo, ma sarà la moglie, che mettendosi in mezzo, cadrà sfortunatamente vittima della pazzia del marito. La vicenda si conclude con l’arresto dell’uomo fatto scoprire proprio dal suo stesso gatto.
Uno dei temi più presenti nella prosa è il tema del doppio. Il gatto ha potenzialmente due ruoli, quello di vittima passiva della crudeltà del marito, e quello di demone e conseguente causa del decadimento psichico del protagonista.
Il gatto - Charles Baudelaire
Vieni, mio bel gatto, sul mio cuore innamorato;
trattieni le unghie della zampa,
e lasciami sprofondare nei tuoi begli occhi striati
di metallo e d’agata.
Quando le dita indugiano ad accarezzare
la tua testa e il dorso elastico
e la mano s’inebria del piacere di palpare
il tuo corpo elettrico,
vedo la mia donna in spirito. Il suo sguardo
come il tuo, amabile bestia,
profondo e freddo, taglia e fende come un dardo,
e, dai piedi fino alla testa,
un’aria sottile, un minaccioso profumo
circolano attorno al suo corpo bruno.
La poesia si focalizza su due figure apparentemente molto simili: il gatto e la donna. Il poeta li paragona quando parla degli “occhi di metallo e d’agata” e del suo corpo elastico e sinuoso”. Si parla di uno sguardo gelido che taglia come una freccia ed è tanto crudele da far male. Il poeta paragona le due figure poichè lui è ammaliato e soggiogato da entrambe e ne è ferito allo stesso tempo per via della loro freddezza e crudeltà.
I gatti di Ulthar - H. P. Lovecraft
Nella città di Ulthar è vietato uccidere i gatti, questa legge è dovuta ad un assurda vicenda: due contadini
si divertivano ad ammazzare i gatti che invadevano la loro terra. Fu così che un giorno un bambino viandante che aveva come unico affetto un gatto nero, arrivò ad Ulthar ed una sera non trovando più il suo gattino, cominciò a pregare il cielo in una lingua incomprensibile a tutti. La mattina il bambino era scomparso e solo ossa trovate nella casa dei contadini, poco dopo tutti i gatti uccisi fecero ritorno nelle loro dimore.
Tutto il racconto è avvolto da un'aura inquietante e mistica dove Lovecraft lascia poco all’immaginazione facendo capire al lettore che i gatti abbiano divorato i corpi dei due contadini. Soprattutto l’alone di mistero gira intorno al bambino e alla sua strana preghiera che si può immaginare possa avere qualcosa a che fare con Satana, considerando anche la parte del testo dove l’autore riporta esplicitamente “nebulose figure di creature esotiche, ibridi esseri coronati da dischi a due corna”.
Questi tre grandi del passato hanno molte più cose in comune di quanto si possa pensare, di cui questa è soltanto una piccola parte.
Amanti dell’orrore, dell’oscuro e misterioso, scrittori decadenti o più volgarmente rinominati “maledetti”, chi avrebbe mai pensato che avessero tutti un debole per i nostri amici pelosi?
Il libro si apre con la vicenda del nostro protagonista che vive una vita monotona e in solitudine, suo unico conforto e suo più grande affetto, il gatto Cavolo.
La notizia del suo male incurabile, che sicuramente lo avrebbe portato a morte pochi giorni più tardi, lo fa piombare in un abisso di sofferenza ma un patto con il Diavolo lo spingerà a far scomparire delle cose dal mondo per un giorno di vita in più.
“Mi pareva incredibile pensare che qualcosa che diamo per scontato avrebbe potuto scomparire all’improvviso. È probabile che episodi del genere accadano ogni giorno sotto i nostri occhi, senza che ce ne accorgiamo”
Il protagonista si ritroverà infatti catapultato in una serie di scelte emozionanti del tutto inaspettate che porterà indubbiamente ad una riflessione su ciò che riteniamo scontato e a cui invece dovremmo iniziare a dare più peso. Le cosiddette “piccole cose” sono le cose davvero importanti.
“Gli uomini non muoiono finché hanno acqua da bere, qualcosa da mangiare e un posto dove dormire. Tutte le altre cose a questo mondo sono superflue e se ne può fare tranquillamente a meno.”
La storia ha l'obiettivo, comune alla maggior parte dei libri giapponesi, di far riflettere sulla vita ma anche sulla morte. Il cambiamento del protagonista attraverso le pagine si percepisce chiaramente, anche noi magari avremmo rinunciato ad una cosa che riteniamo inutile ma che invece ci saremmo accorti non lo era poi così tanto.
“I cuori dei singoli mammiferi si fermano dopo due miliardi di battiti. Gli uomini hanno un'aspettativa di vita di settant’anni: chissà se nella metà del tempo il mio cuore aveva già battuto due miliardi di volte?”
Alla fine del libro il protagonista si ritroverà davanti la scelta più difficile: “La tua vita o quella del gatto?” dopo questa domanda il suo pensiero cambierà radicalmente e dovrà realmente confrontarsi con la scelta tra la vita o la morte.
“L’amore finisce sempre. Lo sappiamo tutti, ma ci innamoriamo lo stesso. È la stessa cosa che accade con la vita. Sappiamo tutti che prima o poi finisce, ma viviamo lo stesso. Forse è proprio perché sono destinati a finire che l’amore e la vita sono meravigliosi”.
Un libro per chi: Sta vivendo un periodo di relativa serenità
Titolo: Se i gatti scomparissero dal mondo
Autore: Kawamura Genki
Traduttore: Anna Specchio
Anno di pubblicazione: 2012
Lo sport: una lezione di vita
di Valentina Fulvi 4CB
La ritmica è e resterà sempre una parte di me.
Avevo solo 4 anni quando ho iniziato e non pensavo diventasse così importante per me. È stata salutare non solo per il mio fisico ma anche per il mio animo diventando una vera e grande passione che ancor oggi mi fa emozionare nonostante l’abbia dovuta abbandonare.
È stata la definizione di libertà, svago, divertimento. È stato l’ambiente in cui mi sono sentita completamente me stessa, in cui risate, energia, adrenalina ma anche pianti, delusioni, ansia erano il piatto del giorno.
Gli allenamenti significavano sforzo, sudore e dolore ma tutte queste sensazioni servivano a tirare fuori il meglio di me mostrando la grinta che forse ognuno di noi ha ma troppe volte teniamo nascosta. Il mio fare bene non premiava solo me ma tutta la mia squadra ed è per questo che sentivo anche una grande responsabilità verso le ginnaste che come me volevano salire sul podio.
Quello di cui non sento la mancanza è la delusione che si prova quando una gara è andata male, in cui l’allenatrice ti dice “può capitare” ma tu riesci solo a recepire la delusione nei suoi occhi e in quelli delle tue compagne.
Purtroppo è arrivato anche quel giorno, preceduto da giorni e notti di pensiero per capire la scelta giusta da fare…ho dovuto smettere. Sono molti i momenti in cui ne sento la mancanza, ma nella vita bisogna prendere delle decisioni. Resta comunque il fatto che mi sento profondamente legata a questo sport che mi ha spronato a dare sempre il meglio di me affrontando tutto a testa alta.
“Non sono io, tiratemi fuori”
Mi sento galleggiare in un torrente,
capisco che sto respirando solo dal movimento del mio torace,
sono immobile, come paralizzata,
l’unico movimento del mio corpo è il dondolio dovuto alla corrente che non si arresta un secondo.
Vago,
non so da quanto, né perché, non so da dove arrivo né dove sto andando, vorrei provare a urlare, ribellarmi, uscire ma qualcosa mi tiene là, sospesa, ad aspettare che qualcosa mi trascini via.
Non so come uscirne.
Mi sto perdendo.
Anonimo/a
“Le signore Oppenheimer: le donne del progetto Manhattan”
(sì, quello della bomba atomica)
di Clara Chiavini 5CB
Oppenheimer: il film campione d'incassi che ha tenuto molti di noi incollati alle poltrone per ben tre ore raccontando la nascita della bomba atomica durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il nome della pellicola non lascia molto spazio all’immaginazione, di Robert J. Oppenheimer, infatti, ne è esistito solo uno (purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista), ma è noto che non sia bastato solo lui per pensare, costruire e collaudare ben 3 bombe atomiche in meno di dieci anni.
Anzi, il progetto Manhattan ha contato diversi protagonisti d’un certo rilievo scientifico, tra cui Leo Szilard, Arthur Holly Compton e il nostro connazionale Enrico Fermi (ricordatevi questo nome)
Tra i vari ingegneri, matematici, chimici e fisici del progetto figurano, però, anche delle donne geniali che hanno collaborato nel gruppo di lavoro diretto da uno dei nomi più importanti di Los Alamos; udite udite: proprio lui, il signor Fermi.
I loro nomi vanno gridati e ricordati, perché per una donna, in tempo di guerra, fare scienza non era proprio una cosa facile facile, ed eccole qui:
Leona Woods: Pose le basi per la costruzione del primo reattore.
Maria Goppet-Mayer: I suoi dati non furono utilizzati nel progetto Manhattan, ma sono risultati utili alla progettazione della bomba a idrogeno. Ha vinto il Nobel nel ‘63.
Susan Chandler-Herrick: Si occupò di chimica uranica: Una baggianata, insomma.
Jane Hamilton-Hall: Divenne supervisorA (si può dire, l’ho letto sul sito dell’Accademia della Crusca) dei reattori in allestimento.
Nathalie Michel-Goldowsky: Oltre a determinare come doveva essere l’acqua per raffreddare i reattori, si occupò anche di metallurgia. Non ci facciamo mancare niente.
E c’erano solo loro? No, ovvio, di donne ce n’erano almeno 85. Alla fine di questo articolo vi lascio anche altri nomi, importanti tanto quanto gli altri.
Perché anche le donne hanno lavorato per la guerra, anche le nostre sorelle hanno contribuito a creare delle armi devastanti, e noi oggi vogliamo rivendicare anche i loro errori.
Vogliamo avere la voce per dire che sì, esatto, c’erano anche le donne a costruire l’atomica.
Insomma, cari uomini, mica pensavate di fare la guerra da soli?
Altre donne del progetto Manhattan:
Chieng-Shung Wu: applicò la propria conoscenza delle proprietà nucleari dei gas nobili per riparare un reattore. Katharine Way: aiutò ad analizzare i dati relativi alle prime pile atomiche e valutò le costanti del primo reattore per la produzione di plutonio.
Elda Anderson: analizzò alcuni problemi inerenti al processo di fissione
Mary Argo: analizzò insieme al suo gruppo di lavoro la possibilità di costruire un'arma basata sulla fusione nucleare piuttosto che sulla fissione.
Jane Roberg: contribuì ai calcoli per la bomba nucleare.
Frances Dunne: assunta come esperta di esplosivi.
Joan Hinton: progettò e costrui barre di controllo e realizzò circuiti elettronici.
Eleanor Eastin-Pomerance: prestò servizio come tecnica e poi diventò disegnatrice tecnica ad Oak Ridge, dove progettò il ventaglio a tre lame di colore magenta e giallo che ancora simboleggia la radioattività.
Eleanor Ewing-Ehrlich: esegui i calcoli matematici per la costruzione della bomba, in collaborazione con Kay Manley, Betty Inglis e Mici Teller.
Come affrontare l’hangover
I consigli di Stewart Adams, l’uomo che ha sintetizzato l’ibuprofene
di Clara Chiavini 5CB
Immaginate di svegliarvi dopo una serata alcolica in compagnia dei vostri amici con il peggior mal di testa della vostra vita per poi ricordarvi di avere un’importante interrogazione proprio quella mattina.
La soluzione sembra evidente: un bel Moment® o Brufen® farà svanire il vostro mal di testa nel giro di pochi minuti e voi potrete tranquillamente guadagnarvi quell’8 che vi farà iniziare il pentamestre nel migliore dei modi.
In effetti, i farmaci Moment®, Brufen®, ma anche Buscofen® e Nurofen® sono tutti a base dello stesso principio attivo: l’ibuprofene. Un farmaco antidolorifico e antinfiammatorio diffuso in tutto il mondo e utilizzato per trattare ogni sorta di dolori: dal semplice mal di testa fino ai dolori post-partum.
E quindi? Che c’è di strano?
Ebbene, il nostro amico ibuprofene è stato testato per la prima volta in una situazione non troppo diversa da quella che abbiamo immaginato prima.
Il dottor Stewart Adams, infatti, nel tentativo di trovare un farmaco per l’artrite reumatoide che avesse meno effetti collaterali di quelli conosciuti all’epoca, sintetizzò l’acido 2-(4-isobutilfenile) propionico, anche detto, più semplicemente, ibuprofene.
(Nota: se volete fare bella figura nell’ora di scienze, il nome più lungo vi sarà sicuramente d’aiuto)
Fin qui tutto bene, ma arriviamo al dunque: come è stato testato questo benedetto ibuprofene?
Il dottor Adams, uomo di grande cultura, ha testato la sua creazione su se stesso per curare i postumi della sua stessa sbornia prima di un importante discorso, e ha funzionato.
600mg di ibuprofene (una pasticca di Brufen®, per capirci) gli hanno permesso di fare il suo bel discorso in tutta tranquillità e di essere ricordato come colui che ha scoperto uno dei migliori rimedi per le sbornie.
Ma mi raccomando: voi bevete responsabilmente, nessuno di noi è Stewart Adams, purtroppo.
70 LITRI DI ACQUA IN UNA MELA
di Chiabolotti Martina e Giulietti Anna 1AL
Il nostro pianeta è chiamato anche pianeta blu.
Ti sei mai chiesto perché?
L'acqua rappresenta il 70% della superficie terrestre.
In realtà non tutti sanno che il 35% è acqua dolce ma, togliendo l'acqua utilizzata in agricoltura, immagazzinata nei ghiacciai o nell'atmosfera, ce ne rimane solo l'1%.
Sprecare acqua non equivale soltanto ad alimentare la crisi idrica, ma l’impatto è pesante anche sulla produzione di cibo.
Incredibile credere che per produrre una semplice mela servano ben 70 litri di acqua!
E pensare che per produrre gli alimenti base necessari alla popolazione mondiale, come frutta, verdura e grano, viene impiegata un'area equivalente a Giappone, Cina e Thailandia messe insieme.
Ma non è finita qui: 1/3 del cibo che compriamo viene buttato e questo spreco corrisponde a quanto verrebbe prodotto su un territorio esteso quanto la Cina.
Da non sottovalutare l'aspetto dell'energia.
I trasporti, il mantenimento e la produzione di cibo richiedono enormi quantità di energia e sappiamo che non tutte le fonti energetiche sono sostenibili per il pianeta.
Quando sprechiamo cibo, insomma, stiamo sprecando anche l’acqua, la terra e l’energia che sono state impiegate per produrre quegli alimenti.
E' possibile evitare questo grandissimo spreco di risorse?
Dare un contributo è più facile di quanto pensiamo: esistono più applicazioni che vogliono combattere questa lotta allo spreco, una delle più conosciute è sicuramente “To good to go” con la quale puoi acquistare una “magic box” e salvare ottimo cibo a prezzo ridotto, prodotti che altrimenti verrebbero gettati! “Phenix” è un’altra app che ha analoghe funzioni.
Per conoscere invece la qualità dei tuoi prodotti “Yuka” è l'app che fa per te: scansiona il codice a barre e attraverso il tuo smartphone potrai verificare il vero livello qualitativo del prodotto, al di là di pubblicità e propaganda.
Un altro servizio ottimale per evitare l'acquisto eccessivo e insensato di cibo è “Hello Fresh” attraverso il quale riceverai kit di ricette a domicilio che ti permetteranno di cucinare piatti completi con le giuste quantità.
Stili di acquisto e stili di consumo più consapevoli e più responsabili sono ormai un dovere.
Vi lasciamo con le parole di Sébastien-Roch Nicolas de Chamfort:
“La società comprende due classi: quelli che hanno più cibo che appetito, e quelli che hanno più appetito che cibo”.