Marzo 2023 - numero 4
Marzo 2023 - numero 4
In onore della giornata dedicata alle donne, fissata l’8 marzo, la nostra redazione ha voluto rendere omaggio a questa ricorrenza scrivendo quattro articoli su quattro donne che hanno segnato la storia in diversi ambiti. Ecco le rilevanti personalità:
Rita Levi Montalcini (scelta per rappresentare l’indirizzo “Chimica Materiali e Biotecnologie);
Margherita Hack (per onorare l’indirizzo di Scienze Applicate);
Coco Chanel (Dedicata per l’indirizzo Moda);
Fernanda Pivano (personaggio significativo per l’indirizzo Linguistico).
Rita Levi Montalcini
La vita
Rita Levi Montalcini, nata a Torino nel 1909, è stata una delle più grandi donne specializzate italiane, si è dedicata allo studio del sistema nervoso,che ha perfezionato negli Stati uniti. Nel 1986 è stata insignita del Premio Nobel per la medicina, nel 2001 è stata nominata senatrice a vita.
La sua famiglia era di origine ebrea e quando, nel 1938, furono promulgate le leggi razziali fu costretta a sospendere il suo percorso di studi per trasferirsi in Belgio. A guerra finita tornò a Torino e riprese la sua attività di ricerca, finché nel 1947 si recò negli Stati Uniti, presso una prestigiosa università di Washington per collaborare con il professor Hamburger. Dopo trent’anni di studio e di sperimentazione ottenne il meritato riconoscimento grazie alla scoperta del Nerve Growth Factor, una proteina coinvolta nello sviluppo del sistema nervoso che ha aperto la strada allo studio e alla cura delle malattie gravi quali il morbo di Alzheimer, le neuropatie e altre malattie del sistema nervoso.Negli ultimi anni della sua lunga vita si è dedicata alla scrittura di saggi dedicati ai giovani e a concrete iniziative con la propria fondazione per promuovere il diritto allo studio delle giovani donne nei paesi in via di sviluppo.
Sofia Pignattini 3CB, Sara Ballerini 3DB
“Amici” di Margherita Hack
Un’astrofisica “Amica delle stelle”
Margherita Hack (12/06/1922 - 29/06/2013) è considerata una delle menti più illustri della comunità scientifica italiana ed è stata la prima donna a dirigere un osservatorio astronomico nel nostro Paese.
La carriera di Hack inizia con una laurea in Fisica, grazie a una tesi sulle stelle variabili (delle stelle caratterizzate da variazioni luminose regolari, anche chiamate Cefeidi), che oggi sono considerate dei punti di riferimento fondamentali per la misurazione delle galassie a cui esse appartengono; in più, un altro contributo di questa scienziata riguarda l’astronomia agli ultravioletti, che permette di osservare fenomeni invisibili ad occhio nudo come la nascita e la morte di un astro.
Se siete arrivati fino a questo punto e non avete capito una singola parola di quello che ho detto non preoccupatevi, non sono qui per farvi una lezione di astrofisica (anche perché ne so quanto la maggior parte di voi, ovvero poco e niente), ma vorrei invece raccontarvi di come questa donna sia stata la prima a dirigere l’Osservatorio Astronomico di Trieste (che è tra i più importanti d’Italia) nel 1964, mantenendo la carica per ben 23 anni e portandogli grande rinomanza non solo in Italia, ma anche in tutto il resto del mondo.
Una tra le missioni di Margherita Hack era avvicinare i giovani alla ricerca scientifica, per raggiungere questo obiettivo ha scritto decine di libri di divulgazione adatti anche ai lettori e alle lettrici meno esperti/e, tra cui ad esempio “Stelle, pianeti e galassie. Viaggio nella storia dell'astronomia dall'antichità ad oggi”, un libro che nasce per spiegare l’universo ai ragazzi e agli adulti tra stelle, costellazioni, pianeti e galassie.
A 10 anni dalla sua morte, questa scienziata è considerata un modello d’ispirazione per i giovani, specialmente per le ragazze che sognano di approcciarsi al mondo della ricerca scientifica e in particolare (se proprio si vogliono male) della fisica.
Clara Chiavini 4CB
Fernanda Pivano: between America and Italy
"Si faccia una vita
interiore – di studio, di affetti, d’interessi umani che non siano
soltanto di «arrivare», ma di «essere» – e vedrà che la vita avrà un
significato"
These are the words Cesare Pavese wrote to an incredibly stubborn, kind and wonderful woman: Fernanda Pivano, without whom our country and we ourselves, would be much poorer talking about culture and literature.
Fernanda Pivano was an important Italian writer, journalist, critic, and translator as well. She was born in Genoa, the 18 of July 1917, and died in Milan the 18 of August 2009. Her passion for foreign languages began thanks to her mother, of Scottish origins. After her childhood she moved to Turin, where she attended the Massimo d’Azeglio High School and completed her university studies with a thesis about American literature.
When she was a teenager and was in high school her Italian teacher was Cesare Pavese (another important Italian writer), thanks to whom she became interested in American and English literature. Under his guidance Pivano translated “The Spoon River anthology” (Edgar Lee Masters) and during the Fascism in Italy she translated “A farewell to arms” (Ernest Hemingway) as well. She should have been jailed for this, but for a mistake in the contract the Nazis took her brother, who was released in 1945.
In the After-war, she translated “Leaves of grass” (Walt Whitman), “The great Gatsby” (F. Scott Fitzgerald), “Death in the afternoon” (Ernest Hemingway), “The side of Paradise” (F. Scott Fitzgerald), “Intruder in the dust” (William Faulkner) and “The beautiful and damned” (F. Scott Fitzgerald). She worked with many other authors too, such as Jack Kerouac, Gregory Corso, William S. Burroughs, and Chuck Palahniuk.
Thanks to her interest in American Literature, Italian people got to know the American culture itself, a world that until then had only been imagined.
In her book “Beat hippie yippie” she deals with topics like non-violence, underground culture and pacifism; considering that she was living in the Fascist era, we can doubtlessly say that Fernanda Pivano was a woman with an incredible amount of courage and determination who defened her beliefs. With her words, all over the world there were fights and rebellions in order to regain the freedom that the war had taken from every country in the world.
As Marcellino Giubilato once said, “Fernanda Pivano is responsible for introducing Fitzgerald, Kerouac, and Bob Dylan to Italy”; for her he composed a song called “America, America”.
Cesare Pavese, instead, wrote three poems dedicated to Pivano (“Mattino”, “Notturno” and “Estate”) and several pages of his diary (“People don’t kill themselves because they love a woman. They kill themselves because love, any kind of love, makes us be seen in our nudity, misery, helplessness”.)
Fernanda Pivano was one of the most important women of our country’s history, and not just because of her books or her translations: she was important because she brought a totally different culture to Italy, and with such expertise that it seemed like that was what she was meant to do. Women (but people in general) like her should always be thanked, appreciated and remembered for what they have done and what they have brought to us, making our culture much richer than it was. Without all the work she did, not only for the people living in the past century but also for us living in the XXIst, some of the most important classics of all time wouldn’t have been known as they are now thanks to her.
What she did using simple words should always remind us of what we are capable of doing if we really believe in something.
She believed in Italian culture’s growth, and so she dedicated her entire life making sure that goal would be reached. She was the key for us to have a more extended view of what surrounds us and to use this view to enrich what we are.
At the beginning I defined her as “kind”. And how could I define a woman that could have kept just for her the magic of the books she had in her hands, but chose to share it with an entire population of people that merely knew what America looked like? Thinking about it now, maybe “kind” is reductive for someone like her.
She is the proof of how a simple book can represent hope for a whole country, (we can take as an example Ernest Hemingway’s “A farewell to arms”) and how an encounter between different civilizations should be encouraged.
We have a lot to learn from one another, and since Fernanda Pivano gave us the chance to learn from Americans, I think we owe her a “thank you” as big as Italy and America together.
Thank you, Fernanda, for all you’ve done for us and our country; you no longer live among us, but surely you won’t be forgotten. You will continue to shine like gold in History, just as you did in your extraordinary life.
Isabella Mechelli, 1DL
Coco Chanel
semplicemente moderna
Gabrielle Chanel, comunemente conosciuta come Coco Chanel, ci viene descritta come una donna emancipata, istintiva, visionaria, libera, mecenate, lettrice, innamorata dell'arte.
Nonostante il suo passato non molto felice tra le difficoltà di un'infanzia da orfana, Coco riesce a realizzare la vita che ha sempre sognato diventando per tutti "una donna non comune" perché rivoluziona tutta la femminilità emancipandosi dal vestiario comune al taglio di capelli…
Coco nasce come stilista di cappelli per un'ampia clientela parigina. Tramite il jersey, la marinière, il tailleur, la giacca in tweed, il twin-set in maglia, il tubino nero, la scarpa bicolore, la borsa a tracolla in pelle trapuntata, le collane di perle, Coco riscrive le "regole" dello stile.
Ciò che l'ha resa una stilista rivoluzionaria è stato il fregarsene del giudizio dei benpensanti, cercando di far emergere un’idea di donna moderna, in linea con la cultura del tempo. Decide così di indossare i pantaloni, di abbandonare i corsetti con le stecche di balena e di promuovere l’immagine di una donna diversa, dinamica e anticonformista. I libri hanno accompagnato Coco nel corso della sua vita, leggeva di tutto; per lei leggere era un'arte, la portava fuori dalle righe del mondo, poteva essere chiunque semplicemente cambiando libro.
Coco aiutava i nuovi talenti ad emergere, dopo essere diventata una stilista famosa, diventa mecenate.
Crea un profumo che prende il nome di Chanel n°5, perchè era il quinto tester provato ed approvato, che viene presentato il 5 maggio e che diventa un must have internazionale, tuttora tra i profumi più venduti nel mondo.
Miranda Mulaj, 3CB
L’8 marzo sboccia un fiore nel deserto
Storia di una donna e della sua rinascita
Quest’anno l'8 marzo, festa della donna, si è deciso di riflettere sul tema “Donne e Diritti negati”. E’ la proposta che la Provincia di Perugia ha inoltrato a varie scuole di Perugia che dovevano produrre una riflessione su questo tema. La classe 5C delle Biotecnologie sanitarie del nostro Istituto ha raccolto la proposta e ha riflettuto sui tanti diritti che le donne si vedono negare, in Italia e nel mondo, e la scelta progettuale è ricaduta sulle Mutilazioni genitali femminili (MGF) che rappresentano una realtà viva in numerosi paesi del mondo, in particolare quelli africani, quali Egitto, Somalia, Mali, etc.. Le migrazioni nel continente europeo hanno acuito il problema tanto che in Italia le donne esposte alle mutilazioni sono 80mila, in Francia sono 120mila e nel Regno Unito i casi appaiono in costante aumento.
La classe aveva affrontato recentemente lo studio dell’apparato riproduttivo femminile, così ha potuto capire bene cosa significasse infibulazione, quali fossero le forme maggiormente praticate e, allo stesso tempo, quale fosse la sua valenza culturale e sociale; nelle società dove si praticano le MGF si diventa donne e si acquisisce uno stato di purezza solo dopo aver subito questa pratica disumana.
Ma come affrontare il tema? Abbiamo scelto di avvicinarci al tema attraverso la lettura del romanzo autobiografico di Waris Dirie “Fiore del deserto, storia di una donna” (2009), dal quale è stato tratto anche un film, nel quale la protagonista racconta la sua vita di donna somala che da bambina subisce l’infibulazione, fugge dalla sua famiglia che la vuole sposa-bambina, e attraversa a piedi nudi il deserto. Si ritrova a vivere numerose disavventure a Mogadiscio poi a Londra, dove trova lavoro, conosce altre ragazze e prende coscienza della violenza che ha subito con l’infibulazione, che è non solo una mutilazione fisica ma anche psicologica.
Waris comprende, infatti, quanto sia difficile accettare di aver subito una violenza finché si vive nella società di origine e che su questo rito di passaggio si basa il controllo del corpo e della vita di ogni donna. Ma le donne di quei paesi non ne sono consapevoli.
Waris a Londra incontra un fotografo che le apre le porte del mondo patinato delle fotomodelle e, come fosse in una fiaba, inizia il suo riscatto.
Come rappresentare la vita di Waris attraverso i momenti più significativi, anche se dolorosi? Attraverso un Reading dove immagini, musica e lettura di alcuni passi del libro si intrecciano tra di loro integrandosi per far entrare, gli spettatori, nell’animo di Waris.
E così ragazzi e ragazze hanno scelto i brani da leggere, le immagini da proiettare, la musica che accompagnasse in modo corale le parole della protagonista; ciascuno/a ha dato un contributo alla realizzazione del Reading che è stato rappresentato l’8 marzo scorso presso la sala del Consiglio provinciale di Perugia, dove è stato molto apprezzato da studenti, docenti, referenti delle Pari Opportunità della Provincia.
Hanno seguito il progetto in grande sinergia e attraverso un importante lavoro trasversale, le docenti della classe Cristina Gatti (anatomia, fisiologia, patologia, igiene) e Patrizia Simonini (italiano e storia), componenti della Commissione Pari opportunità dell’Istituto.
Cristina Gatti
A tu per tu con “Selfie”
I ragazzi del Giordano Bruno incontrano il regista Agostino Ferrente
E se il selfie diventasse l’unica finestra possibile su una realtà altrimenti impenetrabile? Se per raccontare la camorra si decidesse di rinunciare alla retorica del ragazzo violento, della strada come maestra, della cattiveria che si vive inevitabilmente se si nasce in un contesto come quello di Napoli, e semplicemente si chiedesse a due ragazzi qualsiasi di registrare con l’autoscatto quello che vedono?
Questo è l’esperimento che ha realizzato Agostino Ferrente nel suo documentario “Selfie”, girato nel 2019, e di questo il regista ha discusso il giorno 2/03/2023 con gli studenti delle classi 3AB, 3AS 3DB, riunite in Aula Magna.
È stato un incontro partecipato e coinvolgente, che ha fatto riflettere su una realtà molto rappresentata, come quella della camorra napoletana, ma troppo spesso narrata in maniera troppo romanzata e stereotipata.
Il film, precedentemente visto dalle classi al cinema Postmodernissimo di Perugia, racconta le vicende dei ragazzi del rione Traiano, una delle periferie più povere di Napoli e prende spunto narrativo dall'uccisione di Davide da parte della polizia perché scambiato per un camorrista.
In un primo momento, il regista, su sollecitazione dei ragazzi presenti, ha spiegato le scelte stilistiche con cui ha realizzato il documentario. Questo, infatti, è stato prodotto tramite autoripresa, con la modalità del selfie dei due protagonisti Alessandro e Pietro, un barbiere e un barman. Ferrente, il regista, ha chiarito che il cellulare è un mezzo utile per poter penetrare in territorio dove non è possibile penetrare diversamente. Una settimana prima del suo documentario un giornalista di Striscia la notizia era stato picchiato cercando di riprendere la vita del rione. Il suo obiettivo, afferma, non era mettere sotto gogna mediatica un ragazzo di 18 anni che si trova a fare quello che la criminalità lo spinge a fare da giovanissimo, ma raccontare come i veri colpevoli della realtà che ogni giorno si vive a Napoli siano povertà educativa e determinismo sociale: i ragazzi sono “condannati” a seguire la strada dei loro genitori.
Inoltre, ha aggiunto l’autore di “Selfie”, il punto di vista del protagonista lega inevitabilmente a sé lo spettatore: se i protagonisti, come in Gomorra, sono i criminali noi simpatizziamo per i criminali, e questo era per lui un rischio da scongiurare. Ferrente ha preferito fare una cosa inedita: raccontare la storia dal punto di vista di due ragazzini con ambizioni “normali”, fare il barbiere o il barman. Con il selfie, poi, il ragazzo non solo riprende se stesso, ma anche quello che succede alle proprie spalle, è come uno specchio. È quindi un modo per raccontare la storia dal di dentro e anche per evitare la “sindrome da prestazione”, per far sentire i protagonisti meno sotto esame, per portare a casa una loro prestazione più possibile libera, e libera dagli stereotipi che ci sono in televisione.
Rivela poi, in seguito a un’altra domanda, che il lavoro della postproduzione è stato abbastanza complesso: avevano raccolto circa 100 ore di girato, è stato inevitabile fare una sintesi. Questa sintesi, lo sa bene il regista, è una responsabilità, perché si fa il riassunto della vita di quella persona e questo riassunto gli rimarrà addosso per tutta la vita.
Ma, ammette anche che non è possibile, nel cinema, dipingere la realtà in modo assoluto: il suo obiettivo è creare il verosimile, non la realtà. Il cinema è un ossimoro. Già nel momento in cui il personaggio fa finta che non ci sia nessuno a riprenderlo significa che sta mentendo.
Ma certamente, sia Alessandro che Pietro hanno tratto beneficio dal riassunto che Ferrente ha fatto delle loro vite. Alla domanda “in che modo questi prodotti influenzano la percezione che i protagonisti avevano di sé?”, Ferrente rivela che Pietro si è trasferito a Roma e ha avuto un bambino, fa il barbiere. Alessandro si è trasferito a Londra e fa l’aiuto cuoco. Non è stato possibile fare queste cose nel loro quartiere ma hanno trovato il coraggio di spostarsi, e loro non erano mai usciti dal loro quartiere.
Probabilmente il documentario gli ha dato la forza di farlo, e anche questo è un potere del cinema: rendere possibile quello che riusciamo solo a immaginare.
Giudi Chayen 3 DB e prof.ssa Sara Picchiarelli
No, neanche l’acqua
5 cose da sapere sul Ramadan
È arrivato il mese di Ramadan, festività osservata da molti musulmani nel mondo che quest’anno è iniziata il 23 marzo e si concluderà il 22 aprile.
Per avvicinarci agli studenti credenti della nostra scuola, io (non credente) e Giudi (musulmana) abbiamo stilato una piccola lista con 5 cose da sapere sul Ramadan, per permettere a chi non lo segue di imparare qualcosa di nuovo, e a chi lo segue di fare un piccolo ripasso, che non fa mai male.
1. Perché si fa il Ramadan?
La pratica del digiuno era già ampiamente osservata dalle popolazioni arabe e dalle altre religioni “rivelate” (ebraismo e cristianesimo). In più, 1400 anni fa, nel mese lunare di Ramadan, i musulmani credono che siano stati rivelati al profeta Muhammad (meglio conosciuto come Maometto) i primi versetti del Corano, grazie alla manifestazione di Allah (Dio) attraverso un angelo di nome Jibril (conosciuto anche dai Cristiani come arcangelo Gabriele).
In memoria di questi avvenimenti, il digiuno ha assunto un ulteriore valore religioso, e questi 29 giorni vengono dedicati alla preghiera, alla carità e alla lettura del Corano, digiunando dalla prima preghiera del giorno (poco prima dell’alba) fino a quella del tramonto.
2. Non si tratta solo di digiuno
Il digiuno comporta non solo l’astinenza dal cibo, ma anche dalle bevande (come l’acqua), dai rapporti sessuali e dai peccati di parola, tra cui ovviamente bestemmie, menzogne e calunnie; in quanto, per chi crede, il digiuno è un momento per educare e purificare il corpo e l’anima dei fedeli.
Anche il gossip è proibito, quindi purtroppo per questo mese non potrete raccontare ai vostri amici musulmani le ultime notizie sul caso Selena Gomez-Hailey Bieber.
Tuttavia, è bene ricordare che il Ramadan non è obbligatorio per tutti; infatti, sono esclusi dal digiuno i bambini che non hanno raggiunto la pubertà, le donne in gravidanza, gli anziani, chi combatte una malattia, le donne durante le mestruazioni e i viaggiatori.
3. Ma se si mangia la notte quando si dorme?
Durante il Ramadan non si passa tutta la notte a tavola (cosa invece molto comune nei cenoni della vigilia di Natale), quindi chi osserva il digiuno ha tutto il tempo per pregare, cenare, dormire e svegliarsi presto per la colazione, fatta prima dell’alba e della preghiera mattutina (che per quest’anno dovrebbe essere intorno alle 5:00 di mattina).
4. Si può mangiare vicino agli amici musulmani?
Una domanda comune che i non-musulmani si fanno è proprio questa: “Ma è maleducazione mangiare se con me ci sono i miei amici che stanno digiunando?”
Per rispondere a questa domanda abbiamo intervistato 9 ragazzi musulmani nella nostra scuola che quest’anno osserveranno il Ramadan, e l’88% di loro afferma che non gli crea problemi se qualcuno mangia vicino a loro mentre stanno digiunando.
In ogni caso, se volete essere assolutamente sicuri di non risultare irrispettosi verso i vostri amici, vi consigliamo di chiedere la loro opinione prima di iniziare a mangiare.
5. Curiosità: La frutta si mangia all’inizio del pasto
Sembra strano ma è così. Nella Sunnah (il secondo libro più importante nell’Islam) è narrato che il profeta Muhammad era solito rompere il digiuno mangiando 3 datteri, quindi oggi i musulmani di tutto il mondo, seguendo i suoi insegnamenti e il suo stile di vita, dopo il tramonto mangiano come prima cosa dei datteri.
Se però osservate il Ramadan in un paese dove si vede l’aurora boreale e non si trova nemmeno una pietra che abbia una forma simile a quella di un dattero, la Sunnah vi suggerisce di rompere il vostro digiuno con 3 sorsi d’acqua, considerata purificante.
Facile no?
Avete qualche curiosità? Vi lasciamo un box domande in cui potete inviare le vostre domande anonimamente, a cui potremo rispondere in un prossimo articolo.
Ramadan Kareem!
Giudi Chahien 3DB, Clara Chiavini 4CB
Scopriamo i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA)
A colloquio con la nostra psicologa d’istituto
In onore della giornata nazionale del fiocchetto lilla (15 Marzo), abbiamo intervistato la psicologa della nostra scuola, la dottoressa Katia Carlini - la cui consulenza è disponibile gratuitamente per tutti gli alunni interessati del Giordano Bruno -, in merito ai Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA).
Qui di seguito, abbiamo riportato alcune delle frasi più importanti e significative che sono state tratte dalla sua intervista
Cosa sono i DCA? Come mai sono così diffusi oggi?
“Un DCA è l’espressione di un disagio profondo e tale disagio assume delle manifestazioni che variano da persona a persona ma anche in base al determinato momento storico.
L’alimentazione ha sempre avuto ed ha tutt’oggi un ruolo importante a livello sociale e relazionale ma il numero dei DCA oggi è esageratamente aumentato arrivando a circa 3 Mln di persone (di cui più di 2 mln e 300 mila sono adolescenti). Un numero impressionante considerando, tra l’altro, che è un numero sottostimato dato che comprende oltre all’anoressia, più palese nella sua espressione, anche altri disturbi come la bulimia che spesso non sono facilmente diagnosticabili rimanendo un segreto, per il soggetto che ne soffre, anche per tutta la vita. I DCA nonostante abbiano un’eziologia diversa, quindi cause diverse, hanno delle radici in comune e precisamente una difficoltà relazionale, una non accettazione del Sé, e soprattutto oggi viviamo in un periodo piuttosto difficile da questo punto di vista, dove c’è una difficoltà a riconoscere chi siamo e probabilmente questo ha mosso qualcosa, aprendo una grande voragine […].
Ma i social, la pandemia e tutto il contesto sociale che stiamo vivendo hanno influito su questo comportamento?
“La pandemia ha soltanto aperto il vaso di Pandora di quella che era una difficoltà già esistente. Uno degli elementi che accomuna la maggior parte dei DCA è il fatto che c’è una cattiva stima di Sè. Spesso si parla in modo improprio di alta o bassa autostima. Questo perché il termine significa “stima, valutazione di se stessi”, quindi la cosa più appropriata da dire sarebbe avere una sana consapevolezza e valutazione di sè, o avere una cattiva consapevolezza di se stessi. […] Autostima sana significa conoscere chi siamo, ci si percepisce per quello che si è, per come siamo veramente, e oggi tutti questi social non ci permettono di fare un confronto onesto con noi stessi perché siamo continuamente bersagliati da persone che postano cose meravigliose e strepitose e il confronto eccessivo con tutti questi stimoli in cui tutti sono belli, grandi e di successo mette un po’ in discussione il nostro “sè” che appare povero al confronto. Banalmente, possiamo dire che non dobbiamo fare grandi cose per essere grandi, ma che semplicemente dobbiamo essere noi stessi e dunque riscoprire chi siamo se ci siamo persi”.
Che relazione c’è tra cibo e emozioni?
“Il cibo è molto legato all’aspetto emotivo, questo perchè il cibo ha un aspetto estremamente relazionale, per esempio il cibo entra nel rapporto tra il bambino e la madre ma anche nel rapporto sociale, quindi il rifiuto del cibo o al contrario il fagocitare in modo eccessivo è molto legato all’aspetto emotivo che addirittura ne diventa l’espressione. Le persone con un disturbo del comportamento alimentare, nonostante abbiano sintomi e cause diverse, hanno un aspetto in comune, che si chiama alessitimia. L’alessitimia è l’incapacità di provare emozioni, che è molto diversa dall'incapacità di esprimere e manifestare emozioni. Una persona alessitimica non riconosce le proprie emozioni e il corpo diventa lo strumento, il veicolo delle emozioni e allora è facile intuire come il cibo, caricato emotivamente, possa divenire un mezzo di comunicazione per esprimere ciò che è sconosciuto. È sufficiente vedere come le persone con un DCA si approcciano fisicamente al cibo perché questo diventa una specie di nemico che va o attaccato in modo feroce (bulimia) o evitato prendendone distanza (anoressia) come se fosse qualcosa di cui avere paura”
Quali sono quindi i fattori scatenanti dei DCA?
“Tantissimi fattori possono provocarli. Sicuramente c'è una predisposizione. Per esempio da un punto di vista cognitivo, le persone che potrebbero cadere in questo tipo di disturbo hanno una tendenza al perfezionismo o hanno un pensiero “dicotomico”, o bianco o nero, o tutto o niente, che tra l’altro è un pensiero tipico degli adolescenti, caratterizzati dalla difficoltà ad accettare una posizione possibilistica. Oltre ai fattori predisponenti, tuttavia, devono intervenire altre situazioni legate a particolari esperienze di vita […].’
Cosa si può fare per uscirne?
“Sicuramente per uscirne bene […] è importante riconoscere presto che ci si sta imbattendo in questo tipo di disturbo, occorre cioè riconoscere il disagio prima che questo diventi un disturbo […]. Se notiamo che dei nostri compagni ad esempio iniziano delle diete molto drastiche e ad avere atteggiamenti un po’ particolari con il cibo, sappiamo che quelli sono dei segnali d’allarme che vanno attenzionati.
Nel momento in cui invece ci troviamo di fronte a un disturbo di tipo conclamato il trattamento è più impegnativo e richiede l’intervento di un’equipe multidisciplinare (nutrizionista, medico, psicologo, trattamento farmacologico) […].
Nel dubbio di essere di fronte a un disagio si può pensare di esprimerlo per cominciare a dargli un nome o raccontare al compagno le proprie emozioni, le proprie preoccupazioni per quello che si sta osservando senza etichettare l’altro.
A questo punto ringraziamo infinitamente la Dottoressa per l’opportunità che ci ha dato e speriamo vivamente che ciò possa essere d’aiuto per qualcuno.
Clara Chiavini 4 CB, Chiara Capuano 3CB
Un poeta tra i banchi di scuola
In occasione della giornata internazionale della poesia, abbiamo pensato di pubblicare alcuni testi poetici scritti dal professor Enrico Cerquiglini, docente di lettere dell’indirizzo biologico del nostro istituto.
La sua opera abbraccia molteplici generi letterari, rimanendo costantemente ancorata all’ambiente sociale e culturale della sua esperienza di vita, fatta di gesti semplici e di consuetudini ormai perdute.
Ora è vuota l’aria attorno alla casa.
Lo vidi quando il legno s’apriva ai suoi colpi,
quando tremavano le pietre ai suoi passi,
quando rientrava scuotendo la porta
sui cardini, lasciando al gatto la via di fuga,
ai figli il tempo di respirare la tramontana.
L’ho visto quando, piegato in due,
si muoveva tra le piante potate
e l’erba che si rompeva d’inverno
in steli di brina e macchie di ghiaccio,
quando, con gli occhi, scrutava
i campi appannati da una nebbia diuturna,
quando a fatica saliva le scale
e le mani, tremando, non facevano forza
sul gioco della chiave. Lo guardava
il gatto che gli accarezzava le gambe
con la coda e col muso. Lo guardava
il vento che muoveva le porte dischiuse.
*******
La strada è un omaggio del signore,
un dono per farci girare a tondo,
moderni asini alla ruota,
e diventa un anello, una spirale,
la traiettoria d’un bolide,
d’una saetta, d’una stella filante.
L’abito è un dono della provvidenza,
stretto, fasciante, aderente,
slargato, sformato, deformato,
contiene il liquido debordante,
la carne abbondante, essudante,
il pasto della vista che si sazia
su una zip, una scollatura.
Il cibo è una generosa offerta
del campo in cemento armato,
traslucido e colorato, musicate
trappole per libellule tossiche,
volanti creature di zirconio
che addentano l’aria al volo
prima della dipartita dei neon.
*******
Le scarpe lucide del ministro
non lasciano tracce,
sono leggere, respirano, traspirano,
invitano alla riflessione,
alla flessione,
alla genuflessioncella,
alla risata parcellizzata,
alla battuta all’inglese.
Cigolano, a volte,
fischiano sul parquet,
e la notte riposano
su un letto di lattuga,
pronte per essere
lucide anche il giorno dopo.
*******
Scorticano le case gli anni,
lasciano le pietre occhieggiare
tra rivoli vuoti, dove annidava la malta.
Soffi dalla collina generando venti,
vortici di aria sudata
che rodono il primo canto,
trivelle d’aria, fiere inesauste
che spazzano briciole e moccoli
di cera e grandine.
Il tuo sguardo è una carezza
alla segale lungo il sentiero,
il passo inciampa nel topazio
del giorno, le tue dita giocano
con rosse bacche di rosa canina.
Credi di aver fatto di tutto
per essere in pace col mondo.
*******
Col tempo hai imparato
a trasformare il pianto
in persuasivo sorriso,
a vendere, a peso, le onde
innocue dei capelli,
il respiro dei seni, il palpitare
del sangue sottopelle.
E vederti annuire,
nello scendere infinite scale,
prima di scomparire
in una porta
che schiude altri orizzonti,
naturale diventa l’innaturale
gesto di disappunto,
e si fa ghiaccio lo stridore
incolore del tempo.
*******
Ritrovarsi a ridere
per un film di Laurel & Hardy,
fanciulli dalle ginocchia fragili,
spinti per l’erta
dalla tardiva scoperta
dei fili logici
che legano universi
che dicono paralleli.
Un riso che rispunta
dagli anfratti,
dalle pieghe, mai scrutate,
che segnano mani,
vestiti e parole.
Comico non è più l’atto
infantile fermato
in fotogrammi ossidati,
ma il vuoto felice
tra lastre inutili di tempo.
*******
Solo l’eco dei passi,
nient’altro risuona tra queste mura.
Le parole smozzate,
coi rumori del giorno,
con i richiami urtanti di madri
sempre indaffarate
tra figli e bestie e casa,
le bestemmie del lavoro
calde nell’aria
mai del tutto serena.
Il dolore annidato
tra le pietre,
parassita inesausto,
coi suoi lamenti,
le domande di circostanza,
la risata e il pianto.
L’erba rimasta per via
volata dai carri nel sobbalzo continuo,
le perle nere lasciate dal gregge
nel suo andare senza un perché,
l’odore di stalla
col suo sciame di mosche
nell’estate riarsa.
Tutto è silenzio.
Le pietre rinnovate
guardano,
nel loro rigor mortis,
passare di tanto in tanto
gazzarre selfanti,
soste tra licheni e felci,
un’icona resiliente,
per dire tutto senza dir niente.
Nessuno più ascolta
gli interstizi tra le pietre,
le cavità del dolore,
il sudore che ha scurito,
con la terra,
pareti e destini.
Eterno si fa il silenzio.
*******
Volevo regalarti il mondo,
ma avevo in mano
solo una biglia di vetro
scheggiata,
volevo comporre per te
parole come nessuno
aveva mai fatto prima,
in prosa o in rima,
ma il mio dizionario
era di ben poche parole,
tutte corrose dall’uso
e dai secoli.
Ti lasciai quindi i miei silenzi
mentre la biglia
si accostava al muro,
senza nemmeno smuovere
l’aria col tuo sorriso.
*******
figlie dal cuore puro
che guardate la sera
scendere tra le case
con l'odore del fieno
che viene dai campi
insieme al silenzio
rotto a volte dal verso
dei rapaci notturni
conservate per sempre
questo sguardo di luce
trasparente e loquace
non lasciate che il sonno
vi annebbi la vista
negando la ragione
per sogni di grandezza
che calpestano l'uomo
che coltivano sangue
breve sorte ha l'uomo
tra queste verdi zolle
brevità infinita
o infinito dolore
sappiate sorridere
senza mai perdere
la vostra dignità
o negarla agli altri
senza quei compromessi
che mangiano l'anima
togliendo il respiro
tengano sempre un fiore
le vostre mani un fiore
del colore del giorno
ma la voce sia ferma
nel dire le parole
che detta il cuore puro
solo questo posso dirvi – da padre –
il primo di maggio del ventunesimo
anno del terzo millennio – giornata
di molte nuvole e di lenta pioggia –
*******
A mio padre, nel suo giorno
Era il tuo giorno.
Non diversamente serravi le mani
tenendo nel pugno granaglie,
cibo o semina, pane o fucile.
Camminavi tra le zolle
sussultando al boato,
al muro infranto del suono,
al lento risalire la collina dei trattori,
allo sparo che apriva/chiudeva il cielo,
avevi con te, in un corno fondina,
la cote che strideva sulla nera
lama della falce da fieno.
Era inverno ad ogni tuo passo,
pur nel sole ringhiante delle trebbiature,
delle aie madide di sudore,
nelle nuvole di pula
che urticava gola e orizzonte.
Scendevi nella notte
in quel tepore di stalla,
in quel pastrano spesso di guerra
che ti cullava, infante senza madre,
lasciandoti immemore
su gelide terre del nord
con il sapore d’una pagliuca d’avena, verde
sapore, fischio d’infanzia tra lupi e clorato,
con le pelli, a seccare sulla staccionata,
da vendere al primo mercante della stagione.
Il dolore, un colpo di taglio
assestato dalla brina di dicembre,
mise a tacere i tuoi ricordi:
svanì la linea del Tomori
destinata a un lager
dove dalla fame era scampo l’ortica,
bollita nell’inghiottitoio dell’inferno,
ed ogni scorza era una stilla di vita.
Svanirono, a poco a poco, i muggiti
dei tuoi vitelli, i bicchieri della miseria,
tra risate e carcassa riportata,
il lungo viaggio di ritorno
on the road disperato di spettri affamati,
in un paese devastato dai patimenti.
Qualcuno, non tu, mi disse
che avevi regalato il fucile
prima di ricominciare a sorridere
in quella cornice scavata da stenti.
Vento e pioggia, nel saluto, bagnarono
una bandiera che puzzava di guerra.
Se tutto chiede salvezza
Estratto dell’articolo di giornale
pubblicato dalla Prof.ssa Martina Pazzi
il 7 marzo 2023
in Perugia Online
In un passo dello Zibaldone Giacomo Leopardi ricorre all’immagine di ‘un giardino sofferente’, paragonato a ‘un vasto ospitale’, all’interno del quale vi è, ovunque, traccia di patimento. E se quel ‘giardino sofferente’ fosse davvero ‘un vasto ospitale’ psichiatrico in cui, a seguito di un T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio), viene ricoverato un ragazzo poco più che ventenne? Un giovane dalla ‘pelle sottilissima’, che chiama la sua malattia, la sua ossessione, il suo disagio ‘salvezza’? E che, non da ultimo, è convinto che ‘tutto chieda salvezza’?
Nell’alveo del ‘Progetto Lettura’ – che da anni offre ai giovani la possibilità di dialogare con noti scrittori – si è tenuto oggi, martedì 7 marzo 2023, dalle 8.30 alle 13.00, nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università degli Studi di Perugia, l’incontro con l’autore Daniele Mencarelli, poeta e scrittore romano, autore, tra gli altri, di Tutto chiede salvezza, romanzo edito per Mondadori nel 2020 e insignito del Premio Strega Giovani. Circa 900, le studentesse e gli studenti dell’I.I.S. ‘Giordano Bruno’ e del Liceo scientifico ‘Galileo Galilei’ di Perugia che, oggi, suddivisi in due turni, lo hanno incontrato, ascoltandolo, ponendogli numerose domande sul disagio esistenziale del protagonista – un Daniele Mencarelli allora ventenne – e condividendo con lo scrittore le proprie riflessioni sul romanzo Tutto chiede salvezza. Alle 8.30 è stata la volta delle studentesse e degli studenti dell’I.I.S. ‘Giordano Bruno’ di Perugia, diretto dalla professoressa Anna Bigozzi. L’incontro con l’autore è stato reso possibile grazie a un percorso didattico iniziato all’interno delle 25 classi che hanno aderito al progetto, con la lettura integrale e l’esegesi del romanzo Tutto chiede salvezza, seconda fatica letteraria della trilogia autobiografica di Daniele Mencarelli, autore anche del recente Fame d’aria, uscito anch’esso per Mondadori e anch’esso incentrato sulla fragilità.
L’incontro, alla presenza dello scrittore e poeta romano Daniele Mencarelli, del Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Perugia, il professor Maurizio Oliviero, del professore associato di Letteratura italiana contemporanea presso il Dipartimento di Lettere – Lingue, Letterature e Civiltà antiche e moderne dell’UniPg, Simone Casini, della Dirigente dell’I.I.S. ‘Giordano Bruno’ di Perugia, la professoressa Anna Bigozzi, della docente di Lettere presso lo stesso istituto e referente del ‘Progetto-Lettura’ Barbara Moretti, è stato reso possibile grazie a un proficuo scambio tra Scuola e Università e alla mediazione dell’Associazione Fulgineamente. La professoressa di Lettere dell’I.I.S. ‘Giordano Bruno’ Barbara Moretti, docente-referente del ‘Progetto-Lettura’, ha, poi, condotto l’auditorium nel vivo dell’incontro, sia moderando gli interventi degli studenti, che introducendo il lavoro didattico svolto a monte dell’incontro stesso. Lo ha fatto, la professoressa Moretti, rimarcando come la lettura di questo romanzo abbia rappresentato una chiave d’accesso per entrare in contatto con i ragazzi, che si sono ritrovati in queste pagine e che le hanno interrogate (un centinaio, le domande, le riflessioni, le rappresentazioni anche grafiche e le pagine scritte che sono pervenute alla ‘Commissione-lettura’, quale frutto della sensibilità e della vitalità dei giovani lettori).
Le domande poste dagli studenti-lettori, che hanno rappresentato con le loro voci il lavoro svolto dalla scuola, si sono alternate alle risposte dell’autore, il quale ha affermato che i copioni sono fatti (anche) per essere strappati, al fine di agire liberamente.
Dalla ‘pelle sottilissima’ del protagonista del romanzo alla sua permeabilità alla sofferenza altrui, dall’etimo di ‘salvezza’, intesa nell’opera come ‘malattia’, ‘ossessione’, ‘desiderio patologico’ alla funzione che può avere ‘la penna’ per un ragazzo costretto a un T.S.O.; dal parallelismo, fondato su pari sensibilità e sincerità di cuore, tra poeti e pazzi allo spirito di fratellanza che accomuna Daniele ai suoi compagni di stanza, passando per le conversazioni telefoniche con i genitori e la figura della madre, il concetto di ‘normalità’, quello di ‘recita’ e quello relativo all’impossibilità di mentire all’interno di un ospedale psichiatrico, il confronto con la serie uscita su Netflix (che, per certi versi, si discosta dal libro). E ancora: la tempesta di notizie drammatiche che azzerano la fragilità di molte persone, l’uso che il protagonista del libro fa delle droghe, il distacco dei medici e degli infermieri… Sono solo alcuni dei temi sondati dai giovani studenti.
Temi sui quali ha focalizzato la sua attenzione, con una certa empatia, l’autore, che ha parlato, con riferimento al protagonista dell’opera, di sensibilità spiccata, di un ‘sentire’ in modo particolare il mondo. Ma Mencarelli ha anche rimarcato che il gesto di uno scrittore non finisce con la sua autobiografia: il ruolo della letteratura è quello di dare gli strumenti per acquisire una certa consapevolezza di questo sentire. La letteratura è intrecciata al vissuto dell’autore, ma passa attraverso l’immaginifico: l’unica cosa che conta è la scrittura. L’uomo, poi, si è sempre interrogato su una natura che è drammatica, solo che l’individualizzazione ci ha portati a competere con tale natura, più che ad ascoltarla. E, come scrittore, Mencarelli lavora sulle fragilità, per dialogare con le quali occorre riprendere un rapporto dialettico con la propria, profonda natura; un aspetto, questo, quasi mai realizzabile durante la gioventù, quando si rende necessario condividere il proprio magma interiore di emozioni con qualcuno in atteggiamento di ascolto. I giovani sono serbatoi di vitalità e di poesia, ma anche di inquietudine. Proprio sul tema della vitalità lo scrittore romano ha fatto leva, parlando della modernità e del Novecento, secolo che ha saputo frantumare quel concetto di salvezza che nei Vangeli era unitario. Si definisce, poi, un ‘progressista tragico’. Nel senso che crede che l’umanità proceda per errori. Ma afferma anche di sperare in una salvezza dalle ingiustizie di questo mondo e in una salvezza oltremondana (da non credente). Oltre alla vitalità, gli scrittori hanno un’altra radice: la cultura. Il copione, infatti, può essere tradito solo se lo si conosce. Confida, però, agli studenti, di essere arrivato, alla loro età, alla letteratura muovendo dalla vitalità. Allora, costruendo scene mentre si parla, si può vedere la natura umana come un prato o come una selva dalla quale non si riesce a uscire e nella quale si esperisce il senso del proprio limite, il sentimento e il contro-tema del sentimento, il dualismo amore/morte, la follia, la psicosi, l’esplosione delle nevrosi… Scrivere, ha affermato Mencarelli, non è mai terapia: è un gesto che lo scrittore non compie per sé, ma perché sente che è fondamentale scrivere di questo limite, in quanto tale azione può diventare importante per gli altri.
Lo scrittore romano ha, poi, posto l’accento sull’importanza della letteratura. La provocazione rivolta agli studenti è stata questa: «E se vi dicessi che io non ho mai fatto un T.S.O.? E che i personaggi del romanzo sono inventati?». Ovviamente, si è trattato di una provocazione, atta, però, a ribadire che la letteratura altro non è che una lingua che lavora con tutto ciò che riguarda l’autore. E confida al suo giovane auditorio che il personaggio che ha amato di più è stato Giorgio, che vive l’incubo della perdita della figura materna, e che, dopo il T.S.O., ha rivisto Alessandro, ingrassato e incolto, ma ambulante, alla fermata di un autobus.
Altri argomenti affrontati sono stati la scissione di ogni essere umano tra il racconto di sé (sé narrato) e il sé reale (sé agito), specie per chi, come i giovani studenti, non ha vissuto il mondo analogico: con l’era digitale, dagli anni Duemila, tante diversità che prima erano esiliate (sessualità, malattia mentale, etc.) sono state portate dentro le mura di quella cittadella che chiamiamo ‘normalità’, anche per slittamento lessicale (il termine ‘paura’ è stato sostituito da altre parole, quali ‘ansia’, ‘fobia’, ‘panico’, etc.). Il rischio dell’era digitale è legato allo scollamento dell’uomo dalla sua vita reale: crediamo che ciò che vediamo su un display sia un surrogato della realtà, ma non ci sono surrogati della realtà, in quanto si tratta di narrazioni del reale e, in quanto tali, nascono sempre da una visione di parte. Ciò che resta fuori dalle mura della cittadella chiamata ‘normalità’, invece, sono i temi legati alla nostra natura profonda, in quanto non abbiamo gli strumenti per comprenderla. La poesia, però, potrebbe esserne uno. E noi siamo chiamati, mediante un allenamento costante, a riappropriarci della nostra realtà.
Quanto alla trasposizione dei contenuti del suo libro nella serie Netflix, visionata dagli studenti, Mencarelli ha sottolineato come si sia trattato di un passaggio da una lingua a un’altra, ovvero a un prodotto audiovisivo e seriale. La voce-pensiero del protagonista, infatti, non avrebbe potuto ‘riempire’ e informare di sé una serie TV. Il ricovero coatto di Daniele, poi, è stato ambientato nel 2022, nell’era digitale: da qui, l’inserimento di personaggi nuovi, che fungessero da paradigma di nuove forme di distruzione, come Nina. Anche se l’autore afferma di rimanere ancorato alle sue creature, che sono i romanzi, anche quelli che ancora scriverà: il racconto per l’uomo è altamente esperienziale.
Incalzato ancora dalla curiosità (e dalla vitalità, di cui si è parlato prima) degli studenti, Mencarelli conclude facendo un affondo sui cosiddetti ‘sani’. Sostiene lo incuriosiscano. Perché in quella categoria c’è un sommerso psico-patologico che è inconsapevole: «Sono pazzi a loro insaputa!» esclama ironicamente l’autore, che preferisce la consapevolezza e l’anti-istituzionalità. L’istituzione è una scatola vuota in cui ci sono delle persone che fanno quell’istituzione. Solo così si riempie di significato. D’altronde Daniele Mencarelli il senso lo cerca ancora. Ponendosi le stesse domande del suo riuscitissimo romanzo, pur se in un mondo e in una lingua che sono cambiati. Consapevole che «la parola, quando costruisce visioni, diventa invincibile».