Maggio - 2025 - numero 13
Maggio - 2025 - numero 13
“Adolescence”
la nuova serie che scuote le coscienze
Un’indagine cruda e spietata sull’adolescenza moderna, tra realtà, colpa e dissociazione
di Anna Canonico e Camilla Sportellini
La serie Adolescence non è la solita serie per ragazzi, ma qualcosa che ti colpisce forte, come uno schiaffo in faccia. Ti costringe a vedere da vicino quanto può essere complicata e buia l’adolescenza. È girata in modo molto realistico, quasi come se fosse un documentario, senza filtri o effetti da film “perfetto”. La telecamera segue i personaggi da vicino, in modo un po’ instabile, facendoti sentire dentro alla loro confusione, alle loro paure. Ogni puntata sembra un pezzo di diario, con pensieri sparsi che piano piano iniziano a collegarsi… ma alla fine non ti danno tutte le risposte. E forse è proprio questo il punto.
Oggi viviamo in una società dove siamo sempre connessi, ma spesso ci sentiamo più soli che mai. Le famiglie a volte sembrano non esserci davvero, e i ragazzi crescono senza qualcuno che li aiuti a capire come affrontare certe cose. Adolescence racconta proprio questo: è come se ci mostrasse in faccia quello che sta succedendo davvero, anche se fa male. Ti fa riflettere su quanto sia facile, oggi, confondere ciò che è vero con quello che ci sembra vero solo nella nostra testa.
Gli adulti, soprattutto i genitori, hanno reagito in modo molto forte nei confronti di questa serie. Alcuni si sono davvero spaventati e si sono chiesti: “Ma io conosco davvero mio figlio?” Il protagonista, un ragazzo di soli tredici anni accusato di aver ucciso una sua coetanea, non viene mostrato come un mostro, ma come un enigma. Questo ha fatto discutere tanto: c’è chi ha apprezzato il modo in cui la serie mette in luce i problemi dell’educazione di oggi, e chi invece ha pensato che sia troppo esagerata e un po’ ingiusta verso i genitori e gli adulti in generale.
Il tema della dissociazione è centrale: il protagonista si dichiara innocente, non per calcolo, ma perché non ricorda di aver commesso il fatto. La serie ci costringe così a riflettere sulla natura della colpa e sull’identità in formazione. È possibile che un ragazzino cancelli un atto così violento? E, se davvero non lo ricorda, può essere ritenuto colpevole fino in fondo?
La responsabilità, però, non è solo del ragazzo. La serie suggerisce — senza mai esplicitare — che la colpa si distribuisce tra la famiglia e la società. Genitori assenti, distratti o troppo occupati per vedere il disagio. Una comunità che etichetta ma non ascolta. Un mondo adulto che ha smesso di fare da guida, preferendo giudicare a distanza.
Adolescence è una serie che non consola, ma pone domande urgenti. E ci lascia con una certezza inquietante: se un ragazzo di 13 anni può commettere un crimine simile, forse non è solo lui a essere “malato”, ma tutto l’ambiente che lo circonda.
Donne partigiane: tra stereotipi e svalutazione
Come le combattenti partigiane vengono dimenticate dalla storia
di Eleonora Casciarri
35 mila furono le donne partigiane combattenti, 70mila fecero parte dei Gruppi di difesa della Donna, 4653 furono arrestate e torturate, oltre 2750 vennero deportate in Germania e 2812 fucilate o impiccate. Questi i numeri delle donne della Resistenza (1).
Sebbene nell'immaginario collettivo, la figura della donna partigiana sia spesso ridotta solamente al ruolo di crocerossina o staffetta, questi numeri rispecchiano il vero supporto femminile alla causa antifascista.
Infatti i loro ruoli furono ben piu ampi e decisivi: oltre a essere impiegate nel lavoro di informazione, approvvigionamento e collegamento, nella stampa e nella propaganda, nel trasporto di armi e munizioni, nell'organizzazione sanitaria e ospedaliera nei Gruppi di difesa (gruppi nati per sostenere i combattenti nella lotta armata, con raccolta di denaro e gesti di disobbedienza civile), furono anche combattenti, partecipando in prima persona alla lotta armata.
La rappresentazione parziale dei compiti della “partigiana”, nella narrazione ufficiale della storia, ha relegato di nuovo le donne a ruoli secondari e subalterni, negando loro il pieno riconoscimento come protagoniste in battaglia, da sempre appannaggio maschile, perseverando nei modelli culturali della nostra società maschilista.
Una sottovalutazione dei ruoli delle donne partigiane è stata fortemente alimentata anche dopo la Liberazione.A fronte di 150.000 uomini riconosciuti come partigiani combattenti, solo 35.000 donne ricevettero tale qualifica, nonostante il loro impegno fosse spesso altrettanto significativo.
Numerosi sono gli esempi di donne che hanno combattuto in prima fila: Elsa Olivi (nome di battaglia Helsinki) comandante di una volante partigiana nella Brigata “Franco Abrami” della divisione 'Valtoce". Olivi partecipò alla difesa della caserma di Bolzano contro i tedeschi e organizzò la fuga di militari internati dagli occupanti.Venne catturata svariate volte dai nazisti, ma riuscì sempre a fuggire, continuando a lottare fino alla Liberazione tanto che le sarà riconosciuto il grado di tenente.
Un’altra partigiana combattente fu la diciassettenne Germana Boldrini che il 7 novembre 1944 lanciò il segnale di inizio degli scontri tra partigiani e nazifascisti a Porta Lame a Bologna.
Partigiana fu anche Joyce Lussu, medaglia d'argento al valore militare, capitana nelle brigate "Giustizia e Libertà”, nonché poetessa e traduttrice che falsificò documenti di identità per chi doveva lasciare l'Europa.
Il processo di marginalizzazione del ruolo femminile non risparmiò nemmeno l’interno delle brigate partigiane. Le donne non ebbero vita facile neanche tra i compagni di lotta. Anche nei gruppi della Resistenza, formati in gran parte da giovani uomini della sinistra radicale, la questione femminile veniva spesso ignorata o negata. Il rapporto tra i generi era condizionato da un moralismo diffuso, ereditato dalla cultura cattolica dominante. Documenti e diari partigiani testimoniano un clima misogino e bigotto, in cui le donne, soprattutto le comuniste, erano considerate “non donne” ma “comuniste” ed erano tenute a “dare l’esempio” in termini di comportamento morale.
Evidente sintomo di una società intrinsecamente misogina, che ancora non concedeva nessun tipo di diritti e tutele alle donne. Ai tempi le donne erano scarsamente incoraggiate a continuare gli studi, erano escluse da qualsiasi divertimento, recluse al compito di “angelo del focolare”. La società italiana era profondamente attaccata ai valori tradizionali legati alla famiglia. Inoltre la marginalizzazione del loro contributo si deve anche perché considerate deboli e pericolose se catturate dai fascisti e, non di rado, persino i compagni le accusavano di sabotaggio politico, riversando su di loro sospetti e responsabilità ingiustificate.
Uno scenario che, pur appartenendo al passato, risuona ancora oggi: anche negli spazi ritenuti "sicuri" o di lotta, l’intersezionalità e il reale supporto alle donne spesso vengono meno. Nessuno schieramento politico, né moderato né radicale, riesce davvero a sottrarsi a una visione che relega le donne al ruolo di vittime o esseri fragili, continuando a sminuirne la forza e il contributo.
(1) questi dati sono stati presi dal sito ufficiale dell A.N.P.I.
“Le piccole virtù”
Natalia Ginzburg
di Isabella Mechelli
Natalia Levi nasce il 14 luglio del 1916 a Palermo, e si spegne il 7 ottobre nella Roma del 1991.
Nel 1962 dona al mondo la sua raccolta di racconti: “Le piccole virtù”, e si firma utilizzando il cognome del marito, Leone Ginzburg, un letterato antifascista che sposa nel 1938.
“Le piccole virtù” è un libro corto, ma non per questo piccolo.
All’interno di queste 111 pagine sono racchiusi i temi più importanti della nostra quotidianità: l’amore, l’amicizia, la nostalgia, il rapporto con i propri figli, i propri genitori, la propria città natale; la perdita di un amico. Chi scrive si prende la libertà di affermare che si tratta di una vera e propria opera, perché ciascuno dei concetti sopracitati è analizzato con una delicatezza pari a quella che usa una mamma mentre disinfetta il ginocchio sbucciato del suo bambino.
L’autrice usa un lessico sensibile, empatico, e a ogni riga letta abbiamo l’impressione di sentire un calore familiare farsi strada in noi. Per riferirmi a lei uso spesso questa immagine: “È come essere presi per mano”; ed effettivamente è così. La Ginzburg scrive, come direbbe Antonio Tabucchi, “con le ragioni del cuore”, e non appena conclusa la lettura, chi legge gliene è profondamente grato, perché qualsiasi suo sentimento è stato messo a nudo.
Spesso ci troviamo infatti a pronunciare frasi come “Non so come mi sento, non trovo le parole per spiegarlo”. Natalia invece, le parole le trova sempre. Le sceglie con estrema cura, le soppesa, e descrive con estrema facilità ciò che noi impieghiamo una vita solo a comprendere, figuriamoci a definire.
Se mi venisse chiesto di fornire un motivo per leggere “Le piccole virtù”, la risposta sarebbe molto semplice: perché parla di noi. Perché è un libro tenero; perché ognuno può ritrovare sé stesso in quell’agglomerato di lettere che, fondendosi insieme, creano questo piccolo angolo di paradiso. È istruttivo senza essere pesante, è scorrevole; è scritto in maniera dolce, quasi materna.
La Ginzburg ha visto gli orrori di entrambe le Guerre, ed è comunque riuscita a raccogliere tutto il dolore causato, tutta la miseria e l’incertezza, per trasformarli in racconti che fossero in grado di scaldare il cuore e nutrire l’anima. Con la sua opera, ci insegna a guardare il mondo da un punto di vista diverso da quello con cui siamo abituati a fare; ci insegna la compassione, l’empatia, il valore di ogni rapporto umano.
“Perché amore alla vita genera amore alla vita.”
E allora grazie, Natalia, per averci insegnato l’amore.
SOTTO LA STESSA LUNA
di Hafez Byan
Oggi, come tante altre notti, alzo gli occhi e la vedo. La stessa luna che vedo da qui, la
vedono anche loro. Ma se per noi è bellezza, riflessione, poesia... per loro è l’unica
testimone rimasta delle bombe, delle sirene, dei corpi strappati alla vita.
Ora vi parlo con il cuore in mano, come ho fatto esattamente un’anno fa, perché
sento che non possiamo più voltare lo sguardo altrove.
Nella Striscia di Gaza, ad oggi, oltre 54.000 persone hanno perso la vita in 19 mesi di
bombardamenti incessanti. Tra loro, più di 17.400 sono bambini, il rimanente donne,
anziani, uomini. Molti sono ancora sotto le macerie, senza nemmeno un nome, senza
nemmeno un addio. Ogni giorno, in media, 40 bambini perdono la vita.
Le notizie che arrivano da Gaza non sono semplici titoli su uno schermo. Sono grida.
Sono lacrime. Sono volti, sogni spezzati, bambini che non hanno più un’infanzia,
madri che seppelliscono i propri figli, padri che scavano tra le macerie con le mani
nude sperando in un miracolo.
Quanti morti servono ancora prima che il mondo apra gli occhi?
Quanti bambini massacrati, quante famiglie cancellate, quanti ospedali ridotti in
polvere devono passare davanti agli occhi dell’umanità prima che qualcuno dica:
“Basta!”?
A Gaza non si muore soltanto. A Gaza si viene dimenticati mentre si muore.
E questo è il crimine più grande: l’indifferenza.
Il mondo guarda. Il mondo sa. Il mondo vede tutto. Eppure tace.
A Gaza non si soffre la fame. A Gaza SI MUORE di fame.
Non è miseria, è sterminio. Non è un “conflitto”, è un massacro a senso unico. Si
tratta di un sistema di segregazione razziale, un genocidio, un sistema apartheid.
Israele ha bombardato TUTTI gli ospedali di Gaza.
Uno dopo l’altro. Con intenzione. Con precisione. Con arroganza.
E sapete cosa succede quando distruggi un ospedale in una zona sotto assedio?
Succede che i bambini vengono operati per terra, tra il sangue e la polvere, senza
luce, senza strumenti, senza anestesia.
Sì, avete capito bene. Senza anestesia.
Un bambino di 4 anni, colpito da una bomba, a cui amputano le gambe con un
coltello da cucina, mentre urla il suo dolore in una stanza dove nessuno può aiutarlo.
E la madre? Se è ancora viva, può solo stringere i pugni e piangere in silenzio.
Hanno distrutto le incubatrici, e i neonati sono morti soffocati dal buio e dal freddo.
Hanno bombardato i reparti oncologici, le sale operatorie, le ambulanze.
Medici assassinati mentre cercavano di salvare vite.
Infermiere sepolte vive sotto le macerie.
E mentre tutto questo succede, il mondo... tace.
L’Occidente, così veloce a difendere “diritti umani” quando fa comodo, adesso è
muto.
Ipocrita. Codardo. Complice.
Ci dicono: “È complicato.” No. Non lo è.
Non c’è nulla di complicato nel guardare un popolo affamato, disarmato, isolato... e
dire la verità: quello che sta succedendo è un crimine contro l’umanità.
E se vi sembra ancora lontano, vi parlo allora di Alma.
Una bambina palestinese di 4 anni, sfuggita dal genocidio, accolta qui in Italia.
A Perugia. Nella nostra città.
Io l’ho conosciuta. L’ho visitata. Le ho parlato. Ho visto la forza nei suoi occhi e la
fragilità del suo corpo segnato.
Non è rimasta con noi. Alma è morta a Milano, in un letto di terapia intensiva, dopo
aver attraversato inferni che nessun bambino dovrebbe conoscere.
Non è morta solo per una malattia.
È morta per una guerra che le ha negato l’infanzia, la salute, la pace.
Ci stiamo ancora convincendo che questa tragedia sia lontana?
Gaza è qui, ogni volta che chiudiamo gli occhi.
È nelle notti in cui dormiamo al sicuro mentre altri bambini dormono sotto le bombe.
È nei nostri ospedali, dove è arrivata Alma, sperando in una vita che non ha mai
avuto.
Oggi vi chiedo solo questo: non dimenticate. Non voltatevi. Non tacete.
Guardate la luna, stanotte. E pensateci. Un pensiero, una preghiera per chi crede, a
Dio, all’Universo, verso qualsiasi entitá riteniate sia più opportuno farlo. Una lacrima
condivisa, due parole per la pace.
Perché se guardiamo la stessa luna, non abbiamo scuse.
Siamo tutti sotto lo stesso cielo. Tutti figli dello stesso mondo.