PROFONDO QUANTO IL MARE

di Daniele Caruso, maggio 2019

"Microracconti con incipit d'autore" - Categoria Scuole Superiori

Primo classificato al premio letterario del 2019 della Biblioteca comunale di Corbetta 

Era primavera inoltrata, la scuola stava per finire. Mio fratello Efrem camminava sul muretto a fianco a me, con le braccia aperte per non perdere l’equilibrio. Sulle spalle portava con orgoglio lo zaino pieno di libri e quaderni. “Yonatan. Quando avremo bevuto tutta l’acqua del pozzo, moriremo di sete?” mi chiese saltando giù dal muretto. Io gli pizzicai la guancia tra l’indice e il medio. “Scaveremo un altro pozzo. Così profondo che l’acqua non potrà mai finire, e tutti gli uomini del villaggio potranno lavarsi quando tornano dalla miniera.”

Efrem era il più piccolo dei tre fratelli. Da quando mio padre era morto nella miniera, sentivo il dovere di proteggerlo e di insegnargli come funzionava la vita nel villaggio.

Io non terminai mai gli studi scolastici. Mia sorella si era ammalata gravemente, tanto che mia madre passava intere notti a pregare per la sua guarigione. Le medicine erano molto costose, così dovetti abbandonare la scuola per andare in miniera.

Quando passi intere giornate sotto terra, inizi ad apprezzare il cielo. Quei cunicoli erano la cosa che conoscevo più vicina all’inferno. L’aria era tremendamente calda e c’era pochissima luce. Gli occhi mi bruciavano per la polvere e per il sudore che colava dalla fronte.

Con la madre che si occupava della figlia malata ed io che passavo le giornate a lavorare in miniera, Efrem si ritrovò improvvisamente solo. “Usciamo a giocare” mi diceva ogni sera. Ma i muscoli mi facevano troppo male e le gambe tremavano ad ogni passo. “Forse domani” gli rispondevo.

Dopo alcune settimane mia sorella morì. Ogni roccia scavata in miniera, ogni preghiera ed ogni pianto di mia madre, erano stati vani. La malattia era arrivata e ce l’aveva strappata via.

Quella notte mi ricordo che Efrem non smetteva di piangere. Così mi sdraiai accanto a lui per cercare di tranquillizzarlo. “L’acqua del pozzo finirà” affermò singhiozzando “e moriremo anche noi.” Avevo voglia di piangere insieme a lui, ma trattenni le lacrime. “Ti ricordi quando a scuola hai studiato geografia? Quanto era grande il mare? Con un mare così grande l’acqua non finirà mai.” Lentamente il suo respiro tornò alla normalità. “Un giorno vorrei vederlo. E nuotarci dentro per essere sicuro che sia abbastanza profondo.”

Poco dopo si addormentò ed io potei finalmente liberare le lacrime.

Fin da quando era ragazza, mia madre aveva lavorato al telaio. Passava le ore nella sua stanza, intrecciando i fili senza sosta. Riusciva a creare stupende trame colorate che i mercanti della città erano ben contenti di acquistare. Con il tempo, però, le sue mani iniziarono a tremare e diventarono sempre meno precise, fino a quando non riuscì più ad usarle. Sapevo che il mio stipendio non sarebbe bastato per la famiglia, ma non riuscivo ad accettare l’idea che anche Efrem dovesse subire la mia stessa sorte e abbandonare la scuola per lavorare in miniera. Mia madre, che la pensava esattamente come me, mi disse di conoscere un uomo che poteva aiutarci. “Sebhat organizzerà il vostro viaggio verso le coste settentrionali. Potrete arrivare in Europa e trovare un lavoro meno pericoloso.” Lasciare la nostra casa, la famiglia e il villaggio in cui vivevamo da sempre metteva una terribile inquietudine nei nostri cuori. Soltanto la speranza nel futuro ci diede la forza di partire.

“Ora potrai vedere il mare” dissi a mio fratello. Ma lui non finse di essere felice.

Pagammo Sebhat con tutti i nostri risparmi e lui ci caricò sul furgone. Ricordo ancora l’ultimo abbraccio di mia madre, il più forte e lungo che abbia mai ricevuto. “Prenditi cura di Efrem” mi disse. Il viaggio fino alla costa durò diverse settimane. Sotto il telo del furgone eravamo circa dieci ragazzi, ammassati uno contro l’altro. C’era una piccola cisterna d’acqua dove bevevamo a turni. Avevamo così paura di finirla che ci limitammo a bere due sorsi al mattino e due sorsi alla sera.

“Pensi che sia stata una buona idea partire?” mi chiese Efrem. La parte più difficile del viaggio non era ancora iniziata, non potevamo abbatterci. “È stata la scelta giusta. Quando arriveremo in Europa, troveremo un lavoro sicuro e potremo mandare i soldi alla mamma. Forse tra qualche anno ne avremo abbastanza per costruire un pozzo. Quel pozzo profondo che sognavamo da piccoli.”

Efrem riuscì a sorridere. “Gli daremo il nome di nostra sorella. Pozzo Kibra.”

Una volta arrivati al porto, aspettammo due giorni prima di imbarcarci.

“Forse avevi ragione Yonatan, l’acqua non potrà mai finire.” disse mio fratello osservando l’orizzonte dalla spiaggia. Poi raccolse una conchiglia. “Porterò un ricordo della nostra terra.”

Non avevamo portato scorte di cibo, ma Sebhat ci aveva indicato un posto dove elemosinare.

“In quella via passano persone molto ricche, vi daranno dei soldi per pulirsi la coscienza. Ho mandato molti ragazzi da quelle parti e hanno sempre ricevuto qualcosa.”

Non so dire se Sebhat avesse mentito, ma passammo due giorni a digiuno.

Il terzo giorno arrivò finalmente l’uomo con cui avremmo attraversato il mare. Si presentò con il nome di Kiros e ci accompagnò all’imbarcazione. Era un grosso gommone a motore che caricava a fatica cinquanta persone. Quando salimmo era quasi pieno e dovemmo sederci sul bordo, con una gamba nel gommone e l’altra in acqua. Distribuirono i giubbotti salvagente, ma non erano abbastanza per tutti e una ragazza vicino a Efrem ne rimase sprovvista. Lui si tolse il giubbotto senza esitare e lo fece indossare alla ragazza. “Dona di più a te” le disse sorridendo.

La barca era in acqua da alcune ore quando il cielo si riempì di nuvole. Il vento iniziò a soffiare più intensamente e le onde diventarono sempre più alte. Al timone, Kiros cominciò un lento canto, una preghiera nella lingua tradizionale. Poi il grigio del cielo divenne nero e il vento divenne tempesta. Strinsi Efrem tra le braccia, mentre sul gommone la paura prendeva il sopravvento. Alcuni uomini iniziarono a spingere in mare chi stava sui bordi. “Dobbiamo alleggerire il carico” gridavano.

Poi un’onda ci fece ribaltare e fummo tutti sommersi. Sotto il mare c’era silenzio; non sentivo le urla, non sentivo il rumore del vento e lo scrosciare della pioggia. Non sentivo nemmeno Efrem. Riemersi dall’acqua e fui nuovamente nel caos. Le persone si dimenavano tra le onde cercando di rimanere a galla. Iniziai a gridare il nome di mio fratello, nuotando nella confusione e nel panico. Quando arrivarono le navi a salvarci, non avevo ancora trovato Efrem. Continuavo a ripetere il suo nome, come fosse un modo per tenerlo in vita. Ma la mia determinazione non bastò.

Recuperarono il suo corpo quella notte, con ancora in tasca la conchiglia raccolta sulla spiaggia. Avrei dovuto proteggerlo, avrei dovuto salvarlo. “Perdonami fratello. Perdonami mamma, per non aver protetto il tuo figlio più giovane. Perdonami patria per averti abbandonata.”

I superstiti al naufragio vennero fatti sbarcare in Europa, in un porto sicuro. Mi ritrovai da solo in un Paese straniero, nella disperazione di aver perso mio fratello. Ogni notte appoggiavo la conchiglia sull’orecchio per provare a sentire la sua voce tra le onde del mare. Ero convinto che la sua anima fosse rimasta in quelle acque, a nuotare nei fondali più profondi.

Promisi a me stesso che non sarei tornato indietro come un uomo sconfitto. Non sarei tornato senza avere abbastanza denaro per cambiare le cose.

Oggi nel mio villaggio i minatori hanno la faccia pulita e la borraccia sempre piena. Le donne riempiono grandi bacinelle d’acqua per lavare gli abiti. “Pozzo Kibra Efrem” leggono mentre tirano la carrucola con i secchi. E quando i bambini chiedono agli adulti quanto sia profondo il pozzo, quelli sorridono e rispondono: “Profondo quanto il mare”.