THAÏS, un detrito dal futuro
di A. Giulio Bragaglia (1917).
a cura di Eros Catanzaro
THAÏS, un detrito dal futuro
a cura di Eros Catanzaro
«O vierges, ô démons, ô monstres, ô martyres,
De la réalité grands esprits contempteurs,
Chercheuses d'infini dévotes et satyres,
Tantôt pleines de cris, tantôt pleines de pleurs,»
Charles Baudelaire, da "Femmes damnées", Les fleurs du mal.
«O vergini, o demoni, o mostri, o martiri, grandi spiriti dispregiatori de la realtà, assetate d'infinito, devote e baccanti, ora piene di grida or di pianto,»
(Traduzione di Riccardo Sonzogno, Sonzogno Editore, 1893)
Italia, 1916. La nostra storia inizia a Firenze, città fuori dal tempo che sembra ignorare i rombi e le fiammate che da più di dodici lune tingono di rosso i picchi e le valli d'Europa. Nei caffè più alla moda la miglior borghesia cittadina ha imparato come trascorrere ore quanto mai grevi con la levità che più s'addice alla terra natale di chi dall'Orco più profondo seppe innalzarsi per la Scala di Giacobbe. A divertirsi per le strade una combriccola di irriducibili, tali Settimelli, Corra, Balla, Chiti, Ginna e Marinetti, che si fanno chiamare "Futuristi". I nostri stanno producendo un cortometraggio per il cinematografo chiamato Vita futurista, nel quale vogliono mettere in scena i princìpi di quello che a breve diverrà il Manifesto della Cinematografia futurista. In altre parole: il primo film italiano d'avanguardia. Ora, per evitare affezioni nel nostro lettore verso storie di contorno, è doveroso specificare che in questa sede non si parlerà ulteriormente né di Marinetti, né di Vita futurista; questo preambolo è stato necessario per raccontare l'opera di un altro uomo sicuramente meno conosciuto e forse, dico forse, dimenticato dalla Storia, il giovane regista Anton Giulio Bragaglia. Classe 1890, all’epoca era un saggista con la passione per il "fotodinamismo" e sentiva già con forza l’influenza del Futurismo, ma bisognerà aspettare il 1917 affinché pubblichi i suoi primi film: Un dramma nell'Olimpo, Il mio cadavere e Thaïs.
Quest'ultimo è il soggetto del nostro articolo e ritengo che costituisca un'opera affascinante e degna di essere ricordata, non tanto per la sceneggiatura e la regia, molto meno “avanguardistiche” di quanto si potrebbe sperare da un film dichiaratamente futurista, escludendo l’ottimo finale e una scena “dell’ubriachezza” nella quale si gioca con gli effetti visivi, ma quanto più per il valore storico-artistico di un documento come questo, ricco d'influenze disparate, tra l'avanguardia e il fin de siècle, e ritrovato in forma di copia incompleta solo nel 1938 tra la collezione della Cinémathèque française dopo essere stato confuso per anni con Perfido incanto (1918), un altro film dello stesso regista (sorte più sfortunata toccò al marinettiano Vita futurista che fu sfortunatamente perduto nella sua interezza). Per godere l'essenza di questo residuo cinematografico ritengo che sia necessario mettersi un poco nei panni di chi viveva quel mondo tradito e sconsolato, vero canto del cigno della Belle époque, non fatto di lustrini ma da ferro e fuoco; così potremo immergerci nel mondo decadente e ricco di allusioni di Thaïs, portato suggestivamente alla vita grazie allo scenografo e pittore Ettore Prampolini che sublima ogni angoscia del suo tempo (e della protagonista) in un zig-zag di disegni geometrici dal sapore illusionistico e con forti tracce di Espressionismo cinematografico, già tre anni prima che il mondo assapori l'estrosità del Caligari di Wiene.
La contessa Vera Preobrajenska è una femme fatale decadente d'evidente ascendenza dannunziana, «conosciuta per le sue eccentricità, ha una reputazione letteraria sotto lo pseudonimo di Thaïs», eppure «molto sinceramente, non ama nessuno». L'appellativo della dama, come poi quelli di altri personaggi, non è casuale, l'attrice che la interpreta è Thaïs Galitzky una diva d'inizio secolo, i richiami del suo nome fanno risalire alla famosa etera che convinse Alessandro il Grande a bruciare Persepoli, oltreché ad una prostituta amante del protagonista dell'Eunuchus di Terenzio poi citata da Cicerone nel De Amicitia e da Dante nella Commedia come esempio di adulatrice.Sembra esserci un richiamo al romanzo omonimo di Anatole France e alla pièce lirica Thaïs di Louis Gallet musicata da Jules Massenet. tra l’altro la critica del tempo rimase molto delusa quando scoprì che il film di Bragaglia non era un’adattamento di quest’ultima. La protagonista, da donna fatale che si rispetti, possiede una pletora di amanti con cui si diverte «come se fossero una collezione di burattini» e richiede loro un solo requisito cruciale: «COURTE ET BONNE!». Ella è però amata dal gentile e un po' buffo cugino Oscar, il quale in una scena viene visto tenere in mano dei fiori, forse richiamando l’omonimo Oscar Wilde noto per girare le strade di Londra con un girasole tra le dita e con un’inconfondibile atteggiamento poetico. L'estetica floreale e Art Noveau domina l'impalcatura visiva dell'opera con evidenti stilemi d'ispirazione klimtiana negli interni, essi tradiscono però delle caratteristiche Art Déco ante litteram nelle spigolose decorazioni geometriche; inoltre la stanza della protagonista è decorata secondo i principi «les plus absolus de l'art décadent» e proprio qui si cela l'elemento più misterioso del film, una porta segreta che conduce a «l'au delà mystérieux» dove lei si rifugia «per sfuggire ai giorni in cui, incompresa, ho vissuto abbastanza!...». La svolta narrativa sarà l'arrivo della ballerina Bianca Stagno-Bellincioni che s'innamorerà dell'ultimo interesse della Thaïs, il «freddo e insofferente» Conte San Remo. Il triangolo amoroso si consumerà tragicamente ed il bel tenebroso favorirà la scrittrice russa alla dolce Bianca e la sconsolata affermerà con un tono cupamente esistenzialista e decadente «Essere derisa, incompresa, amare senza speranza! A cosa serve la vita?».
«C'est la Mort qui console, hélas ! et qui fait vivre ;
C'est le but de la vie, et c'est le seul espoir
Qui, comme un élixir, nous monte et nous enivre,
Et nous donne le coeur de marcher jusqu'au soir»
Charles Baudelaire, incipit da "La mort des pauvres", Les fleurs du mal. «È la Morte che consola, ahimè! e che fa vivere: è lo scopo de la vita ed è l'unica speranza che come un elisir ci esalta e inebria e ci dà il coraggio di camminare fino a sera;»
( Traduzione di Riccardo Sonzogno, Sonzogno Editore, 1893.)
Bianca prova a sopportare l’infausto triello romantico, ma a seguito dell'ennesima delusione la bella amareggiata dice addio a Thaïs e se ne va con il cavallo più veloce che trova. Sebbene avvertita della pericolosità della bestia lei non sente ragioni e turbata da una lacerante passione lancia al galoppo il cavallo, sfrecciando all'amazzone per i campi, ma l'animale imbizzarrendosi la fa cadere e la ballerina muore fatalmente sul colpo. La notizia getta nello sconforto la nostra Thaïs che si segrega in un labirinto costruito nelle profondità della sua villa dietro la già citata porta segreta, dove feritoie murarie a forma di labbra esalano «vapori inquietanti» e «profumi mortali» che fanno cadere la «crudele amante» nel puro delirio. Tutto questo fa parte di un piano più grande ideato dalla stessa per porre fine alla sua vita «assurda e falsa» con una «crudele raffinatezza». Negli attimi finali il tempo si dilata, i minuti divengono ore e quasi in un ironico contrappasso la morte perfettamente orchestrata dalla femme fatale si ritorce contro di lei e viene prolungata dal raffinato delirio da cui è stata rapita. La vena futurista dell'opera si gusta pienamente nella morte della giovane, che non si lascia cullare dall'inerte torpore di Thanatos ma anzi impazzisce in un dinamico contorcersi bacchico. Il regista ci dona quindi una delle scene meglio girate del lungometraggio, giocando con una geometria aguzza e filiforme, imbastendo così una morte non come languore ma come sovraccarico energetico che si realizza in un doloroso spasmo finale tra i fumi della follia.