La nostra Storia inizia nell’autunno 1929 quando alcuni Reduci della Grande Guerra decisero di fondare il Gruppo Alpini di Carvico, aderendo all’Associazione Nazionale Alpini che si era costituita nel 1919 a Milano. Gli Scarponi di Carvico, brillantemente capitanati dal primo Capo Gruppo Giuseppe Rossi (1886-1947), si riunirono nell’osteria del socio Cipriano Papini (Ol Cìprio) (1891-1964) per solennizzare la costituzione del nuovo Gruppo, alla presenza del Comandante del Battaglione Orobico Cav. Luigi Calcaterra. "Dopo che i presenti ebbero religiosamente vuotato un bicchierotto di quel buono, il Comandante ha dichiarato costituito ufficialmente il Gruppo ed ha assegnato  una florida attività al nuovo Plotone che entra nella grande famiglia Verdi. La riunione si è poi protratta a lungo tra animate conversazioni, cori alpini e riesumazione di ricordi di guerra e di vita di Battaglione" (da "Lo Scarpone Orobico" del dicembre 1929). Domenica 6 marzo 1932 la cerimonia dell’inaugurazione del Gagliardetto richiamò a Carvico gran parte degli Scarponi bergamaschi delle vicinanze. Una grande giornata di festa alla quale si unì larga parte della popolazione del paese. Alle finestre delle case il Tricolore sventolava gioiosamente per salutare la costituzione del Gruppo Alpini. Le manifestazioni presero le mosse dalla cerimonia religiosa e dalla benedizione del nuovo Gagliardetto impartita da Don Angelo Pedrinelli. La parola passò quindi alle autorità per i discorsi ufficiali. Al termine degli interventi oratori, si compose il corteo con in testa la Fanfara di Ponte San Pietro che, attraversando le vie del paese, giunse davanti al Monumento ai Caduti. Qui fu deposta una magnifica corona di fiori in ricordo delle Penne Mozze della Grande Guerra e tutti sostarono per un minuto di raccoglimento. Seguì infine un ottimo banchetto a cui parteciparono in concordia e allegria tutti gli Alpini presenti. Parecchi i Gruppi rappresentati della Valle San Martino, dell’Isola ed altri: Pontida, Cisano Bergamasco, Zogno, Brembate Sotto, Ponte San Pietro, Bergamo, Caprino Bergamasco, Ambivere, Mapello, Paladina. Dopo questi fatti non disponiamo, purtroppo, di documentazione certa sulla vita associativa del Gruppo; abbiamo solo dei fievoli ricordi provenienti dagli sporadici racconti tramandati oralmente, nella più stretta tradizione alpina. Erano gli anni bui del fascismo e le tensioni internazionali sfociarono nella Seconda Guerra Mondiale. Nel giungo 1940 per gli Alpini di Carvico scattò la mobilitazi one. Inquadrati in massima parte nel Battaglione Tirano del 5° Reggimento Alpini, andarono in Valle d’Aosta a combattere contro la Francia, sulle pendici del Monte Bianco. Dall’autunno 1940 all’aprile 1941, furono inviati a "spezzare le reni" alla Grecia. Una campagna disastrosa, tormentata dal gelo e dal fango, e conclusasi con il grande sacrificio della Julia al Ponte di Perati. Isidoro "Doro" Rota (1919) l’ultimo Reduce combattente rimasto, racconta spesso del Monte Cöc (il Monte Kug), che dovevano salire anche due volte al giorno per portare viveri e armamenti alle prime linee. Ricorda strade e mulattiere trasformate in acquitrini con le file dei muli che affondavano nel fango e gli Alpini costretti a caricarsi sulle spalle il prezioso carico destinato alle prime linee. Ma mentre gli Alpini faticavano tutto il giorno quelli della Milizia se ne stavano tranquilli a fondo valle a mangiare, bere e a cantare le loro vergognose canzoni. Gli Alpini non ne potevano più, si lamentarono con i superiori e per farsi sentire lanciavano di plòch (dei grossi sassi) contro gli accampamenti dei miliziani. Il comando decise quindi di inviare anche i fascisti in montagna a fare le "salumerie" (come scherzosamente i Veci chiamavano le salmerie). Fu allora scattò la vendetta. Gli Alpini li aspettavano sugli stretti sentieri e, fingendo di scivolare al loro sopraggiungere, li scaraventavano giù dalla scarpata. Alla sera, i miliziani erano stanchi per le faticate e, finalmente, dagli accampamenti si udivano salire verso il cielo solo i nostri bei canti alpini. In Albania l’incarico più gravoso era il recupero dei morti. A centinaia venivano riportati a valle avvolti nei teli tenda, trascinati lungo i ripidi sentieri. Una operazione difficoltosa, durante la quale spesso il telo o il bastone che lo reggeva spesso si rompevano e dall’involucro si intravedevano brandelli di carne martoriata. Uno spettacolo raccapricciante si presentava agli occhi di quei ragazzi poco più che ventenni, la loro mente si adombrava in cupi pensieri e si dicevano l’un l’altro: "Domani, dentro quel telo, potrei esserci io!". Fortunatamente nessun Alpino di Carvico cadde in Albania e in Grecia, tutti fecero ritorno alle proprie case. Dopo la Grecia venne la Russia, la più scellerata delle campagne militari progettate dalla folle politica del Ventennio. A quasi un anno dall’inizio delle operazioni, nell’estate 1942 le divisioni alpine Julia, Cuneense e Tridentina si attestarono lungo la riva occidentale del fiume Don. Per qualche mese gli Alpini rimasero (abbastanza) tranquilli, impegnati nella costruzione di rifugi e trincee. Socializzarono immediatamente con le popolazioni locali che li chiamavano "Italianski Karasciò!" (Italiani brava gente!) per distinguerli dai tedeschi che invece in terra russa si comportarono ferocemente, anche nei confronti dei civili. Intanto, al di là del fiume i russi andavano ammassando quantità enormi di uomini e di mezzi. Alla fine del 1942 sferrarono una violenta offensiva attraverso il Don ghiacciato, dilagando verso ovest con gli i giganteschi carri T34. Le divisioni di fanteria Cosseria, Pasubio, Ravenna e Sforzesca, poste a sud dello schieramento italiano, furono spazzate via in pochi giorni e, per tamponare la falla che si era aperta e coprire la ritirata dei tedeschi, il comando italiano decise di trasferire più a sud la Julia, nel settore contiguo alla Cuneense. Nell’estremo tentativo di bloccare il devastante attacco russo, le due unità alpine resistettero coraggiosamente per oltre un mese ma alla fine dovettero cedere alle preponderanti forze nemiche e vennero quasi completamente distrutte. Gli Alpini si ritrovarono circondati e per uscire dalla "sacca" cominciarono a camminare verso ovest. Nella confusione generale saltarono tutti i collegamenti e alle divisioni Julia e Cuneense non pervenne l’importante informazione di puntare a nord-ovest, su Nikolajewka. Si diressero a sud verso Valuiki, ormai saldamente in mano russa, dove gli ultimi sopravvissuti furono catturati e trasferiti nei campi di prigionia, lungo le disperate strade del "Davai!" ("Avanti!" L’ordine perentorio urlato dai russi ai prigionieri in cammino sulle piste ghiacciate nella steppa). Gli Alpini di Carvico in Russia erano fortunatamente posizionati a nord dello schieramento italiano, inquadrati per lo più nella Divisione Tridentina. Tra le unità alpine, la Tridentina fu l’ultima a mantenere una minima parvenza di capacità operativa non essendo stata investita immediatamente dal devastante attacco russo. Ma a metà gennaio la situazione precipitò anche in quel settore. I russi avevano ormai sfondato e minacciavano di chiudere definitivamente l’accerchiamento. Venne allora il 17 gennaio 1943 "ol dè de Sant’Antone a zic ure del dopomesdè" (il giorno di Sant’Antonio alle cinque del pomeriggio), come ricordava il Reduce Giovanni Mangili (1920-2007) della 48 a Compagnia del Tirano, il giorno in cui fu dato l’ordine di abbandonare tutto e di scappare. Isidoro "Doro" Rota, della 46 a Compagnia del Tirano, fu tra gli ultimi a lasciare la posizione. Fu comandato di rimanere fino a notte fonda a gettare stracci bagnati sulla stufa del reparto, in modo che il fumo proveniente dalle linee italiane facesse credere ai russi che gli Alpini fossero ancora nei loro accampamenti. Si formò una lunga fila di sbandati e nel buio della steppa gli Alpini di Carvico camminavano chiamandosi con il segnale di riconoscimento "Cavrì!" (era più semplice da pronunciare rispetto a "Carvìc!"). Appena dietro le linee, a Podgornoje, c’era un grande magazzino della Tridentina e qui "Doro" mise dello zucchero nelle calze che sistemò poi sulle spalle a mò di giberne. Fu la sua salvezza perché durante la ritirata, quando lo sforzo diventava insopportabile, ne mangiava un poco per riuscire ad andare avanti. Alcuni commilitoni di Giovanni Mangili trovarono dell’anticongelante che credettero fosse olio e ne bevvero fino a morire, mentre il carvichese se lo spalmò sui piedi e, indossate due paia di calze grosse, riuscì ad evitare il congelamento. Gli Alpini in ritirata erano sempre alla dispertata ricerca delle isbe (povere case di contadini russi) over si soffermavano per scaldarsi un po’ e riposare. Quando non riusciva ad entrare "Doro" si metteva spalla contro spalla con qualche commilitone per sentire meno freddo. Camminando sempre più a ovest per sfuggire ai russi, raggiunsero e superarono Opyt, Scororib, Postojalyi, Sheliakino, Warwarowka, Nikitowka e Arnautowo. Ad Arnautowo il Cap. M.O.V.M. Giuseppe Grandi (1914-1943), comandante della 46 a Compagnia del Tirano, venne ferito mortalmente. Sulla slitta, ormai morente, chiamò a sé i suoi Alpini e volle che cantassero la canzone del "Capitano". "Doro" cantava per il suo Capitano anche se i rapporti con lui non erano certamente buoni. Più volte l’ufficiale l’aveva punito, anche per futili motivi, arrivando in una occasione addirittura a schiaffeggiarlo. Forse fu per questa reciproca antipatia che "Doro" venne scelto tra quelli che dovettero rimanere fino all’ultimo sulla linea del Don, con la stufa accesa. Il 26 gennaio 1943, a Nikolajewka, l’ultima battaglia per rompere l’accerchiamento nemico e trovare una via di fuga. Da quel giorno risultano dispersi gli Alpini carvichesi Gerolamo Rota (1916-1943) del Battaglione Tirano e Giacomo "Candido" Magni (1918-1943) del Battaglione Valchiese. Gli altri riuscirono a "tornare a baita", feriti più nello spirito che nel corpo. L’8 settembre 1943, il giorno del "Tutti a casa!", si trovavano in gran parte nelle caserme dell’Alto Adige. Nel colpevole e completo caos che seguì, i tedeschi si impadronirono facilmente degli insediamenti militari italiani e intere guarnigioni furono catturate e spedite nei campi di internamento. Il nostro storico Capo Gruppo Lino "Gustavo" Turani (1912-1995) della 28 a Batteria del Gruppo A.M. Valle Camonica con Guido Rota (1916-1976) e Riccardo "Pietro" Donadoni (1917-1994), entrambi del Tirano, furono portati a Prostken, in Polonia; successivamente, furono liberati dai russi che li trasferirono nel loro campo n. 362 di Slukz. In particolare, Guido Rota ha lasciato un documento che traccia il suo percorso di rientro in Italia attraverso la Bielorussia, l’Ucraina, l’Ungheria, l’Austria e la Germania. Giovanni Mangili fu per qualche settimana a Mauthausen, poi in una fabbrica di munizioni, con turni di lavoro spaventosi, cibo scarso e schifoso finchè, finalmente, fu mandato in campagna, presso una famiglia costituita da sole donne (gli uomini erano tutti al fronte), dove era adibito ai lavori agricoli. I racconti di prigionia più dettagliati sono naturalmente quelli dei Reduci ancora viventi. "Doro" fu catturato l’8 settembre 1943 a Sciaves (BZ) e portato al campo Stalag XVIIA di Krems an der Donau, sul Danubio, 70 km. a ovest di Vienna. Era solo un campo di transito e dopo circa un mese fu trasferito a Wimpassing im Schwarztale, 80 km. a sud-ovest di Vienna. Qui lavorò per un anno nella fabbrica di gomma Semperit. Faceva il muratore (bocia) e dormiva in baracche con i letti a castello. Per pasto una pagnotta di circa mezzo chilo ogni tre prigionieri, che veniva tagliata con uno stampo in ferro in tre parti uguali, un po’ di margarina da spalmare e la solita brodaglia di rape. Nel settembre 1944 nuovo trasferimento con destinazione Groβweikersdorf e poi Kleinwtzdorf, 50 km. a nord-ovest da Vienna, quasi al confine con l’Ungheria, adibito allo scavo di grandi fossati anticarro per arginare l’imminente avanzata delle truppe sovietiche. Nel maggio 1945 i tedeschi fecero arretrare tutti i prigionieri di qualche chilometro e, dopo un paio di giorni di marcia, improvvisamente, una bella mattina i tedeschi non c’erano più, se ne erano andati. Allora tutti gli italiani cominciarono a camminare verso sud per tornare a casa. Anche  "Doro" si mise in cammino e, dopo numerose peripezie entrò in Italia dal Tarvisio. Arrivò a Udine, non si presentò per la contumacia, raggiunse Vicenza e da lì, sulla corriera di un prete che girava per raccogliere i militari che rientravano dalla prigionia, raggiunse Bergamo e nel giugno 1945 giunse finalmente "a baita" a Carvico. Severino Perico (1923) del Battaglione d’Istruzione 1923 venne catturano il 9 settembre 1943 a Rio di Pusteria (BZ) e fu messo su una tradotta diretta in Prussia, a Köninsberg, al confine con la Lituania, destinato allo scavo di rifugi sotterranei. Fu quindi trasferito al vicino campo di smistamento di Stablack, l’attuale russa Kaliningrad e da lì, dopo un viaggio di cinque giorni, giunse a Bonn Duisdorf per lavorare nella cava di una cementeria. Fu quindi a Lehrte e poi a Gross Dungen per la "campagna dello zucchero" in uno zuccherificio. Ad Hamel fece il boscaiolo finche l’11 aprile 1945 fu liberato dagli americani. Il viaggio di rientro a casa fu piuttosto burrascoso. A causa della mancanza quasi assoluta delle linee ferroviarie vagò per diversi campi di smistamento (Soggitem, Meppen, sul fiume Elba) e arrivò a casa solo il 25 luglio 1945. I cannoni tacquero definitivamente il 25 aprile 1945 quando ormai le città italiane erano ridotte a cumuli di macerie: bisognava ricostruire ogni cosa. Furono gli anni in cui ciascuno pensò a risollevarsi dalle ceneri della guerra, l’attività associativa alpina fu praticamente inesistente e infatti i dati del tesseramento degli Alpini di Carvico dal 1937 al 1954 non sono disponibili. Solo dopo la metà degli anni ’50 riprese lentamente sotto la forte spinta del boom economico che trasformò anche i piccoli borghi rurali delle nostre vallate in fiorenti oasi di benessere. La "scossa" arrivò all’inizio degli anni ’70 quando Leonardo Caprioli venne designato Presidente della sezione orobica e coniò il famoso motto: "Ricordiamo i morti aiutando i vivi". Con lui decollarono numerose iniziative di sostegno e solidarietà come la Casa e Laboratorio di Endine-Gaiano e la Casa per Anziani di Redona, a cui gli Alpini di Carvico parteciparono attivamente. Nel 1976 la terra della leggendaria Julia tremò, seminando devastazione e morte. Anche le Penne Nere di Carvico risposero all’appello lanciato dalla Associazione Nazionale Alpini e corsero al Cantiere n. 4 di Gemona (quello dei bergamaschi) per portare un po’ di conforto ai fradis furlans (fratelli friulani), tanto duramente colpiti. Ormai gli Scarponi carvichesi erano in fermento, desiderosi di intervenire ovunque ci fosse la necessità. Negli anni 1972-73 portarono a compimento una profonda ristrutturazione della chiesa di Santa Maria. L’edificio stava andando in rovina e venne rimesso a nuovo riportando la scalinata di ingresso alla forma originale, rifacendo integralmente gli intonaci esterni, anche del contiguo campanile, e restaurando all’interno tutti gli strucchi, le pitture e gli affreschi. Un intervento molto apprezzato che suscitò il plauso di tutta la popolazione del paese. Dal 1978 al 1981 fummo impegnati nei lavori di restauro della chiesa parrocchiale. Furono rifatte tutte le cornici e le modanature della gronda e della fascia intermedia di facciata, come anche quelle del campanile. I lavori durarono tre anni perché si lavorava principalmente la domenica mattina e contemporaneamente venne anche rinnovato completamente il pavimento della chiesa e sistemato sia l’interno che l’esterno della chiesetta della Madonna di Lourdes. Nel 1983 si costituì il Nucleo di Protezione Civile che a più riprese avrebbe partecipato a numerosi importanti interventi come nel 1987 a San Pellegrino e Mezzoldo per l’alluvione in Val Brembana o nel 1994 ad Alessandria, sempre tra le popolazioni alluvionate. Tra il 1990 e il 1991, aderendo alla richiesta delle suore, costruimmo una casetta in pietra nel giardino della scuola materna. Nel 1993 fummo chiamati sul Monte Linzone a costruire una recinzione alla "baita alta" presso la chiesetta denominata "Grotta della Natività". L’anno successivo Don Adriano Caseri ci chiese di rifare le cornici di gronda della facciata principale della chiesa parrocchiale di Sant’Antonio d’Adda, nonché di restaurare il tetto e il campanile della vicina chiesa di San Rocco. Furono tutti lavori che servirono ad accrescere la fiducia nei nostri mezzi perché si stava avvicinando venne il 1995, l’anno della svolta per gli Alpini di Carvico. Eravamo pronti per il grande passo, avremmo costruito la nostra nuova Sede Alpina. Sotto l’illuminata guida del Capo Gruppo Lino "Gustavo" Turani, purtroppo andato avanti pochi mesi dopo avere dato l’avvio all’opera, e magistralmente diretti dal Geom. Franco Ravasio, realizzammo una sede imponente, affascinante, vero fiore all’occhiello del nostro Gruppo e della quale andiamo giustamente orgogliosi. Una impresa gigantesca che vide il coinvolgimento degli Alpini, degli Amici, ma anche di semplici volontari che si misero a disposizione senza nulla pretendere, divisi in tre diverse squadre. Una era adibita al recupero dei materiali da inserire nel progetto, la seconda lavorava fuori sede per autofinanziare l’opera e la terza provvedeva alla vera costruzione del fabbricato. Partimmo senza un preciso piano finanziario ma il grande Cuore Alpino prevalse ancora una volta su tutte le difficoltà. Proseguendo nella Storia, è certamente da ricordare nel 2000 il secondo profondo intervento alla chiesa di Santa Maria con il rifacimento completo del tetto di piccola e grossa orditura e la posa del nuovo manto di tegole a coppo. Nel 2011, in occasione della ricorrenza dei 150 anni dell'Unità d'Italia, abbiamo celebrato il gemellaggio con gruppi di tre diverse regioni: i piemontesi di Arborio, i genovesi di Masone e i toscani di Viareggio. Un gesto con il quale abbiamo inteso abbracciare simbolicamente tutto il Risorgimento italiano e l'epopea garibaldina in modo particolare. I rapporti con i gruppi gemellati si sono poi ulteriormente consolidati con la profonda stima e la fraterna amicizia che ci lega. Dal 1973 provvediamo alla costruzione della Capanna di Natale, ancorchè coadiuvati negli ultimi anni da una solerte squadra di giovani amici specializzati. E’ infine da ricordare il Museo Alpino posto al piano superiore della nostra Sede, inaugurato nel giugno 2012 e sapientemente diretto da Celestino Rota in stretta colaborazione con il Capo Gruppo Lanfranco Turani e con il Tesoriere Giovanni "Nino" Rota. Un luogo nel quale abbiamo raccolto oggetti e documenti riguardante la vita alpina per testimoniare e tramandare ai giovani le nostre belle tradizioni. Non conosciamo il nostro futuro, ma finchè ci sarà un Alpino lo sguardo sarà sempre rivolto ai Veci dell’Ortigare e del Monte Grappa, del Guri I Topit, di Nikolajewka, nel segno della pace, della fratellanza, dell’impegno sociale e della solidarietà. 

Fonte testo e immagini:  sito Alpini Carvico