Le sfide delle famiglie
La coppia multiculturale, di Alessandra Sabbatini
Nel lavoro di coppia, quando si parla di differenze culturali, la prima immagine che viene alla mente è quella di 2 persone che vengono da paesi diversi e con culture diverse. Direi che l’immagine è corretta e allo stesso tempo incompleta. Se prendiamo il fatto che i componenti della coppia sono di paesi diversi, questi avranno certamente origini, usi, costumi, abitudini, credenze e magari religioni differenti. In questo caso, per poter convivere felicemente, date le numerose differenze, occorre una buona dose di tolleranza, apertura mentale, pazienza, disponibilità e capacità di negoziazione. Queste competenze, necessarie alle coppie di tutti i tipi, sono principalmente presenti nei primi tempi di vita comune, sembrano diminuire in intensità con il passare del tempo e sono messe alla prova da eventi straordinari come la perdita del lavoro, l’instabilità finanziaria, la morte, la nascita, l’espatriazione e via dicendo. A questo punto entrano in gioco la capacità di adattamento al cambiamento, la natura di ognuno dei componenti della coppia, la cultura di appartenenza e la cultura della famiglia di origine. Questa doppia cultura, geografica e famigliare, aumenta la complessità del funzionamento delle relazioni di coppia.
La dinamica della coppia multiculturale è dunque multidimensionale, le 2 persone che la compongono sono per se’ differenti, cresciute in ambienti differenti, magari simili, ma non uguali, i cui messaggi interiorizzati sono specifici sia del proprio paese, primo livello di differenza culturale, che della propria famiglia, secondo livello di differenza culturale. Per esempio prendiamo il caso di Jen e Adi; Jen di origine asiatica, prima generazione, nata e cresciuta a New York e Adi di origine africana, prima generazione, nato e cresciuto a Londra. Il problema è la classica mancanza di comunicazione e il conseguente sentimento di incomprensione e distacco. Per capire come si sia arrivati alla mancanza di comunicazione, occorre sapere come ognuno di loro vede il problema, quando il problema è cominciato e come i due hanno cercato di risolverlo; quello che ha funzionato e quello che non ha funzionato. E’ importante delineare quale sia la storia della famiglia di origine e capire quali siano i messaggi espliciti e impliciti che Jen e Adi hanno ricevuto crescendo e che hanno fornito loro la chiave di lettura per interpretare prima il funzionamento del mondo esteriore e poi, in questo caso, il comportamento e le risposte del partner.
In entrambe le famiglie la madre si occupava quasi esclusivamente dei figli e questa è una similitudine; ma Jen è la figlia maggiore e Adi il figlio minore. Jen aveva il ruolo di una seconda madre per suo fratello minore, i cui bisogni erano la priorità. Adi era il più giovane di 6 fratelli, il piccolo di cui tutti si occupavano. Ora queste dinamiche famigliari si riflettono nel funzionamento di coppia. Jen si occupa di Adi e Adi riceve le attenzioni di Jen. Il problema sorge quando Jen, dopo una depressione dovuta ad una mancata gravidanza, perde la capacita’ di fornire attenzione a Adi e vorrebbe essere lei a riceverla come segno d’amore di Adi. Adi, a sua volta occupato a gestire il proprio dolore, sente il cambiamento del comportamento di Jen, comincia a dubitare del suo amore e a sentirsi insicuro. La sua insicurezza lo rende timoroso a mostrare affetto. Jen si sente sola e sviluppa risentimento verso Adi che si sente respinto. La dinamica si installa nel silenzio e le incomprensioni creano distacco. A questo punto abbiamo un insieme di fattori culturali che entrano in gioco, sia quelli legati al proprio paese di origine che alla propria famiglia, e entrambi contribuiscono all’interruzione della comunicazione. Jen vuole il sostegno emotivo di Adi ma non chiede a Adi di starle vicino. Jen non sa come chiedere aiuto perché sua madre non ha mai chiesto aiuto al marito, ma ha sempre e solo svolto il suo ruolo di madre e moglie senza bisogni. Jen è il prodotto di un’educazione tra due mondi, il mondo asiatico dove i sentimenti non si mostrano e quello americano dove la donna può chiedere di più. Adi è cresciuto al centro dell’attenzione di tutti e ora non la riceve più. Adi interpreta il comportamento di Jen come una mancanza di interesse nei suoi confronti. Adi non sa come comunicare ad Jen le sue insicurezze. Anche Adi è il prodotto di due culture; nella sua famiglia gli uomini sono forti e nell’educazione britannica i sentimenti non si esprimono a parole.
Se questo è il quadro della situazione, il lavoro sulla coppia si sviluppa su più fronti, da un lato si accompagna la comprensione delle risposte comportamentali automatiche davanti alle difficoltà e dall’altro si espande il loro significato su diversi livelli culturali. La comprensione è alla base di una maggiore fiducia nell’altro, facilita la tolleranza alla frustrazione e riduce la tentazione di dare spiegazioni ai comportamenti automatici dell’altro, utilizzando le chiavi di lettura sbagliate. Se riprendiamo il caso di Jen e Adi, una volta che Jen capisce l’incapacità di Adi a gestire i sentimenti, che è disposta a chiedere a Adi di starle vicina, che Adi a sua volta capisce che il risentimento di Jen è la reazione al mancato sostegno di Adi, che Adi capisce di cosa Jen ha bisogno perché Jen chiede, possiamo cominciare a riparare la comunicazione e da qui proseguire verso una rinnovata complicità di coppia. Per concludere, la realtà di una coppia è sempre complessa e quella della coppia multiculturale lo è ancora di più. La terapia può sicuramente aiutare e il primo passo verso una risoluzione del problema è sicuramente quello di chiedere consiglio.
Alessandra Sabbatini
Psychotherapist, LCSW, CST
La famiglia fra paesi e culture diverse, di Cecilia Lorenzi
La maternità è un’esperienza ricca di emozioni forti in cui sentimenti di felicità e gioia si incrociano spesso con momenti di ansie e timore. Diventare mamma in una terra straniera può essere una sfida ancora più intensa per i molteplici aspetti fisici, fisiologici e psicologici che una donna deve affrontare. Alcune future mamme si sentono più vulnerabili e insicure in questo momento, in modo particolare le espatriate che si trovano lontano da casa, immerse in una contesto socioculturale spesso sconosciuto. Adattarsi alla maternità, la negoziazione di un ruolo tra due contesti culturali, il cambiamento della struttura familiare sono solo alcuni degli aspetti che ogni futura mamma deve imparare a rinegoziare.
Il pediatra e psicoanalista D.W. Winnicot ha introdotto l’idea della madre sufficientemente buona, imperfetta ma attenta e affettivamente presente verso il proprio bambino. Non serve la madre perfetta per allevare un bambino sano che si senta amato e accudito ma è più importante essere una madre sufficientemente buona che sa prendersi cura dei bisogni fisici ed emotivi del bambino. Un segno di benessere psicologico è proprio la capacità di accettare che nessuno di noi è perfetto. Prima la mamma può accettare che non sarà la mamma perfetta, meglio si preparerà ad un bambino con le sue difficoltà e imperfezioni. Se un bambino si sente complessivamente sicuro e amato, sarà capace di tollerare e perdonare le imperfezioni della mamma e del mondo in cui vive. Una mamma sufficientemente buona aiuta il bambino ad imparare come tollerare le frustrazioni, diventare autosufficiente e ad imparare come consolarsi da solo.
Essere una mamma che accetta il suo ruolo fra due culture e lingue diverse, fra due mondi così lontani, senza un network di una famiglia allargata può essere una grande sfida. L’insegnamento di Winnicott è un vero regalo per ogni mamma che si trova in un momento di difficoltà, solitudine o tensione emotiva. Il compito della mamma consiste proprio nell’accettare le proprie peculiarità e nel permettersi di essere una mamma non perfetta che accetta le sue emozioni più intense e difficili. Essere una mamma consapevole delle proprie abilità, che può impegnarsi per migliorarsi ma anche perdonarsi e accertarsi nei suoi limiti.
Cecilia Lorenzi, MA, LMSW
Clinical Social Worker resident
Italian Clinical Psychologist
Opportunità e difficoltà delle famiglie all'estero, di Federica Gagliano
Il trasferimento di una famiglia in un paese estero rappresenta senz’altro un prezioso arricchimento da tanti punti di vista, soprattutto per i bambini, le cui funzioni cognitive sono ancora molto plastiche e permettono loro di apprendere più in fretta e più informazioni rispetto ai genitori adulti. Tuttavia costituisce anche un grande stress, se non talvolta un trauma. Infatti, nel processo di adattamento e integrazione alla nuova realtà entrano in gioco numerose dinamiche psicologiche, che rispondono alle diverse esigenze evolutive dei membri della famiglia e sono tutte interconnesse, si influenzano costantemente tra loro, a volte facilitandosi, altre invece ostacolandosi. Negli ultimi due anni inoltre questo processo è stato ulteriormente aggravato dalla pandemia da Covid-19, che ha accentuato la condizione di isolamento e alienazione di queste famiglie immigrate, mettendo a dura prova le loro capacità adattive.
Quando il trasferimento avviene per motivi lavorativi molto spesso coinvolge uno solo dei genitori, che deve assestarsi al nuovo ruolo professionale, spesso con affanno, ansia, preoccupazione e anche sensi di colpa per il tempo e la presenza mentale sottratti ai suoi cari. L’altro genitore invece resta sospeso in terra straniera tra gli oneri legati al contesto abitativo e organizzativo della famiglia e l’accudimento dei figli nelle routine quotidiane. Tutto ciò porta inevitabilmente alla decurtazione di tutta una serie di bisogni e aspirazioni individuali che a lungo termine genera insofferenza, insoddisfazione, frustrazione, rabbia e, nei casi più gravi, disturbi d’ansia, del sonno e depressione, danneggiando la coppia, le sue le competenze educative e di conseguenza i figli stessi.
La responsabilità genitoriale assume un peso più gravoso da sostenere, laddove vi è la necessità di ricreare un contesto sicuro, protetto e accogliente, ripartendo totalmente da zero: casa, scuola, relazioni sociali, attività sportive e artistiche, pediatra e altri professionisti. In questo scenario viene inoltre a mancare il sostegno della famiglia più allargata, in particolare dei nonni, che nella cultura italiana rappresenta una risorsa fondamentale, fonte di nutrimento affettivo e trasmissione intergenerazionale di valori, modelli e tradizioni, che contribuisce ad alleggerire gli impegni dei genitori e a risparmiare di baby sitter.
Ai bambini vengono dunque improvvisamente a mancare quei punti di riferimento fisici, ma soprattutto affettivi e sociali, che avevano contribuito fino a poco prima a forgiare la loro personalità, autostima, fiducia in se stessi e senso di sicurezza. Di fronte a tali lacune, i piccoli come sempre inviano i loro segnali di disagio e si adattano, tuttavia con modalità non sempre funzionali, a seconda dell’età: riprendono a fare la pipì nel letto, chiedono di dormire con i genitori, sono più irascibili e nervosi o più silenziosi e intimoriti, perdono appetito o si abbuffano, mostrano discontinuità nel ciclo sonno-veglia, con effetti sull’attenzione in classe, sul rendimento scolastico, e sul comportamento nei confronti dei compagni e, più in generale, con il gruppo dei pari. Non riescono ancora a comprendere bene le cause del loro malessere e sono incapaci di estinguerlo da soli, si arrabbiano e spesso trovano i genitori stanchi e inermi nell’aiutarli a mettere in atto strategie efficaci di risoluzione.
In questo circolo vizioso gli adolescenti incontrano altri ostacoli nell’adattarsi al nuovo contesto socioculturale, oltre alle ben note crisi tipiche di questa fase evolutiva e ai cambiamenti fisici, che rendono gli adulti spettatori basiti e disorientati di fronte a figli che talvolta faticano a riconoscere. Il completo sviluppo cognitivo dell’età permette di compensare un po’ le distanze fisiche, utilizzando al meglio gli strumenti di comunicazione, per mantenere l’immagine sociale, le proprie narrazioni e i legami amicali. Ma questi ultimi sono ormai talmente forti e radicati nella costruzione della loro giovane identità, da non volersene spesso allontanare, generando così conflitti e malumori in famiglia ancor prima della partenza e altrettanti all’arrivo. Il tentativo prepotente di affermare di se stessi anche nel nuovo contesto e i continui contrasti con i genitori non facilitano il processo di adattamento, anzi, spesso lo ostacolano. Gli adolescenti non sentono riconosciuti i loro bisogni, si chiudono troppo in se stessi oppure trovano il modo di esprimere la loro rabbia e frustrazione attraverso condotte devianti e a rischio.
Infine, come già accennato, la pandemia ha generato la comparsa di problematiche comportamentali e della sfera emotiva oltre che negli adulti, anche nei bambini e negli adolescenti. In particolare, al di sotto dei sei anni la sintomatologia più frequente è stata rappresentata dai disturbi d’ansia, con inquietudine, paura del buio e ansia da separazione; disturbi del sonno, con difficoltà di addormentamento e di risveglio; segni di regressione comportamentale, pianto inconsolabile e un generale aumento dell’irritabilità. In rari casi al di sotto dei 4 anni, si sono anche manifestati sintomi simil-autistici, come effetto della precoce deprivazione sociale. Sopra i sei anni e negli adolescenti, i sintomi hanno interessato più la componente somatica con disturbi d’ansia e somatoformi, e dunque la sensazione di mancanza d’aria, aumento del battito cardiaco, cefalee, dolori addominali e in altre parti del corpo. Infine, cambiamenti repentini nel tono dell’umore, utilizzo improprio di media e social, disturbi dell’alimentazione, sintomi ossessivi per la pulizia e la propria igiene personale e anche in questo caso una maggiore irritabilità.
Da ogni difficoltà tuttavia nasce sempre un’opportunità, è fondamentale perciò promuovere spazi di ascolto e incontro, per la condivisione e il sostegno di queste famiglie e per offrire ai più piccoli e giovani l’occasione di esprimere il proprio mondo emotivo e avere un dialogo che offra loro degli strumenti per comprendere meglio ciò che sentono e che accade intorno.
Federica Gagliano
Psicologa Psicoterapeuta
Dirigente Psicologo del Servizio Sanitario Nazionale Italiano