di Lorenzo Bonaguro

Francesco Crispi


«Apprezziamo in lui il patriottismo, il coraggio, l’ardimento. Apprezziamo la sua maschia risolutezza e ben anche quell’affermazione imperiosa dell’io che è la sua principale caratteristica

Corriere della Sera, 14-2-1888


Francesco Crispi fu uno dei politici italiani più importanti dell’Ottocento. La sua forte passione politica - da molti contemporanei tacciata di giacobinismo - e l’ego smodato - ai limiti della megalomania - lo portò da essere uno dei promotori della rivolta antiborbonica di Palermo nel 1848 e alla guida di ben quattro governi alla fine del secolo.

L’azione antiborbonica gli costò l’esilio. Nei successivi quindici anni vagò per l’Europa stringendo legami con gli ambienti democratici e radicali: entrò in strettissimi rapporti con Garibaldi e Mazzini, dal quale si distaccò a seguito della scelta monarchica: «la monarchia ci unisce, la repubblica ci divide» disse Crispi alla Camera nel 1864. Fondamentale la sua partecipazione all’impresa dei Mille: riuscì a mobilitare le masse siciliane mentre i garibaldini sbarcavano a Marsala. In seguito Garibaldi lo nominò Segretario di stato del governo provvisorio.

Alle prime elezioni del neonato Regno d’Italia venne eletto fra i banchi dell’opposizione democratica. Nei due decenni successivi rimase una figura di spicco del panorama politico italiano: attorno alla sua dirompente personalità si coagulò la sinistra parlamentare. Ciò non bastò a evitargli varie accuse da più parti, tra cui quella di essere bigamo, che rischiò di costargli la carriera politica.

Nel 1887 ricevette l’incarico di formare un governo da re Umberto I. Guidò l’esecutivo fino al 1891, e poi una seconda volta dal 1893 al 1896. Subito la legislatura fu dominata dalla sua dirompente e autoritaria personalità: mai un maggior numero di proposte di legge fu avanzato da un esecutivo del Regno. Caratteristica comune delle proposte fu l’intento riformatore della macchina amministrativa, rendendola al contempo accentrata e più vicina alla società civile, in pieno stile giacobino.

Lo stile di governo di Crispi viene descritto come “democrazia autoritaria”: secondo lui, il parlamento non doveva essere il motore della politica italiana come era stato fino ad allora, altrimenti il paese finiva sotto ricatto delle macchinazioni degli interessi particolari e di politici trasformisti. Un esecutivo sarebbe stato stabile solo se il Presidente del Consiglio, in qualità di uomo forte, avesse avuto l’autorevolezza e il carisma per creare un bipartitismo, per raggiungere il quale anche il trasformismo poteva tornare utile, paradossalmente. La centralità del potere esecutivo si rispecchiava anche nei rapporti fra Stato e società: «Quando lo Stato rappresenta la nazione ha una vita che non gli è data dalle leggi, ma gli è data da Dio, e questo è il caso dell’Italia».

Col passare degli anni la presa di Crispi sulla società si strinse sempre di più. Episodi come i falliti attentati a Napoli e a Roma, i tumulti dei fasci siciliani e la rivolta di Milano non fecero che indurire ancor di più la politica riformatrice del presidente che arrivò a scontrarsi con gli interessi di molti deputati, che fecero cadere il governo. Tornato al potere una seconda volta, Crispi continuò sulla linea autoritaria per tenere unita una nazione che nell’ultimo decennio del secolo viveva molte tensioni sociali e scandali finanziari.

La forte personalità di Crispi segnò anche la politica estera dei suoi governi. Sul fronte europeo, decise di allentare i rapporti con la Francia, verso cui nutriva risentimenti fin dai tempi della Repubblica romana e a causa del sostegno al Vaticano, arrivò a scatenare una guerra commerciale. Allo stesso tempo riallineò il paese firmando la Triplice alleanza (1887). Sul fronte africano invece fu promotore del colonialismo italiano. Dopo l’immobilismo di Depretis, Crispi era pronto ad espandere confini e aree di influenza, come volle fare con il Trattato di Uccialli (1889), ma il progetto fallì miseramente con la sconfitta di Adua, che causò un’ondata di contestazioni in tutto il paese che costrinsero Crispi a dimettersi nel marzo del 1896. Il colpo fu devastante: travolto dall’opinione pubblica, dalla sfiducia del Parlamento e del Re, dagli scandali finanziari, e da una salute sempre più precaria si ritirò a vita privata per poi morire nel 1901.


LETTURE E APPROFONDIMENTI:

Fulvio Cammarano, “Storia dell’Italia liberale”, Laterza, 2011

Passato e Presente, "Francesco Crispi, un democratico autoritario"