di Gabriele Pato

la legione redenta di siberia

Nel luglio 1914, quando l'arciduca Francesco Ferdinando venne ucciso dai colpi di pistola sparati da Gavrilo Princip, Trento e Trieste - e con loro Trentino, Alto Adige, Istria e Dalmazia - facevano parte dell'impero Austro-Ungarico. Di conseguenza, allo scoppio della Grande Guerra, circa centomila sudditi asburgici di lingua italiana furono inviati al fronte per difendere la Duplice Monarchia. La grandissima maggioranza di questi fu inviato al fronte orientale, che si snodava tra Varsavia e le città fortificate di Cracovia e Przemyśl, in Galizia. Duranti i primi mesi di guerra, l'Austria si trovò in enormi difficoltà e inanellò una serie di gravi sconfitte e ritirate precipitose, al punto che nell'autunno 1914, dopo soltanto tre o quattro mesi di guerra, oltre venti mila austro-italiani erano caduti prigionieri in mano russa.

Il governo zarista aveva compreso perfettamente il potenziale esplosivo delle lacerazioni nazionali all'interno dell'impero asburgico e sapeva che i prigionieri di guerra, nonostante la convenzione dell'Aia del 1910 proibisse di arruolarli come soldati, potevano essere molto utili allo sforzo bellico e non soltanto come forza lavoro. Conoscendo le pretese territoriali italiane sul Trentino e sulla Venezia-Giulia, Pietrogrado offrì al governo Salandra di prendere in custodia i prigionieri di lingua italiana, sperando così di spingere il Regno d'Italia a schierarsi al fianco dell'Etente. Il governo italiano declinò l'offerta ma, come sappiamo, il 24 maggio 1915 entrò comunque in guerra all'interno dell'alleanza fra Inghilterra, Francia e Russia. Sebbene le trattative per i prigionieri proseguirono sotto traccia, soprattutto grazie al lavoro dell'ambasciatore italiano a Pietrogrado, di Virgilio Ceccato - un emigrato trentino che aveva fatto fortuna a Mosca come mercante d'arte - e della marchesa Gemma Guerrieri di Gonzaga, che si recò in Russia appositamente per intercedere in favore dei suoi conterranei. Finalmente, nel 1916 l'Italia accettò di inviare una missione militare per il "rimpatrio" su base volontaria di un numero limitato di prigionieri, circa 4000, che vennero imbarcati dal porto di Arcangelo, sul mar Bianco, e arrivarono a Milano e Torino dopo aver circumnavigato la Scandinavia e aver attraversato in treno Gran Bretagna, Francia e Svizzera.

Una nuova missione venne organizzata in seguito alla rivoluzione di febbraio 1917. Il Capitano dei Carabinieri Marco Cosma Manera venne inviato in Russia allo scopo di radunare tutti gli austro-italiani nel campo di prigionia di Kirsanov, da dove si sarebbe organizzato il viaggio verso l'Italia. Venne fatto un primo tentativo per organizzare la partenza via Arcangelo, ma prima problemi tecnici e poi il precoce congelamento del porto impedirono questa soluzione e fecero propendere per l'unica alternativa rimasta: imbarcarsi da Vladivostok, città siberiana affacciata sul Pacifico. Così, a gruppi di quaranta uomini al giorno e riforniti di un gruzzolo di rubli dal Capitano Manera, i prigionieri iniziarono a prendere la transiberiana e a cominciare il lungo viaggio verso est. Una volta giunti in estremo oriente gli ex prigionieri vennero innanzitutto rifocillati, lavati, vestiti e fatti riposare, un piccolo gesto di umanità che si rivelò fondamentale per guadagnarsi la fiducia di uomini che avevano passato gli ultimi tre anni e più tra il fango delle trincee e le capanne gelide e sovraffollate dei campi di prigionia russi. Nonostante la dolce accoglienza, la loro fiducia venne presto tradita. Moltissimi tra gli ex prigionieri, soprattutto tra i molti che erano riusciti a trovare un lavoro e un riparo presso qualche famiglia russa, avevano accettato di adottare la cittadinanza italiana e di affidarsi alla Missione Militare soltanto sulla base della promessa che ciò non avrebbe comportato un nuovo arruolamento, né in Russia né in Italia. Ma una volta lasciata Vladivostok e giunti nelle caserme della Concessione italiana di Tientsin, dovettero rincominciare con la vita militare, indossare le uniformi, fare esercizi e rispettare i turni di guardia all'addiaccio, pur essendo incoscenti del progetto italiano di costituire una Legione Redenta anti-bolscevica sotto il comando dello stesso Manera. Nel frattempo, in Italia, il governo aveva deciso di aderire alla campagna anti-bolscevica degli alleati e aveva rapidamente formato un piccolo contingente (quasi simbolico, poco più che 600 persone tra soldati semplici e ufficiali) da inviare in supporto e protezione dei Bianchi: il Corpo di Spedizione Italiano in Estremo Oriente (CSIEO).

Finalmente anche gli austro-italiani radunati a Tientsin vennero informati del progetto Legione Redenta e, di conseguenza, divisi in tre gruppi: i volontari, ovvero coloro che avevano dato la propria disponibilità ad arruolarsi - a volte con entusiasmo, a volte con disperazione - nella Legione Redenta; i cittadini, ovvero coloro che avevano accettato la cittadinanza italiana ma avevano rifiutato di arruolarsi; gli austriacanti - o canarini, a causa delle divise gialle - che rifiutavano la cittadinanza e l'arruolamento. Secondo le promesse dei vertici militari italiani i volontari sarebbero stati i primi a fare ritorno in Italia, seguiti dai cittadini. Per i canarini, non vi era alcuna certezza. Il 30 agosto 1918 il piroscafo Roma sbarcò a Tsingtato i 636 uomini del CSIEO e, tra il 13 ed il 21 ottobre, i soldati italiani e la Legione Redenta - i cosiddetti Battaglioni Neri - partirono per Harbin, capitale della Manciuria e snodo cruciale della Transiberiana. Nel frattempo a Samara un sedicente Capitano, Andrea Compatangelo (forse un ragioniere emigrato in Russia, forse un giornalista) aveva radunato qualche centinaio di austro-italiani per formare un corpo irregolare anti-bolscevico, la Legione Savoia, che era persino riuscita ad imporre una dittattura sulla capitale del distretto del Volga. Per quasi due anni i Battaglioni Neri, con il morale a terra, viaggiano per la Siberia, muovendosi tra Omsk, Krasnojarsk e Irkutsk, partecipando a pochi scontri armati ma soffrendo un altro tremendo inverno siberiano.

Già prostrati da anni di guerra, prigionia e promesse di rimpatrio mai mantenute, gli irredenti ricevono le ultime umilianti novità: non solo la guerra era oramai conclusa, le loro case erano ufficialmente in territorio italiano e tutti i trentini e veneto-giuliani erano quindi diventati di conseguenza cittadini italiani indipendentemente dall'arruolamento, ma si scoprì addirittura che molti cittadini e canarini erano già partiti per l'Italia approfittando del viaggio di ritorno del piroscafo Roma. Finalmente, il primo settembre 1919, anche i Battaglioni Neri cominciarono, a scaglioni, a fare ritorno in Italia. Il primo gruppo, soltanto 300 persone, si imbarca immediatamente sul Gablonz. Più di due mesi dopo, il 26 novembre, oltre mille uomini partono sul più capiente Nippon. Soltanto tra il 22 ed il 26 febbraio 1920 gli ultimi 2800 vengono imbarcati su navi prese in affitto dal governo giapponese, il Texas-Maru, l'England-Maru e il France-Maru, e sbarcarono a Trieste mesi dopo, in seguito al periplo dell'Asia e all'attraversamento del Canale di Suez. Una volta rientrati in Italia, coloro che avevano dato prova di maggior patriottismo furono presto lasciati liberi, mentre tanti altri dovettero subire mesi di reclusione e rieducazione incarceri speciali all'Asinara e in Italia meridionale.