IL DOPOGUERRA INGLESE


STORIE EUROPEEANDREA BERNABALE

L’IMPERO PERDUTO

Quando nell’immediato secondo dopoguerra Clement Attlee - leader del Partito Laburista - fu chiamato a guidare il nuovo governo, la Gran Bretagna era un Paese profondamente cambiato dagli orrori della seconda guerra mondiale.

Stati Uniti e Unione Sovietica, in qualità di superpotenze, dominavano ora lo scacchiere internazionale mentre, sul piano domestico la situazione economica era disastrosa, la middle class inglese rimpiangeva i tempi pre-bellici in cui l’imposizione fiscale poteva ritenersi ragionevole, gli stipendi ben retribuiti e i prezzi dei beni di consumo accessibili, nonostante la Gran Bretagna beneficiasse degli aiuti economici previsti dal Piano Marshall.

A ciò si aggiungevano la svalutazione della sterlina, la mostruosa spesa pubblica (si pensi soltanto che nel 1946 la Gran Bretagna aveva truppe in Germania, Grecia, Persia, India, Egitto, Palestina ed estremo oriente) e le spese relative alla corsa per la dotazione di armi atomiche. Quest’ultima era conseguenza del “McMahon Act” passato negli USA, una legge americana che proibiva ogni condivisione di informazioni concernenti l’energia atomica. In sostanza, gli inglesi avrebbero dovuto sviluppare un proprio programma nucleare, sebbene gli USA rimanessero un fedele alleato, che ora però si considerava superiore a chiunque altro.

Insomma, la Gran Bretagna del dopoguerra era sì una potenza mondiale indiscussa ma reggeva su un equilibrio piuttosto precario ed economicamente insostenibile.

Gli effetti più evidenti del declino politico ed economico dell’Impero britannico si manifestarono nelle colonie, in particolar modo in India e in Palestina.

Riguardo l’India, i governi inglese e statunitense erano in accordo: la Gran Bretagna avrebbe lasciato il paese il prima possibile. Il problema era “come”.

Il partito laburista simpatizzava per gli hindu, mentre i conservatori per i musulmani. Alla fine si optò per una soluzione dalle conseguenze nefaste: la creazione dell’India e del Pakistan. Tuttavia, da una prospettiva meramente inglese fu un congedo a lieto fine, rimanendo la Gran Bretagna in buoni rapporti con entrambi i nuovi Paesi che però, solo poche settimane dopo l’indipendenza, presero a guerreggiarsi reciprocamente.

Altrettanto problematica fu la situazione in Palestina, dove nel 1917, con la Dichiarazione Balfour, il governo britannico si disse favorevole alla creazione di un focolare ebraico. Al tempo, la Palestina era abitata quasi esclusivamente da arabi, che videro la prima ondata migratoria ebraica negli anni ‘20 e una seconda, più intensa, dopo il 1933, anno della presa al potere di Hitler in Germania. Basti pensare che nel 1922 solo l’11% della popolazione palestinese era di origine ebraica, mentre nel 1939 gli ebrei costituivano ben il 29% della popolazione palestinese. Gli inglesi tentarono di contenere la collera araba, ma ormai era troppo tardi. L’immigrazione ebraica in Palestina, ora sostenuta fortemente dagli USA, era incontrollabile e il movimento sionista era ormai un’organizzazione consolidata. Le autorità inglesi si interposero vanamente, lasciando una Palestina in guerra e affidando alle Nazioni Unite la gestione della più grande crisi mediorientale tutt’ora irrisolta.

Il Mandato britannico in Palestina si concluse infatti nel maggio 1948, al quale seguì la creazione dello Stato d’Israele e nefaste vicissitudini di cui, USA e Gran Bretagna ne sono le madri.

Così come la Palestina e l’India, anche la Birmania dichiarava l’indipendenza e lasciava il Commonwealth; ad essa seguiva il Canada acquisendo il diritto di emendare la propria Costituzione. Nel 1950, anche l’India espresse la volontà di adottare la forma repubblicana e lasciare, di fatto, il Commonwealth britannico innescando un effetto domino tra i Paesi di fresca indipendenza.

Nel giro di vent’anni, il grandioso impero britannico era ormai un ricordo.

IL GOVERNO LABURISTA

Gli anni che seguirono gli orrori della seconda guerra mondiale videro in Gran Bretagna, oltre al progressivo sfaldamento dell’Impero, una sorta di “rivoluzione sociale” messa in atto dal governo laburista, presieduto allora da Clement Attlee. Tale rivoluzione, in realtà consisté principalmente in una serie di misure economiche di ispirazione social-democratica, che verranno poi ricordate per aver caratterizzato, alla fine degli anni ‘40, la cosiddetta “age of austerity” del governo laburista, resa possibile anche dalla debole opposizione dei conservatori guidati da Winston Churchill e sconfitti alle elezioni.

D’altronde, nel periodo post-bellico i conservatori faticarono a capire le ragioni della sconfitta elettorale e si astennero dall’adottare una forte opposizione al nuovo governo, temendo di risultare ulteriormente impopolari.

Il governo Attlee, forte quindi dell’impasse del Partito Conservatore, aveva invece le idee chiare: nazionalizzare interi settori dell’economia britannica.

Il primo passo fu la nazionalizzazione della Banca d’Inghilterra, che non incontrò alcun tipo di ostacolo e opposizione. Sebbene si trattasse comunque di una politica statalista, diversi Paesi capitalisti possedevano una Banca Centrale che rispondeva direttamente al governo e lo stesso Churchill non ebbe da dire nulla in contrario.

Ancor meno controversa fu la nazionalizzazione della compagnia aerea di Stato, dal momento che nessuno poteva immaginare che potesse rimanere privata senza ricevere sussidi statali. Tanto valeva, perciò, nazionalizzarla.

Furono nazionalizzate anche le ferrovie e l’industria del carbone, già da anni nei programmi del partito laburista. I lavoratori impiegati in tali settori ne erano favorevoli e bastava poco per rendersi conto dello stato di crisi in cui versavano le due industrie, che necessitavano di grandi investimenti di capitale che solo il governo avrebbe potuto fornire.

Tuttavia, la nazionalizzazione di quest’ultimi due settori non portò ai successi sperati e fu oggetto di critiche da parte dell’opposizione conservatrice sulla politica statalista del governo.

Più controversa fu la nazionalizzazione delle acciaierie, che creò dissidi anche tra i laburisti stessi. La discussione gravitava attorno la necessità o meno di un tale intervento statale ma, soprattutto, molti videro in questa misura un tratto distintivo di politica economica di stampo socialista. In altre parole, si diffuse la paura che i laburisti facessero della Gran Bretagna un Paese socialista, nonostante rimanesse forte l’alleanza con gli Stati Uniti.

Di certo, invece, un tratto distintivo del programma laburista fu la costruzione di un welfare state ancora poco sviluppato. Baluardo di tale programma fu il servizio sanitario, ora gratuito e garantito dal governo, nonostante le accese critiche che puntavano il dito sul grandissimo esborso pubblico che avrebbe generato.

Si temeva che una politica economica così dispendiosa avrebbe generato in poco tempo fenomeni inflazionistici, il che era poco biasimabile.

Il ministro delle Finanze “spendaccione” Hugh Dalton fu così costretto alle dimissioni nel 1947 e sostituito dal più austero Sir Stafford Cripps, personalità peraltro più influente di Dalton.

La svolta economica fu piuttosto evidente e la politica di austerità di Cripps ebbe sostegno e supporto corale. Tasse sui consumi furono le imposte predilette da Sir Cripps, che chiamava la popolazione al sacrificio e introduceva la Gran Bretagna nella c.d. “age of austerity”, non proprio il periodo più felice della storia britannica recente.

Tuttavia, gli obiettivi e le previsioni economiche del ministro si rivelarono disattese e nulla impedì l’inflazione della sterlina e la sua conseguente svalutazione nel 1949 che, per converso, favorì le esportazioni e il miglioramento della bilancia commerciale.

La politica estera non vide, invece, particolari stravolgimenti. Sebbene il piano Marshall non avesse particolari condizioni politiche, in un certo senso obbligava gli inglesi a fronteggiare il nemico sovietico dalla parte degli USA. Peraltro era ancora aperta e scottante la questione tedesca, divisa e occupata anche dagli stessi inglesi. Significativo fu l’apporto del governo britannico alla nascita della NATO nel 1949, un’organizzazione con lo scopo di “tenere dentro gli americani, fuori i russi e sotto i tedeschi”, secondo le parole del generale e diplomatico britannico Lord Ismay.

Il tutto mentre si diffondeva nel vecchio continente l’idea di un’Europa unita, un’idea alla quale gli inglesi non sembravano affatto interessati. I ripensamenti arrivano solo anni più tardi e per motivi prettamente economici.

LETTURE ED APPROFONDIMENTI:

- M. Fforde, “Storia della Gran Bretagna”, Laterza, 2002

- N. Ferguson, “Impero. Come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno”, Mondadori, 2017