Le comfort women

LORENZO BONAGURO

LE "COMFORT WOMEN"

Quello delle “donne di conforto”, 慰安婦 in giapponese, è stato uno dei tanti crimini di guerra di cui si macchiò l’esercito dell’Impero del Grande Giappone (大日本帝国 Dai Nippon Teikoku). L’idea che stava alla base del sistema creato dai militari era di evitare in tutti modi possibili che i soldati si sfogassero sulla popolazione locale acuendo le difficoltà nel gestire l’occupazione dei territori annessi fin dall’inizio del XX° secolo, primo fra tutti la Corea annessa nel 1910.

All’epoca la prostituzione era un mestiere socialmente accettato e disciplinato dalla legge giapponese, perciò parve esportare questo modello nei paesi conquistati; però, ben presto, questo fenomeno si trasformò in uno strumento di violenza e sfruttamento.

Il primo centro di conforto aperto nei territori occupati fu a Shangai nel 1932 e vi lavorarono all’inizio prostitute giapponesi arrivate lì volontariamente, ma ben presto fu evidente che queste non bastavano per i soldati e fu così che si decise di sfruttare le donne locali. Qui iniziano i problemi per l’indagine storica: le autorità giapponesi hanno sostenuto che queste fossero reclutate senza coercizione e in più hanno sempre cercato di ridimensionare i numeri, mentre nei decenni successivi alla guerra grazie a testimonianze delle interessate e di soldati nipponici è venuto fuori che moltissime furono attratte con l’inganno e la promessa di lavori normali oppure tramite minacce e ricatti. Il problema del rifornimento dei bordelli vicini ai teatri di guerra divenne sempre più grave con il proseguire della guerra e questo non fece che peggiorare la situazione della popolazione locale sempre più vessata; come avvenne coi civili cinesi vittime di violenze indiscriminate, uccisioni, saccheggi e stupri.

I trattamenti subiti da queste donne ridotte a schiave sessuali furono terribili, alcune di queste morirono durante la guerra, altre sopravvissero ma portarono a lungo i segni degli abusi e delle malattie prese dai soldati, senza contare i danni psicologici che si trascinarono per il resto dei loro giorni. I numeri sono tutt’oggi incerti: la stime più accreditate girano sulle 100000-200000 donne coinvolte fra coreane, cinesi, taiwanesi, filippine, indonesiane, olandesi e australiane.

Le vittime non ebbero giustizia alla fine della guerra: la vicenda delle comfort women non venne tenuta in considerazione durante il processo del Tribunale militare internazionale per l'Estremo Oriente che processò 28 personalità di spicco tra militari e politici per “crimini contro la pace”. Probabilmente ciò avvenne per la difficoltà a trovare documenti che dimostrassero la sistematicità del fenomeno, mentre non mancavano le testimonianze raccolte dai soldati americani durante l’avanzata, ma furono, forse, interpretate come le tipiche violenze che avvengono in guerra.

La verità venne a galla solo nei decenni successivi alla fine della guerra e spesso è stato, ed è tuttora, uno dei principali motivi di attrito fra i paesi coinvolti: Tokyo ha manifestato come segno di rimorso solo qualche forma d’indennizzo per le vittime, ritenuta comunque misera dalle associazioni delle vittime. La questione è diventata quindi centrale nei rapporti diplomatici dei paesi dell’Estremo Oriente e negli ambienti nazionalisti, soprattutto giapponesi, dove si arriva a negare completamente il fenomeno: infatti, numerosi storici legati a questi ambienti hanno cercato negli anni di minimizzare i crimini commessi dall’esercito imperiale. Ogni anno in occasione di anniversari o in momenti di particolare tensione diplomatica avvengono imponenti manifestazioni antigiapponesi a Seoul, Pechino, Taipei e altre grandi città.