La rivolta dei boxer

GABRIELE PATO

IL MOVIMENTO NAZIONALISTA DEI BOXERS

Divenuto famoso e rilevante su scala internazionale soltanto nel 1899 con il nome di Boxers, la società segreta cinese Yihequan (义和拳) – o, in italiano, Scuola pugilistica della giustizia e della pace – nasce nel XVIII secolo e si rende protagonista di rivolte a partire dal 1744. Più precisamente, il termine Yihequan era utilizzato per designare diverse sette o associazioni di arti marziali che entrarono in collaborazione con finalità segrete o illecite, solitamente ostili alla dinastia Qing, nella regione nordorientale dello Shandong. I gruppi Yihequan furono protagonisti della Rivolta dei Taiping, terribile guerra civile seguita alle guerre dell'oppio, guidata dal leader-profeta Hong Xiunquan (autoproclamatosi fratello di Gesù!), protrattasi tra 1851 al 1864 e sedata dagli imperiali soltanto grazie al supporto militare anglo-francese. Durante il secolo successivo, alcuni di queste organizzazioni ebbero una fase di transizione politica durante la quale passarono sotto il controllo di notabili e latifondisti, assumendo il nome di Yihetuan (义和团) – Gruppi della giustizia e della pace – derivato dal termine “tuan” (团) con il quale erano definiti i gruppi di autodifesa dei villaggi rurali. Il riconoscimento di capi legati al mondo istituzionale portò poi, nell'ultimo decennio del XIX secolo, ad una nuova fase della rivolta, in cui gli Yihetuan furono accettati dalla corte imperiale e si schierarono definitivamente a difesa della dinastia Qing. A questo punto gli Yihetuan (o Boxers) raccoglievano nelle loro fila contadini, carrettieri, artigiani, piccoli funzionari, ex soldati e disperati d'ogni ceto sociale, disposti a prendere le armi contro l'espansione degli europei e delle loro tecnologie.

Nel 1894-1895, la Cina fu aggredita dal Giappone e costretta, dopo meno di un anno dall'inizio del conflitto, a cedere i territori di Taiwan, Corea, Manciuria e Liaodong. A questo guerra parteciparono tra i 100'000 ed i 300'000 Boxers volontari, che formavano un corpo paramilitare più numeroso e potente dello stesso esercito regolare. Dopo un secolo di guerre e carestie, le principali potenze europee ripresero poi volteggiare sopra il corpo dell'impero agonizzante, strappando concessioni territoriali, zone d'influenza, miniere e appalti in attesa del momento più proficuo per assumere il controllo diretto delle aree già occupate. Nell'ultimo decennio del XIX secolo, gli insediamenti stranieri in Cina erano più di sessanta ed erano in costante espansione. Ciò che fu più difficilmente digerito dalla popolazione locale non fu però l'ingerenza economica o l'occupazione militare di una nazione sovrana: la gente comune, i lavoratori delle città e delle campagne, erano indignati per la sistematica umiliazione degli usi e costumi cinesi. Questo risentimento era diretto tanto verso gli stranieri, quando verso i cinesi convertiti al cristianesimo o “occidentalizzati”. Un noto slogan dell'epoca, recitava così: «I cristiani insidiano l'Universo. Con l'appoggio degli europei si comportano arrogantemente, insultano la povera gente, opprimono la dinastia Qing, offendono le consuetudini sacre sopprimendo il culto dei santi. I loro capi costruiscono grandi templi sulle rovine delle nostre venerate pagode, ingannano la gente incolta, rovinano la gioventù, strappano cuori e occhi per ricavarne filtri magici».

Nel 1898 cominciarono gli attacchi violenti contro missioni cristiane, aziende straniere, linee telefoniche e ferrovie, navi a vapore, telai meccanici e persino negozi di oggetti quotidiani di produzione o derivazione europea quali strumenti musicali o strumenti per dipingere. La casa imperiale condannò formalmente le violenze senza però prendere reali provvedimenti né perseguire i responsabili. La rivolta vera e propria però cominciò l'anno seguente nel nord del paese, dove costruttori di ferrovie occidentali e cinesi cristiani vennero attaccati sistematicamente. Il 31 dicembre 1899 venne ucciso un missionario inglese e, di conseguenza, tutti i principali corpi diplomatici chiesero a gran voce la messa al bando dei Boxers.

LA RIVOLTA DEI BOXERS

«Quando vi troverete faccia a faccia con il nemico, sappiate batterlo. Nessuna grazia! Nessun prigioniero! Tenete in pugno chi vi capita sotto le mani. Mille anni fa, gli Unni di Attila si sono fatti un nome che con potenza è entrato nella storia e nella leggenda. Allo stesso modo voi dovete imporre in Cina, per mille anni, il nome «tedesco», di modo che mai più in avvenire un cinese osi anche solo guardare di traverso un tedesco».

(Kaiser Guglielmo II)

In seguito al decennio di inasprimento dei rapporti tra nazionalisti cinesi, cinesi occidentalizzati e convertiti ed occidentali risiedenti in Cina, durante i primi mesi del 1900, le aggressioni nei confronti dei convertiti al cristianesimo aumentarono considerabilmente e le minacce verso i “diavoli occidentali” proliferarono anche attraverso proclami esposti sui muri delle città. Il 28 maggio 1900 i principali governi occidentali decisero di inviare truppe a difesa dei propri concittadini, allarmati dai toni terrorizzati dei diplomatici. Il 31 maggio quattro ingegneri ferroviari franco-belgi vennero uccisi (ed altri furono gravemente feriti); il giorno seguente 436 marinai russi, inglesi, francesi, statunitensi, tedeschi, italiani, giapponesi ed austriaci sbarcarono a Ta Ku ed altri 2000 marinai partirono verso Pechino guidati dall'ammiraglio Seymour. L'11 giugno, il ministro tedesco Clemens von Ketteler – accompagnato da un gruppetto di soldati – arrestò ed uccise immotivatamente un giovane Boxer nel centro della capitale. Lo stesso pomeriggio, i Boxers entrarono in città e bruciarono gran parte delle chiese e delle cattedrali, in alcuni casi con i fedeli in preghiera al loro interno.

L'imperatrice-madre Ci Xi, soprannominata dai sudditi «vecchio Buddha», era rimasta sostanzialmente neutrale alla vicenda: come già detto in precedenza, aveva condannato formalmente le violenze ma non aveva mai preso alcun serio provvedimento per limitarle o punirne gli esecutori.

D'altra parte, la corte imperiale aveva in un certo modo a cuore gli interessi politici ed economici della Cina – ormai necessariamente legati alle grandi potenze mondiali – ma disprezzava sinceramente gli usi e i costumi occidentali e ancor di più le novità tecnologiche che stavano introducendo nell'impero. Di fatto, al momento dell'azione, Ci Xi si rivelò impotente: prima tentò di fermare il piccolo contingente occidentale, promettendo che avrebbe protetto i diplomatici con il proprio esercito; poi, in seguito all'assedio delle legazioni da parte dei Boxer, il 21 giugno, dichiarò guerra alle otto nazioni presenti sul territorio. Soltanto l'arguzia dei governatori locali e dei viceré, che ignorarono la dichiarazione di guerra restando pacifici ed inattivi, permise che la guerra fosse limitata alla regione di Pechino.

Dunque, il 20 giugno 1900 un capitano manciù, offeso dal plenipotenziario tedesco, uccise il barone Von Ketteler ed il giorno seguente l'imperatrice-madre Ci Xi invitò i Boxers a prendere d'assalto le Legazioni – che si trovavano nei pressi della Città Proibita ed erano protette da grandi mura – difese da appena 500 uomini e nelle quali si rifugiavano oltre 3000 cinesi cristiani. Le masse di rivoltosi presero d'assedio le fortezze per ben 55 giorni ma gli Europei resistettero strenuamente, fomentando ancor più la rabbia dei cinesi incapaci di sconfiggere un manipolo di stranieri asserragliato nella loro capitale. La causa non era certo la poca determinazione dei Boxers, bensì il profondo divario di organizzazione: gli Yihetuan erano male armati (spesso possedevano soltanto armi bianche), privi di strategie e disciplina assaltavano ad ondate sotto il fuoco dei fucili, protetti soltanto da amuleti o corazze di cuoio. L'esercito regolare, pur supportando la causa, non appoggiò mai l'assedio fornendo gli strumenti necessari. Contemporaneamente, nella cattedrale di Pechino, Monsignor Alphonse Favier resistette e protesse 3500 convertiti grazie al supporto di 43 marinai italiani e francesi.

Durante gli ultimi giorni di luglio, un contingente di oltre 16000 occidentali e giapponesi sbarcò a Tiantsin, conquistandola senza fatica, e cominciò la marcia verso Pechino. Il 14 agosto i soldati delle otto nazioni raggiunsero le mura della capitale, si divisero in quattro colonne e, preceduti dall'artiglieria, entrarono facilmente in città contando soltanto 76 morti e 150 feriti. L'imperatrice Ci Xi, nel frattempo, era fuggita nascostamente verso Xi'an. Le truppe, ormai certe della rapida vittoria, si abbandonarono presto a massacri indiscriminati. Templi e palazzi furono incendiati, le banche vennero depredate così come le abitazioni private. Il terrore si espanse presto in tutta la Cina e gli occidentali, che incapaci di distinguere responsabilità ed ideologie vedevano qualsiasi cinese come un nemico (in gran parte a causa della propaganda dei rispettivi governi), devastarono decine di villaggi rurali completamente estranei alle vicende.

Conclusosi il conflitto, molti funzionari fedeli ai Boxers si suicidarono, ma l'imperatrice-madre affermò di essere estranea da qualsivoglia responsabilità e accettò di firmare una pace con le otto nazioni: venne imposta un'indennità enorme da pagare il 39 anni, le dogane venivano affidate agli europei insieme a miniere e foreste. Ci Xi riprese il potere e assistette passivamente alla rovina del proprio impero.