Il miracolo economico giapponese

GABRIELE PATO

IL MIRACOLO ECONOMICO GIAPPONESE

Ad oggi il Giappone è stabilmente una delle maggiori potenze industriali al mondo, per precisione il secondo paese per produzione industriale pro capite dopo la Svizzera e il terzo per produzione industriale totale dietro ad USA e Cina, ma nella primavera del 1945 in pochi avrebbero scommesso in una crescita tanto significativa e repentina. L'Impero nipponico, in era pre e proto industriale, si sviluppò in una condizione di totale chiusura economica e culturale verso il resto del mondo. Nel 1853 l'ammiraglio americano Matthew Perry costrinse, sotto minaccia, all'apertura dei commerci e alla firma dei così detti Trattati ineguali, che imponevano un'imposta massima del 5% sui prodotti di importazione. I giapponesi seppero adattarsi piuttosto bene alla novità, inserendosi nel mercato del Pacifico con l'esportazione di tè e seta grezza. La Restaurazione Meiji del 1868 e la conseguente stagione di riforme – che introdusse una profondo snellimento della burocrazia, un sistema educativo efficiente e diffuso, la riforma del sistema bancario e l'istituzione di una banca centrale – diede una grossa mano allo sviluppo della manifattura e delle esportazioni in genere. Alla fine del XIX secolo tutte le isole principali erano attraversate da un sistema ferroviario e, nonostante le difficoltà dovute ai Trattati ineguali, le industrie pesanti e quelle tessili cominciarono a diffondersi.

Nel primo dopoguerra, il Giappone vide una crescita costante soprattutto nell'export, crescita dovuta anche al deprezzamento dello yen del 1924, mentre le importazioni calarono sensibilmente dal 1926. Nel decennio 1920-30 la capacità produttiva dell'industria giapponese quadruplicò in media, con picchi straordinari nei settori della produzione di energia elettrica e di acciaio. In seguito alla Grande depressione, da cui il Paese fu colpito limitatamente, le politiche governative di svalutazione della moneta e di investimenti pubblici permisero una crescita del PIL del 25% in tre anni ed un nuovo raddoppio delle esportazioni. In questo primo periodo di sviluppo, l'economia giapponese era dominata dalle zaibatsu, conglomerati industrial-finanziari con struttura rigidamente verticale che facevano capo ad una famiglia. Alcuni di questi zaibatsu si sono trasformati in grandi marchi che tutt'ora dominano i mercati mondiali, quali Mitsubishi, Nissan o Sumitomo.

L'ammirevole crescita economica del Giappone venne brutalmente annichilita dalla seconda guerra mondiale: il Paese aveva perso oltre due terzi della propria ricchezza, tutte le principali città industriali erano state rase al suolo dai bombardamenti alleati, più due milioni e mezzo di giapponesi erano morti durante il conflitto e altri sei milioni circa erano prigionieri, sparsi per l'Asia o residenti in Corea e a Taiwan. Inoltre, dopo la firma della resa, il Giappone fu occupato militarmente dagli USA, attraverso il Comando Supremo delle Forze Alleate, che ne affidò la gestione al generale Douglas MacArthur. Questi, per prima cosa, si occupò del rimpatrio di tutti i cittadini e dei relativi processi per i crimini di guerra. In seguito, cominciò il tentativo di smantellare le basi del capitalismo nipponico sciogliendo gli zaibatsu e trasformandoli lentamente in keiretsu, conglomerati di imprese diverse collegate fra di esse da partecipazioni azionarie incrociate. La Costituzione del 1947 impose poi una tetto massimo pari all'1% del PIL per gli armamenti; ciò permise allo Stato giapponese di delegare agli USA la propria difesa e di investire tutti i capitali possibili in attività produttive.

La guerra di Corea, iniziata nel 1950, funzionò come un volano per l'economia del Sol Levante; data la vicinanza geografica con il teatro delle operazioni belliche, il Giappone si ritrovò ad essere sostanzialmente il fornitore monopolista di beni e servizi per le truppe americane. Grazie anche a questo eccezionale incentivo, in soli cinque anni l'industria tornò ai livelli del 1933. L'anno seguente, a San Francisco, 49 paesi – ma nessuno dei principali paesi asiatici – firmarono un accordo di pace con il Giappone e nel 1952 gli americani abbandonarono l'arcipelago.

Per i vent'anni successivi, il tasso di sviluppo si mantenne costantemente sopra il 10% ed i manufatti giapponesi furono i primi a minare il semi-monopolio statunitense. Altro fattore da non dimenticare fu il bassissimo prezzo del petrolio, garantito dai paesi mediorientali e sfruttato intelligentemente dalle industrie nipponiche che crebbero in prossimità di grandi porti, talvolta investendo direttamente nell'espansione degli stessi e nella costruzione di navi cisterna sempre più grandi, abbassando così i costi di trasporto. Alla conclusione degli anni '50, il Giappone era ormai la terza potenza economica mondiale con una capacità produttiva pari a quella del resto dell'Asia.

Oltre alle ragioni già citate e al supporto economico degli USA, va dato grande merito ai governi post bellici, che seppero gestire nella maniera migliore le congiunture internazionali favorevoli. Il Ministero del Commercio e dell'Industria Internazionale funse da mediatore tra le grandi industrie ed i paesi partner, contrattando i termini dell'acquisto di materie prime e nuove tecnologie e controllando che una volta importate fossero utilizzate in maniera efficiente. Inoltre, la diffusione capillare dell'istruzione universale rese i giovani giapponesi lavoratori qualificati e specializzati, permettendo così la crescita di imprese d'avanguardia. Questo periodo di sviluppo, ovviamente, oltre al benessere e alla tecnologia lasciò dietro di sé una scia di gravi problemi: lo sviluppo sfrenato delle principali città e la riduzione costante degli spazi vitali, l'inquinamento, la riduzione della sfera privata e coniugale in favore di quella lavorativa, con tutti i conseguenti risvolti psicologici, e molti altri.