La nave dolce - l'esodo albanese del '91

GABRIELE PATO

LA NAVE DOLCE – L'ESODO ALBANESE DEL '91

« [...] C’è il proposito di chiedere lo stato di calamità naturale.

I danni provocati dagli albanesi - sostengono i sindaci dei comuni turistici - vanno considerati come la siccità o la mucillagine [...] »

(Corriere della Sera, 18 giugno 1991)

«Loro hanno fatto da cavia. Non hanno compiuto l'invasione, ma ne sono stati i precursori»

(Corriere della Sera, 9 marzo 1991)

Il mattino del 7 marzo 1991 i cittadini di Brindisi aprirono le finestre e si trovarono innanzi ad una scena mai vista prima sulle coste del belpaese: più di 25000 profughi albanesi si affacciavano sul porto cittadino stipati all'inverosimile su mercantili, pescherecci e piccole imbarcazioni private. Nelle settimane precedenti il litorale pugliese era già stato oggetto di piccoli sbarchi clandestini, gruppi di poche decine di persone che tentavano la fuga dal regime e dalla crisi economica, ma nulla preannunciava un esodo di questa dimensione. Le prime due navi, due mercantili con a bordo oltre 6500 persone, arrivarono nel tardo pomeriggio precedente ma furono bloccate dalla capitaneria. Soltanto nella notte seguente, a luci spente, centinaia di piccole imbarcazioni le raggiunsero. Dopo ore di trattative serrate, al governo Andreotti non fu possibile stringere accordi con le autorità albanesi e alle 10 di mattina del 7 marzo venne concesso lo sbarco dei profughi.

Né le autorità né la popolazione civile erano preparate all'accoglienza di migliaia di persone spaventate, stremate, assetate e spesso bisognose di cure ospedaliere. Un fiume di persone si riversò nel porto pugliese e si manifestò la necessità di organizzare in poche ore l'assistenza e la sistemazione dei nuovi arrivati. Non esistevano strutture adatte e nemmeno procedure standardizzate per l'identificazione. Fu così che, nonostante una grossa fetta dell'opinione pubblica anche moderata si fosse schierata duramente contro l'accoglienza, migliaia di civili offrirono il proprio sostegno all'autorità italiane e ai civili albanesi. Un gran numero di brindisini si recò nella zona del porto, offrendo assistenza e beni di prima necessità, tanto che alcuni esponenti politici proposero di insignire la città con la medaglia d'oro al valore civile. Scuole, parrocchie e centri sociali divennero centri di prima accoglienza, mentre nelle settimane successive gran parte degli esuli fu trasferita nel resto d'Italia, dove venne offerta ospitalità persino in abitazioni private concesse grazie allo spirito di solidarietà venuto a crearsi durante l'emergenza.

Passarono alcuni mesi nei quali lo Stato italiano tentò di riparare all'impreparazione iniziale, seppur con difficoltà, riuscendo a stipulare accordi con il governo albanese. A giugno la situazione era ancora considerata emergenziale, centinaia di minori risultavano dispersi, le mete turistiche si ribellavano all'ospitalità per timore delle ripercussioni economiche e gli sbarchi sulla costa adriatica, seppur di minore entità, proseguivano quotidianamente. Il governo Andreotti rispose dunque con una politica di rimpatri volontari che ebbe ben poco esito (vennero rimpatriate alcune centinaia di persone) seguita al rimpatrio forzato per chi non avesse trovato un lavoro o non si fosse iscritto a corsi di formazione entro il 31 luglio 1991. Furono rimpatriate circa 6000 persone mentre 600 circa chiesero ed ottenerò l'asilo politico.

La seconda grande crisi si abbatté sulla Puglia l'8 agosto: il mercantile Vlora, carico di altri 20000 esuli, apparve di fronte al porto di Brindisi. La capitaneria questa volta rifiutò l'attracco e la nave si diresse a Bari, dove fu concesso lo sbarco dei profughi. Centinaia di persone si tuffano direttamente nelle acque della banchina e tentano la fuga, mentre i restanti vengono scortati all'ex stadio della Vittoria. Questa volta l'organizzazione è efficiente ed impietosa: migliaia di persone sono chiuse in uno stadio e rifornite di acqua e beni di prima necessità da elicotteri che calano rifornimenti dal cielo. In capo a tre giorni le tensioni si fanno insostenibili e si scatena la guerriglia tra immigrati e forze dell'ordine. Contemporaneamente, viene stipulato l'accordo per il rimpatrio di massa. Undici C130 e G222 dell'Areonautica e tre Super80 di Alitalia, oltre a numerose motonavi militari, trasportano oltre 17000 persone verso Tirana. La maggior parte di essi è convinta di essere in viaggio per un ricollocamento: «è vero che ci portano a Venezia?» chiede qualcuno.

In cambio, l'Italia garantiva un programma di sviluppo consistente in 90 miliardi per alimenti, 60 per il rilancio industriale, altri 45 per l'avvio delle scuole e la cooperazione per il controllo costiero. In seguito, verranno stipulati accordi bilaterali per l'immigrazione regolare dei cittadini albanesi in Italia, che attualmente rappresentano la seconda minoranza nazionale sul suolo italiano, con oltre mezzo milione di residenti ottimamente integrati nel tessuto sociale.