Storie della Repubblicadi GABRIELE PATO

LA “LEGGE MERLIN”

LA CHIUSURA DELLE CASE CHIUSE


«Dite ai signori uomini che giacché vedono necessarie le Case, mandino le loro sorelle, i padri le loro figlie, gli sposi le loro mogli».

(Lettera di una prostituta alla senatrice Merlin)

L’intera vita della senatrice Angelina “Lina” Merlin, prima donna eletta al Senato della Repubblica Italiana, fu caratterizzata da grandi battaglie ideologiche contro le ingiustizie. La sua straordinaria tenacia le costò lunghi periodi di privazioni e sofferenze ma fu proprio grazie a questa stessa tenacia che riuscì, infine, a raggiungere i propri obiettivi e a cambiare lo status quo.

Lina Merlin era una giovane maestra elementare, già militante pacifista allo scoppio della prima guerra mondiale, quando, nel 1919, aderì allo schieramento antifascista e si iscrisse al Partito Socialista guidato da Matteotti, con il quale collaborò direttamente raccontando le violenze squadriste nel veneziano. Nel 1926 fu licenziata dal governo fascista, colpevole di essersi rifiutata di firmare il giuramento di fedeltà al regime. Nello stesso anno, dopo aver lavorato insieme a Turati a Milano, venne arrestata e confinata per cinque anni in Barbagia, nel centro della Sardegna. Durante la seconda guerra mondiale, partecipò attivamente alla resistenza e, nel 1946, fu eletta nell’Assemblea Costituente, in cui contribuì in particolare alla stesura definitiva dell’articolo 3 (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”). Due anni dopo, fece il suo ingresso al Senato e diede inizio alla battaglia legislativa contro lo sfruttamento della prostituzione. Nell’agosto 1948, durante l’ultima sessione parlamentare prima delle vacanze estive, senza alcun preavviso nei confronti dei colleghi, Lina Merlin presentò la sua prima proposta di per l’abolizione della regolamentazione della prostituzione. Nessuno dei suoi colleghi senatori, che inizialmente presero poco sul serio l’iniziativa, avrebbe immaginato che, dopo dieci anni di lotta serrata, questa sarebbe diventata legge dello Stato, imponendo la chiusura definitiva delle case di tolleranza.

Nel secondo dopoguerra, in Italia, le “case tolleranza” erano un fenomeno accettato e diffuso: sul territorio nazionale se ne contavano più di 700, di cui 16 soltanto nella capitale. Il volume di affari era considerevole, stimato in circa 14 miliardi di lire annui, del quale però le prostitute ricevevano soltanto una minima parte, poiché la maggior parte degli introiti era diviso tra le tasche dei gestori e le tasse. Le condizioni di vita delle oltre 3000 donne che lavorano nelle case chiuse - in larga maggioranza provenienti da famiglie molto povere, orfane o abbandonate dai genitori - rasentavano la schiavitù. Queste erano spesso costrette a vivere recluse nel luogo di lavoro, potendo uscire soltanto se accompagnate da un agente della Squadra del Buon Costume, costrette a lavorare per una paga miserevole, con turni che andavano ben oltre le dieci ore al giorno, e spesso si ritrovavano ad intrattenere anche più 30 rapporti sessuali quotidiani, alla mercé delle perversioni (e a volte delle violenze) del cliente di turno. Dal punto di vista sociale, invece, le case chiuse erano considerate un’attività normale, accettata a tal punto che, all’epoca, quasi la metà degli italiani aveva avuto il proprio primo rapporto sessuale con una prostituta, in molti casi accompagnati dal padre, quasi fosse un rito di passaggio verso l’età adulta.

Dunque, alle fondamenta della proposta di Lina Merlin, vi era innanzitutto una questione costituzionale. Cosciente che la prostituzione fosse un fenomeno capillare e pressoché impossibile da estirpare, la senatrice riteneva inaccettabile che uno stato di diritto potesse trarre risorse economiche dallo sfruttamento dei liberi cittadini. Non riteneva ammissibile che, da una parte, lo stato italiano promuovesse pari dignità universali mentre, dall’altra, potesse tollerare, sotto il suo controllo indiretto, fenomeni di moderna schiavitù. Merlin, in ogni caso, non era sola nella sua lotta. Per quanto numerosi esponenti politici, in particolare appartenenti agli schieramenti di centrodestra, ritenevano inaccettabile la chiusura delle case di tolleranza e l’istituzione del reato di sfruttamento della prostituzione - al punto che un senatore democristiano, medico di professione, affermò di fronte al parlamento, che per evitare la prostituzione «dovremmo essere costruiti come gli animali inferiori, per esempio, il corallo, che è asessuale e non ha il sistema nervoso» - il Partito Socialista e quello Comunista appoggiavano questa battaglia e, nel 1948, il ministro dell’interno Mario Scelba decise di bloccare la concessione di licenze per l’apertura di nuove case chiuse, cercando per lo meno di ridurre il fenomeno ed impedirne la proliferazione. Inoltre, il tema si trovava al centro del dibattito internazionale: nel 1946 la Francia aveva chiuso le case di tolleranza, grazie alla spinta data dalle battaglie di Marthe Richard, ex prostituta e spia entrata in politica dopo la guerra. Proprio nel 1948, lo sfruttamento della prostituzione veniva discusso anche nelle aule dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si espresse nel 1949 attraverso la “Convenzione sulla soppressione del traffico di persone e dello sfruttamento della prostituzione altrui”.

L’adesione dell’Italia all’Organizzazione delle Nazioni Unite e la conseguente ratificazione di questa convenzione diedero grandi speranze di successo, ma Lina Merlin ed i suoi colleghi erano, allo stesso tempo, ben coscienti della difficoltà di questa battaglia, una battaglia combattuta non soltanto contro lo sfruttamento di migliaia di donne, ma contro un sostrato culturale comune di una società apertamente maschilista, che vedeva la prostituzione come un male necessario e le prostitute come esseri di rango inferiore, contrari alla morale, ma contemporaneamente fondamentali allo sviluppo virile dei giovani e allo sfogo delle più basse pulsioni degli adulti, quasi come se la prostituzione fosse un triste e riprovevole servizio assistenziale rivolto agli uomini. A questo tipo di visione, Lina Merlin rispose in aula, mostrando un grande coraggio ed uno spiccato senso dell’ironia, affermando che se è le cose stavano così, sarebbe stato istituito un servizio obbligatorio per i cittadini dai 20 anni in su, di ambo i sessi, poiché anche le donne avevano diritto ad usufruire di un tale servizio sociale. Nello stesso anno, raccontò la senatrice in un’intervista ad Oriana Fallaci del 1963, in una conferenza nazionale del PSI a Milano, qualcuno infilò nella tasca della Merlin una lettera, contente il seguente messaggio: «Compagna, pensa al male che fai con la tua legge: dove può andare un vedovo vecchio e gobbo se non in quelle case?». La Merlin, individuato l’autore, lo raggiunse e, faccia a faccia, gli rispose: «Caro compagno, come può fare una vedova vecchia e gobba che non sa dove procurarsi un bel giovanotto?».

Con il passare del tempo, l’impegno della deputata comincia a riscuotere maggior successo al di fuori delle aule del parlamento. Nell’estate 1949, un folto gruppo di prostitute si recò fuori da Montecitorio, piangendo e implorando Lina Merlin, affettuosamente chiamata mamma, di non desistere e di proseguire con la difesa dei loro diritti. Presto, all’appoggio della sinistra e a quello delle dirette interessate, si aggiunse quello del mondo cattolico militante, che, nonostante la profonda divergenza nelle motivazioni, morali più che civili, auspicava la chiusura delle case chiuse. L’approvazione degli attivisti cattolici si trasformò immediatamente nell’appoggio parlamentare della Democrazia Cristiana, permettendo così alla proposta di legge Merlin di ottenere, sulla carta, la maggioranza, dato che gli unici oppositori rimasero i liberali, parte dei qualunquisti, i monarchici e l’MSI. Nonostante ciò, l’opinione pubblica restò profondamente divisa, anche a causa dell’influenza dei media, foraggiati da una campagna di propaganda organizzata dall’ANECA (Associazione nazionale esercenti case autorizzate), che raccolse oltre 60 milioni di lire in pochi mesi, destinati alle più importanti testate “borghesi”.

Il lungo e complesso iter della Legge Merlin, che attraversò dieci anni di storia italiana (e ben nove diversi governi) a causa di continui rinvii e azioni di disturbo promosse dagli oppositori, si risolse finalmente il 20 febbraio 1958, quando la Camera dei Deputati approvò con 385 voti favorevoli e 115 contrari la proposta di Lina Merlin, trasformandola nella Legge n. 75. La prostituzione di Stato non sarebbe più esistita, le disposizioni emanate dal governo Crispi nel 1883 furono definitivamente abrogate e, soprattutto, lo sfruttamento e ed il favoreggiamento della prostituzione vennero riconosciuti come reati. Ciò che sfuggì, e che tutt’ora sfugge a molti, è che, invece, non fu vietata la prostituzione in sé, nonostante più di qualche deputato avesse spinto in tal senso. «Io voglio vivere – afferma la Merlin – in un Paese di gente libera: libera anche di prostituirsi, purtroppo. Ma libera».

LETTURE ED APPROFONDIMENTI:

- “Lettere dalle case chiuse” (PDF), a cura di Angelina Merlin e Carla Barberis: http://www.fondazioneannakuliscioff.it/…/_…/white_merlin.pdf .

- Sandro Bellassai, “La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l'Italia degli anni Cinquanta”, Carocci 2006.

- Oriana Fallaci intervista Angelina Merlin, da L’Europeo (1963): https://blog.libero.it/Amazzoneperforza/11417696.html