Il disastro del Vajont

FILIPPO FRIGERIO

IL DISASTRO DEL VAJONT

«Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.»

Dino Buzzati

La sera del 9 ottobre 1963, alle 22.39, la Valle del Piave veniva colpita da una delle peggiori catastrofi della storia italiana del dopoguerra. Un’enorme frana staccatasi dal Monte Toc, fra il Friuli-Venezia Giulia ed il Veneto, sprofondava nel bacino artificiale del Vajont, appena realizzato mediante la costruzione di una diga da record. L’ondata di acqua generata dalla frana si riversò nella Valle del Piave portando morte e distruzione. Il paese di Longarone, situato allo sbocco della valle del Vajont, e le frazioni limitrofe, vennero cancellate dalla furia delle acque, lasciando solo fango e detriti. Il bilancio della catastrofe fu di 1.917 morti, comprese 451 vittime mai ritrovate.

Il progetto della diga nacque nel 1929, dalla necessità di creare un rapido sviluppo in aree rimaste economicamente arretrate. L’obbiettivo era quello di compensare l’irregolare portata del Fiume Piave e dei suoi affluenti, al fine di permettere una produzione stabile di energia elettrica per Venezia e tutto il Triveneto, attraverso lo sfruttamento della potenza idrica. A causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, i lavori iniziarono solo nel luglio del 1957 e terminarono in soli tre anni dando vita a quella che, allora, era la più alta diga a doppio arco del mondo, la seconda in assoluto.

Seppur il progetto fu portato a termine seguendo le tecniche più innovative, non vennero tenuti in considerazione gli studi del geologo Edoardo Semenza, figlio del progettista Carlo Semenza, il quale aveva già individuato l’instabilità del versante del Monte Toc ipotizzando la presenza di una paleofrana. Tale instabilità era, però, conosciuta, tanto che vennero effettuate opere accessorie nell’ipotesi che una frana potesse cadere da questo versante. Per questo motivo Carlo Semenza propose la costruzione di una galleria "sorpasso frana" che venne portata a termine nel 1961.

Terminata la costruzione della diga, iniziarono le prove di invaso e di svaso, ovvero di riempimento e di svuotamento del bacino. Durante il primo invaso una frana di circa 800.000 metri cubi di roccia crollò nel lago, causando un’onda di 10 metri. Dopo vari studi, che portano a fissare un limite di sicurezza della quota massima dell’acqua del lago circa 20 metri sotto alla quota massima prevista, nell’aprile del 1963 iniziò una terza prova di invaso, che portò l’acqua del lago al suo livello massimo. Nel settembre dello stesso anno vengono evidenziati movimenti di 2 centimetri al giorno del fianco del Monte Toc e viene, quindi, deciso un rapido svuotamento del lago, purtroppo tardivo in quanto la frana era stata ormai innescata. L’8 ottobre 1963 gli strumenti di rilevazione mostrano che il versante del Monte Toc si è mosso in poche ore di più di mezzo metro: si decide così di svuotare ancora più rapidamente il lago, ma il rapido svuotamento del lago diventa uno dei fattori scatenanti, in quanto la presenza della massa d’acqua fungeva proprio da puntello alla frana stessa.

Arriviamo alle 22:39 del 9 ottobre 1963: una frana di 270 milioni di metri cubi precipita nel lago a 100 km l’ora. La frana colma la depressione del lago, spingendo l’acqua in alto e riempendo l’invaso di detriti. L’acqua, sollevata dalla frana forma una onda alta 250 metri d’altezza, che supera la diga, facendola rimanere intatta, e si divide in tre parti. La prima onda colpisce il paese di Casso, la seconda si dirige verso Erto, con circa 350 morti. La terza onda, alta 70 metri, supera il coronamento della diga e 50 milioni di metri cubi d’acqua e di roccia volano a 80 km all’ora verso Longarone.

Il giorno dopo non c’è più nulla da salvare. In Parlamento e nell’opinione pubblica si vanno a fronteggiare due schieramenti contrapposti che vedono da un lato il Partito comunista, con il suo gruppo parlamentare e i mezzi di informazione ad esso collegati, dall’altro la quasi totalità del restante panorama politico e della stampa nazionale. In una posizione autonoma va a collocarsi invece il Partito socialista, nel pieno delle trattative per la costituzione del primo governo di centro-sinistra e, allo stesso tempo, forza che si è spesa in prima linea per la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Viene instituita una Commissione d’inchiesta parlamentare e per l’accaduto vengono rinviati a giudizio undici persone, tra dirigenti e consulenti della società proprietaria dell’invaso (prima Sade e poi Enel) e alti funzionari del Ministero dei lavori pubblici. Alla fine di tutti i gradi di giudizio vengono condannati solo due tecnici, e solo uno di loro finisce in carcere (per un anno e mezzo). Nel 1964 il Governo emana la cosiddetta "Legge Vajont" che, attraverso la compravendita di licenze e la possibilità di accedere a finanziamenti a fondo perduto, prestiti eccezionalmente vantaggiosi e esenzione dalla tassazione per dieci anni, favorirà il miracolo economico del Nord-Est.