di Filippo Frigerio

IL MOVIMENTO PACIFISTA

«Se guerra ci sarà per molto tempo ancora, forse per sempre, il superamento della guerra rimarrà il nostro fine più nobile»

(Hermann Hesse)

Il ’68 vide il feroce affermarsi di quattro grandi movimenti di massa: il movimento studentesco, il movimento pacifista, il movimento per i diritti civili dei neri e il movimento femminista. Di questi, due ebbero carattere mondiale, quelli studentesco e femminista, mentre per quanto riguarda i movimenti per i diritti civili dei neri e pacifista, furono portati in maggiore misura negli Stati Uniti.

Un’altra importante distinzione è quella che concerne il momento più rappresentativo di tali movimenti: tutti sono espressione di quel Sessantotto di rivolta ma, anche in questo caso, il movimento per i diritti civili dei neri e il movimento pacifista si affermarono nel corso dell’intero decennio, arrivando al Sessantotto come movimenti consolidati. Già dal 1964 il pacifismo militante americano era guidato da due gruppi, da un lato gli attivisti di sinistra, organizzati in gruppi contrari alla Guerra fredda e gli interventi americani all'estero, dall'altro gli studenti universitari, diventati maggiorenni durante il movimento per i diritti civili del Sud, dopo aver vissuto l’adolescenza con piena coscienza dell’atteggiamento tenuto dal governo, avvezzo a distogliere lo sguardo dall'ingiustizia senza rimorsi.

Quando il peso della guerra in Vietnam fu maggiormente tangibile, nel 1965, il nascente movimento adottò due obiettivi strategici principali: dare agli attivisti una sufficiente conoscenza della situazione in Vietnam per essere in grado di coinvolgere più persone possibile e normalizzare l'opposizione, dal momento che molti americani erano riluttanti ad opporsi al proprio paese in periodo di guerra, ritenendo ogni critica all'esercito una dimostrazione di anti-patriottismo. Iniziò, così, un processo mirato all'educazione del pubblico, affinché prendesse coscienza di ciò che stava accadendo. L’organizzazione delle prime proteste pubbliche portò il messaggio all'attenzione dei media, facendo acquisire a tutti gli americani una profonda coscienza del conflitto in Vietnam e di ciò che realmente stava accadendo. Riuscì, altresì, a far ritenere giustificata, almeno ad una parte della popolazione, l’opposizione all'interventismo, seminando quei dubbi che porteranno il movimento a crescere esponenzialmente negli anni successivi.

L’intensificarsi della guerra, il costante aumento delle perdite americane e le continue e incalzanti richieste di leva fomentarono il malcontento del popolo americano, con un conseguente aumento del numero e della partecipazione alle proteste, riuscendo così ad attirare tra le proprie fila anche importanti personaggi pubblici, come il senatore Robert Kennedy. Le strategie pacifiste si svilupparono sempre di più, evolvendosi ed ampliandosi, concentrandosi sul tentativo di unire vari gruppi di opposizione alla guerra dietro un'ampia resistenza alle armi, costruendo una forte opposizione al fine di forzare una fine politica della guerra.

Il movimento crebbe in maniera esponenziale e quasi inattesa, tanto che nell'aprile del 1967, 500.000 persone dimostrarono contro la guerra in Vietnam a New York, in quello che, ancora oggi, rimane il più grande raduno pacifista nella storia. Con l’aumento dei consensi divenne evidente anche la crescente divisione tra protesta pacifica e disobbedienza civile. Il 21 ottobre 1967, 100.000 persone si riunirono al Lincoln Memorial a Washington per una marcia pacifica, ma di queste circa la metà si separarono per unirsi alla marcia illegale sul Pentagono, sfondando le linee dei militari e riuscendo addirittura a penetrare all’interno degli edifici governativi. Le proteste continuarono e raggiunsero il proprio apice nel 1968 con le chiusure dei centri di reclutamento, il boicottaggio dei treni che trasportavano le truppe, il divieto d’accesso ai campus universitari messo in atto dai dimostranti per impedirne l’accesso a militari e membri della CIA. Lo scenario che si presentava ad un osservatore esterno nel 1968 era, dunque, quello di una nazione fuori controllo: l'offensiva del Tet, gli assassini di Martin Luther King Jr. e di Robert Kennedy, le diffuse ribellioni razziali e le violenze della polizia al Democratic National Convention di Chicago chiarirono che il sistema politico non avrebbe fermato la guerra né ridotto il razzismo e la povertà che paralizzavano il paese, paure che furono confermate dall’elezione di Nixon nel mese di novembre.

La strategia messa in atto dal movimento pacifista, da un lato per costruire un movimento di massa dall’altro per convertirlo in una forza politica, era riuscita nella prima parte ma falliva nella seconda. Con la presidenza di Nixon, la logica strategica per questo approccio crollò e spinse il movimento verso una fase caotica: alienati e frustrati, gli attivisti passarono alla disobbedienza civile diffusa, al rifiuto degli stili di vita tradizionali, ai violenti scontri con la polizia e all’opposizione al governo, tentando di forzare la fine della guerra attraverso la creazione di una situazione di instabilità diffusa.

Continuavano le grandi proteste, ma pochi, ormai, credevano di poter realmente fermare la guerra.

LETTURE E APPROFONDIMENTI:

- Charles Chatfield, "American Peace Movement - Ideals and Activism", Twayne Pub, 1992.

- Charles Chatfield, "An American Ordeal: The Antiwar Movement of the Vietnam Era", Syracuse University Press, 1990.

- Nancy Harris, "The Peace Movement", Greenhaven Press; 2005.

- Tom Hayden, "Hell No: The Forgotten Power of the Vietnam Peace Movement", Yale University Press, 2017;