di Marco Bertuccio

LA SECONDA GUERRA DEL GOLFO (2003-2011)

È il 20 marzo del 2003 quando dal cielo di Baghdad iniziano a piovere le prime bombe statunitensi. Ha inizio una guerra brevissima, combattuta per poco più di un mese, ma che si protrarrà effettivamente per altri 8 anni. Passerà alla storia come seconda guerra del Golfo ed è all’origine dell’odierna, tutt’altro che rosea, situazione irachena.

Dopo aver rovesciato il regime dei talebani in Afghanistan, gli Stati Uniti volsero la loro attenzione all’Iraq di Saddam Hussein, accusato di fiancheggiare il terrorismo internazionale e di sviluppare segretamente armi di distruzione di massa (chimiche e batteriologiche). In merito a quest’ultimo punto, la decisione del 1998 di espellere gli ispettori internazionali incaricati di vigilare sugli armamenti iracheni, di certo non giovava all’immagine dell’Iraq. Dopo anni di pressioni degli Stati Uniti, e intravedendo la possibilità di avvantaggiarsi della contrapposizione tra questi ultimi e buona parte dell’Europa (oltre che Russia, Cina e Stati arabi), Hussein riaprì a sorpresa il paese alle ispezioni sugli armamenti nel novembre del 2002. Tuttavia, Washington aveva già preso la sua decisione, dettata da ragioni più concrete: punire uno Stato che non si era nettamente dissociato dal terrorismo islamico e acquisire il controllo diretto di una regione cruciale per la produzione petrolifera.

Nonostante tutto, i “casus belli” ufficiali rimasero il presunto sviluppo da parte dell’Iraq di armi di distruzione di massa e gli altrettanto presunti legami logicistici, economici e politici tra il regime di Saddam e l’organizzazione terroristica di Al Qaeda. Ad oggi entrambe le ragioni ufficiali dell’invasione rimangono “presunte”, se non addirittura “infondate” nel caso delle armi di distruzione di massa. Volendo si potrebbe aggiungere anche il motivo - più retorico che effettivo - umanitario e liberale, con gli Stati Uniti chiamati ancora una volta a liberare un popolo vittima di una dittatura sanguinaria. Ma se la dialettica statunitense riuscì a far breccia nella sua opinione pubblica ancora profondamente scossa dagli avvenimenti dell’11 settembre 2001, lo stesso non si può dire di quella dei suoi alleati europei. In Europa infatti, nonostante le divisioni tra sostenitori (Italia e Gran Bretagna) e contrari (Francia e Germania) all’invasione irachena, l’opinione pubblica rimase in maggioranza vicina alle ragioni non interventiste. Differentemente dall’invasione dell’Afghanistan o dalla prima guerra del Golfo, i dubbi circa la veridicità delle accuse USA minarono l’unità del fronte Occidentale della NATO. In particolare Francia e Germania si rifiutarono di intervenire senza l’avallo dell’ONU (che non ci fu), giudicando più proficuo per il popolo iracheno la ricerca di una soluzione diplomatica. Anche in questo caso, comunque, più che la retorica umanitaria erano probabilmente gli interessi petroliferi delle due nazioni continentali, come la stampa statunitense non si risparmiò di far notare, a frenare l’aiuto incondizionato allo storico alleato. Quella che Bush definì come la “coalizione dei volenterosi”, orfana sia della benedizione ONU, sia del sostegno di Parigi e Berlino, fu comunque imponente. Ben 16 nazioni, tra cui l’Italia, decisero di sostenere gli Stati Uniti.

Fu così che il 20 marzo 2003 la Coalizione, forte dei suoi 260.000 uomini, a cui vanno aggiunti circa 50.000 contractors (di fatto mercenari), invase l’Iraq. Il 15 aprile, con la caduta della città natale di Saddam Hussein Tikrīt, la guerra poteva già dirsi in dirittura di arrivo. Il primo maggio, dalla portaerei Abraham Lincoln, Bush annunciò la fine della missione. Il 13 dicembre 2003 Saddam Hussein venne catturato e condannato a morte 3 anni dopo (30 dicembre 2006). Ma per la coalizione i problemi erano appena iniziati.

Nonostante la formazione di un governo provvisorio in cui erano rappresentati i diversi gruppi etnici e religiosi del paese e il varo di una costituzione che tentava di conciliare la fedeltà all’Islam con il rispetto del pluralismo politico e religioso, la situazione non migliorò affatto. Dilaniato da una guerra civile, che sul fronte anti-occidentale assumeva sempre di più i tratti di una guerra contro l’invasore straniero, per il popolo iracheno si prospettavano tempi bui. Dopo 8 anni di traballante mantenimento dell’ordine, vittima di quotidiani attacchi esplosivi ( tra cui quello di Nassirya, che coinvolse in primo piano il nostro Paese), nel 2011 la coalizione si ritirò da un Iraq tutt’altro che riappacificato, passando in toto le consegne al nuovo governo iracheno. Nel 2014 lo scoppio di una nuova guerra civile, di fatto mai finita, portò alla nascita dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS). Come sempre in questi casi, a farne le spese fu la società civile. Difficile in questo senso è anche il conteggio delle vittime: il numero dei cittadini inermi morti durante l’invasione va da un minimo ufficiale di 68.000 morti, a un massimo che si aggira intorno al mezzo milione. Secondo nuove inchieste la cifra più veritiera dovrebbe accostarsi intorno ai 130.000 morti.


LETTURE E APPROFONDIMENTI:

- https://www.raiplay.it/…/Il-tempo-e-la-Storia-Le-guerre-del…

- https://www.eurasia-rivista.com/dieci-anni-fa-la-seconda-g…/

- https://www.tpi.it/2013/03/15/il-prezzo-della-guerra/

- http://www.limesonline.com/…/perche-di-preciso-gli-american…