di Andrea Bernabale

LA GUERRA CIVILE ALGERINA

LA CRISI DI FINE MILLENNIO

Se per l’Italia gli anni ‘90 rappresentano politicamente il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica sotto le inchieste della magistratura, al di là del mare, per la “vicina” Algeria sono il decennio di una sanguinosa e logorante guerra civile, annoverata tra le più brutali della storia recente.

Sono principalmente due le cause tali da generare un’onda d’urto capace di generare un conflitto intestino decennale: la crescita del fondamentalismo islamico, visto come un’alternativa alle politiche secolari portate avanti dal governo algerino e, per converso, il fallimento del Fronte di Liberazione Nazionale (unico partito finora legittimato a governare) di rispondere alle esigenze della società e del tempo, in particolare le esigenze economiche.

Già nel 1988 si accendono le prime violente proteste anti-governative, le più destabilizzanti dagli anni della decolonizzazione, spesso represse dall’esercito nel sangue di oltre 500 manifestanti algerini che ne rimasero vittime. Nonostante il governo giustificasse le azioni repressive sostenendo la tesi che le rivolte fossero fomentate dai gruppi islamisti, in realtà esse erano semplici manifestazioni del malcontento popolare derivante dalla stagnante situazione economica in cui versava il paese, a sua volta causata in buona parte dalla flessione dei prezzi del petrolio. Altresì, i manifestanti chiedevano maggiori aperture politiche che indirizzassero il paese verso la tanto auspicata transizione democratica.

Nelle elezioni del 1989, il presidente Chadli Benjedid viene riconfermato al governo per un terzo mandato, dopo aver promesso un programma di riforme e una nuova costituzione. In segno di apertura, veniva introdotto il multipartitismo, in quanto fino ad allora l’ordinamento giuridico algerino prevedeva l’esistenza di un solo partito, il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), guidato appunto da Benjedid. Tuttavia, la legge elettorale presentava alcune riserve: un’altissima clausola di sbarramento fissata al 10% e l’assurda clausola secondo la quale il partito che avesse preso oltre il 50% dei voti al primo turno elettorale avrebbe conquistato tutti i seggi in parlamento. Misure volute implicitamente dall’FLN per mantenere le redini del potere. Furono riviste anche le circoscrizioni elettorali attraverso le c.d. pratiche di “gerrymandering”, brogli consistenti nel suddividere i collegi elettorali a proprio vantaggio.

Il neo-costituito Fronte Islamico di Salvezza (FIS) denunciò l’illiberale legge elettorale fomentando nuove manifestazioni e agitazioni, che allo stesso tempo diedero giustificazione all’esercito di proclamare lo stato d’assedio, che rimase in vigore dal 5 giugno al 29 settembre 1991. Altrettanto, furono arrestati i principali vertici del FIS.

Nonostante il temporaneo stato d’assedio, il 1991 è l’anno di svolta: si tengono, infatti, le prime elezioni “libere”, o comunque le prime a vedere una competizione elettorale multipartitica.

Le elezioni hanno un risultato imprevedibile: l’FLN si ferma - contro tutte le previsioni - ad un misero 23%, mentre il FIS conquista il 47% dei consensi. Si procederà ad un secondo turno elettorale previsto per il 15 gennaio 1992.

L’imminente vittoria del FIS - che avrebbe probabilmente formato uno Stato Islamico - fa paura all’esercito che depone Benjedid, prende il controllo del paese, cancella le elezioni previste per gennaio e dichiara lo Stato d’emergenza. Infine, istituisce l’Alto Consiglio di Stato e invita l’esiliato Muhammad Boudiaf a tornare in patria dopo 28 anni in Marocco e guidare il suddetto organo. Nel frattempo, le forze di polizia provvedono a smantellare la struttura partitica del FIS, che viene dichiarata organizzazione clandestina. Oltre 9000 membri vengono arrestati e internati in campi di lavoro nel deserto del Sahara, una sorta di gulag arabo.

Il FIS reagisce con atti di terrorismo e lo stesso Boudiaf viene assassinato in circostanze non chiare. L’Algeria è nel caos e la guerra è la sua continuazione.


IL CONFLITTO DECENNALE

L’Algeria vive nel 1993 il suo anno più drammatico, il sipario che apre alla sanguinosa e decennale guerra civile. Il caos è in ogni dove: nel febbraio viene rinnovato lo stato d’emergenza; migliaia di islamisti, o semplici simpatizzanti del FIS (Fronte di Salvezza Islamico), vengono giustiziati dai militari stessi, centinaia portati invece davanti alle corti nazionali e condannati poi alla pena capitale. Altrettanto, militari e intellettuali saranno a loro volta vittime di assassinii da parte dei rivoltosi islamisti.

Il governo militare risponde ai disordini addossando le responsabilità ai membri del FIS, anche se gran parte della popolazione non crede alla narrazione istituzionale e complessivamente sostiene che i disordini siano frutto di altri gruppi ancora, estremisti islamici e non. È questo il quadro che rappresenta l’Algeria in guerra con sé stessa nel 1993.

Il governo sembra incapace di tenere a bada le violenze e, sul piano internazionale, risulta sempre più isolato: rompe le relazioni diplomatiche con Iran e Sudan, accusati di finanziare i terroristi islamici, mentre il re marocchino King Hassan critica gli illeciti elettorali algerini, ritenendoli vera causa del conflitto.

L’Alto Consiglio di Stato nomina allora Liamine Zeroual come nuovo Primo Ministro, assegnandogli il compito di aprire un dialogo con il FIS e di liberare coloro che erano stati fatti prigionieri. Tuttavia, il dialogo fallisce: il FIS non era intenzionato ad abbandonare l’arma contrattuale della violenza, e si scinde in due fazioni.

Alle elezioni del novembre 1995, Zeroual è confermato presidente con una salda maggioranza, un governo tuttavia malvisto dalla comunità internazionale e dagli osservatori sui diritti umani: Amnesty International lo accuserà della morte di 96 prigionieri detenuti nei carceri di Serkadji e di numerosi assassinii extra-giudiziali messi in atto dalle forze di polizia.

Il governo Zeroual non riuscirà in alcun modo a fermare le violenze nonostante i vari tentativi, come l’approvazione di una nuova Costituzione in seguito a un referendum che vide il voto favorevole dell’80% dei votanti. In particolar modo, si fece più sanguinosa l’opposizione del GIA (Gruppo Islamico Armato), una fazione del FIS che sarà responsabile, congiuntamente agli squadroni della morte del governo, di buona parte dei 60.000 civili uccisi nel conflitto algerino dal 1992 al 1996.

Tuttavia, la guerra tra governo e fondamentalisti continua in modo brutale e lo stesso 1997 sarà ricordato come un l’anno più sanguinoso del conflitto; oltre a condurre una guerra, il governo cercherà anche di giustificarla agli occhi delle altre nazioni, convincendole che i terroristi erano gruppi così terribili da non poter interrare alcun tipo di dialogo.

Ad ogni caso, nel 1997 ben 12.000 persone erano semplicemente scomparse e poco importa se fossero terroristi o meno, la narrazione del governo era quella di condurre una guerra contro il terrorismo internazionale.

Altri terribili massacri si verificano nel 1998 e negli anni seguenti, tanto da catturare l’attenzione dell’Unione Europea, intenta ad inviare una delegazione in loco, che tuttavia viene respinta dal governo algerino per evitare possibili inchieste.

Le elezioni presidenziali del 1999 vedono, invece, la vittoria di Abdelaziz Bouteflika che avvia un nuovo tentativo di riconciliazione: libera dalle carceri 5.000 islamisti e fa approvare dal parlamento una legge che conceda un’amnistia ai militanti islamici, eccetto quelli implicati in omicidi di massa o stupri.

La riconciliazione sembrava ormai compiuta nel gennaio 2000 con la firma di un accordo tra il governo Bouteflika e i gruppi armati islamici, con il primo che avrebbe concesso amnistie e i secondi il loro stesso scioglimento.

La pace era ormai fatta, anche se vaste zone del territorio algerino rimanevano zone di conflitto fino a quando, in seguito all’11 settembre 2001, gli USA inserirono nella lista nera delle organizzazioni terroristiche il GIA e altri gruppi islamisti algerini. Il governo Bouteflika ora non era più solo nella lotta al terrorismo.

Grazie anche al sostegno degli USA, il conflitto algerino può considerarsi chiuso nel 2002. Buona parte del merito risiede comunque nell’efficace politica di riconciliazione di Bouteflika, che nel 2004 viene riconfermato per un secondo mandato. Bouteflika, che rimarrà alla guida del paese fino all’aprile 2019, descriverà la guerra civile come una “tragedia nazionale”, costata 30 miliardi di dollari e 150.000 vite umane.

LETTURE E APPROFONDIMENTI:

- G.Calchi Novati, “Storia dell’Algeria indipendente: dalla guerra di liberazione a Bouteflika”, Bompiani, 2014