Il "Sultano": Erdogan e la nuova Turchia

LORENZO MAZZONI

IL “SULTANO”: ERDOGAN E LA NUOVA TURCHIA

Recep Tayyip Erdoğan è il dodicesimo presidente della (ormai) Repubblica Presidenziale Turca. Può essere considerato espressione dell’islamismo turco, visione contrastante alla dottrina kemalista e secolarista che per quasi un secolo ha permeato la vita politica turca. Nato il 26 Febbraio 1954 a Kasımpaşa, quartiere popolare di Istanbul, e cresciuto in una famiglia islamica osservante, intraprese la carriera politica verso la fine degli anni ’70. Ben presto divenne una figura di spicco del “Partito del benessere” (Refah Partisi), organizzazione di ispirazione islamica conservatrice, divenendo molto popolare anche a livello nazionale in seguito della sua elezione come sindaco di Istanbul.

Nel 1997 un colpo di stato dell’esercito (che secondo la costituzione turca poteva intervenire in caso di gravi minacce al sistema kemalista) costrinse alle dimissioni l’allora primo ministro Erbakan - grande amico e mentore di Erdoğan - politico conservatore che si era opposto duramente alla richiesta di entrata della Turchia nella Unione Europea. In conseguenza del golpe, furono messi fuorilegge quattro partiti islamisti e lo stesso Erdoğan venne arrestato con l’accusa di incitamento all’odio religioso, accusato di aver declamato pubblicamente le strofe controverse e, all'epoca, proibite, dell'intellettuale nazionalista Ziya Gökalp «Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati [...]».

Una volta tornato in libertà, fondò il partito Per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), caratterizzato da posizioni islamiste moderate, filo americane e filo occidentali.

Nel 2002, il partito di Erdogan si presentò per la prima volta alle elezioni ottenendo una vittoria schiacciante grazie al 34,7% dei voti, successo ulteriormente amplificato dal sistema elettorale turco - proporzionale con sbarramento al 10% - che permise l’ingresso in Parlamento a soli due partiti: AKP e CHP (Partito Popolare Repubblicano, di ispirazione laica e kemalista). Dal momento che si trovava inibito dai pubblici uffici fino al 2003, a causa della sopracitata condanna, Erdoğan si limitò a sostenere l'elezione del suo compagno di partito Abdullah Gül. In seguito, dopo che gli furono restituiti pieni suoi pieni diritti grazie ad un emendamento costituzionale promosso dal governo, assunse egli stesso la carica di Presidente del Consiglio.

Nei primi anni di governo, Erdoğan si dimostrò un leader moderato e dinamico, strinse i rapporti con molti stati europei e con l'Unione stessa, si avvicinò il più possibile agli USA e giocò un ruolo fondamentale durante la guerra in Iraq. Pochi mesi dopo il suo primo insediamento, nel 2003, l’allora presidente statunitense George W. Bush chiese alla Turchia l’autorizzazione ad utilizzare lo spazio aereo turco e dispiegare truppe e mezzi nel paese. Il parlamento turco diede risposta negativa per quanto riguardava la fanteria, ma - anche in ottica di una spartizione del Kurdistan iracheno - il governo di Erdoğan assentì al sorvolo dei cieli turchi da parte dei velivoli della Coalizione.

L’AKP uscì trionfante anche dalle successive elezioni presidenziali del 2007, quando la maggioranza scelse Abdullah Gül, già primo ministro e candidato sostenuto da Erdoğan. In seguito, durante lo stesso 2007, il parlamento di Ankara adottò una riforma costituzionale che stabiliva l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Questo fu il primo grande passo verso la repubblica presidenziale, riforma strutturale fortemente voluta dall’ex sindaco di Istanbul.

Nel 2008 vide la luce la prima grave crisi politica nella Turchia a guida AKP: si venne a scoprire che un presunto gruppo ultranazionalista e kemalista chiamato Ergenekon, con potenti legami nei servizi segreti e nell'esercito, stesse pianificando un colpo di stato. La conseguenza primaria fu un'enorme epurazione, fortemente condannata da esperti ed osservatori internazionali, considerata da molti come propedeutica all’annientamento delle opposizioni all’AKP. I documenti su cui si basarono le imputazioni furono dichiarati falsi da vari periti calligrafici, ma questo non fermò la repressione: il maxiprocesso si concluse con 275 condanne al carcere e 17 ergastoli per alto tradimento.