di Lorenzo Bonaguro

Il Sequestro della Grande Moschea


Il 20 novembre 1979, un gruppo di circa cinquecento uomini armati prese in ostaggio i fedeli musulmani che si trovavano all’interno della Grande Moschea della Mecca, considerato il luogo più sacro per l’Islam. I sequestratori erano non solo armati, ma anche ben addestrati: in men che non si dica isolarono l’edificio e posizionarono dei cecchini sulla cima dei minareti. In previsione di una lunga battaglia, si erano riforniti di abbondanti viveri. Dopo più di una settimana l’esercito saudita, coadiuvato da esperti giordani e pakistani, riuscì ad avere la meglio: il bilancio finale fu di quasi trecento vittime fra soldati, sequestratori e ostaggi, diverse centinaia i feriti, anche se le cifre non sono precise. Quei pochi ribelli ancora vivi furono processati velocemente e decapitati in pubblico.

L’uomo dietro quest’azione fu Juhayman ibn Muhammad ibn Saif al Otaybi. Come molti dei suoi complici era un ex membro della Guardia Nazionale Saudita e proveniva da una famiglia della rinomata tribù Utaybah. Molti suoi familiari combatterono contro Ibn Saud, primo re saudita, e morirono nella battaglia di Sabilla nel pieno della ribellione Ikhwan, una milizia religiosa che aveva aiutato i Saud a salire al potere per poi ribellarsi accusandolo di essere asservito ai britannici. Otaybi crebbe nel risentimento verso la monarchia, colpevole di aver tradito i precetti del Profeta e di essersi venduta all’Occidente.

Il suo fondamentalismo religioso lo portò a vedere nella figura di suo cognato, conosciuto in prigione, Mohammed Abdullah al-Qahtani, il Mahdi, una figura messianica centrale nell’escatologia islamica.

Quel giorno, che segnava anche l’inizio di un nuovo secolo, il 1400 nel calendario islamico, Otaybi proclamò l’arrivo del Mahdi ai fedeli presi in ostaggio chiedendo loro di giurargli fedeltà. Una nuova era stava per iniziare secondo il ribelle: sotto la guida e gli insegnamenti del Mahdi, l’Umma, la comunità islamica nel suo insieme, sarebbe ritornata sulla retta via, avrebbe scacciato i governanti colpevoli di occidentalizzazione e i mali del mondo sarebbero giunti alla fine.

Questo estremo atto di ribellione nasceva da uno scontento di natura religiosa e politica diffuso non solo fra i ceti medi della popolazione saudita, ma anche dentro i circoli dei dotti, gli ulama, e nelle università del mondo arabo. Più in generale, tutto il mondo musulmano era in subbuglio: quello stesso anno era avvenuta la rivoluzione khomeinista. Segno evidente del fatto che il fronte intellettuale del paese non fosse del tutto coeso fu che non tutti gli ulama si espressero contro il presunto Mahdi; alcuni sollevarono dei dubbi sulla possibilità che al Qahtani lo fosse davvero dal momento che molti i segni sembravano dare conferma. Alcuni ulama si rifiutarono anche di emettere una fatwa contro i sequestratori. Furono le autorità saudite a chiedere l’emissione delle sentenze che dispensassero in questo modo i soldati dal divieto assoluto di spargere sangue nella Moschea.

L’episodio non portò a un rovesciamento della famiglia Saud né ad alcun sconvolgimento politico. Anzi, re Khaled ne approfittò per reprimere ancora di più la società civile e per dare maggior potere ai religiosi fondamentalisti fedeli alla monarchia, cancellando i pochi elementi moderni del paese. Il sequestro fu uno scandalo per tutti i musulmani del mondo. Lo stesso Khomeini si espresse sull’accaduto dando risonanza all’opinione che fosse stato un fallito colpo di stato organizzato dagli americani. Seguirono proteste di piazza in molte grandi città e in particolare a Islamabad e Tripoli furono prese d’assalto le ambasciate americane.


LETTURE E APPROFONDIMENTI:

Al-Kinani,Mohammed, When extremism began: 40 years since the Grand Mosque in Makkah was seized, ArabNews, 14/09/19

Trofimov, Yaroslav, The Siege of Mecca: The Forgotten Uprising in Islam's Holiest Shrine and the Birth of Al Qaeda, Doubleday,2007