di Lorenzo Bonaguro


Il ritorno di Khomeini in Iran


Nei due decenni successivi al colpo di Stato che depose il governo democraticamente eletto di Mossadeq nel 1953, lo shah Reza Pahlavi cercò di tenere in mano un paese sempre più insofferente al suo dominio. Diverse furono le forze sociali ed economiche che entrarono in conflitto con Pahlavi e il suo partito, l’unico legale, il “Rastakhiz Party” o Partito della Rinascita. Tra queste, la piccola borghesia cittadina, la popolazione rurale, gli studenti delle università e soprattutto il clero sciita duodecimano, vittima di una forte repressione. Quest’ultimo fu la forza trainante che finì per egemonizzare la lotta rivoluzionaria di fine anni Settanta.


La figura chiave di quegli anni fu Ruhollah Khomeini. Figlio di un imam, fin da giovane si distinse in studi coranici e filosofici facendosi velocemente una nomea nell’ambiente religioso, scalando velocemente i ranghi del clero sciita, gli Ulama. In quanto religioso si oppose in ogni modo all’opera di modernizzazione del paese voluta da Pahlavi, che giudicava un’opera di occidentalizzazione. Nel 1963 contestò violentemente la “rivoluzione bianca”: un programma di riforme sociali e ed economiche propugnato dallo Shah che aveva fra gli obiettivi quello di smantellare di fatto la presa del clero sulla società iraniana, sottraendo le risorse agli Ulama tramite un processo di nazionalizzazione. In verità, l’obiettivo ultimo era di rivenderle ai privati, come avveniva da tempo con altri asset nazionali. Khomeini attaccò direttamente e pubblicamente lo shah, prendendo probabilmente parte a una cospirazione per rovesciarlo. Non servì a nulla. L’ Ayatollah fu catturato, provocando manifestazioni di massa nelle maggiori città. Fu rilasciato solo per essere di nuovo detenuto nel 1964. La violenza politica e religiosa era divenuta ormai la norma, persino alcuni parlamentari rimasero coinvolti in assassinii di matrice politica. Rifiutando sempre di ritrattare le sue posizioni, Khomeini fu costretto all’esilio.


Nonostante l’esilio, prima in Iraq e Turchia, poi a Parigi, la sua figura rimase il fulcro dell’opposizione che continuava a crescere nel paese. Khomeini non cessò la propria attività come intellettuale dissidente e anzi fu proprio negli anni in esilio che scrisse alcune opere, pamphlet e discorsi più famosi. Le tensioni sociali crebbero fino al 1978, quando la situazione era divenuta ormai insostenibile per lo shah: non passavano settimane senza contestazioni di piazza o scioperi. Il governo cercò di raggiungere un accordo con le forze di opposizioni ma fu pressoché inutile; secondo molti giornalisti occidentali la distanza fra lo shah e il suo popolo era ormai incolmabile. Il 11 dicembre 1978 rappresentò il culmine del confronto: circa due milioni di persone si radunarono in piazza Shahyad invocando a gran voce il ritorno di Khomeini. Anche la capitale era perduta. Pahlavi non aveva più alcun sostegno. Il 1 febbraio 1979 Ruhollah Khomeini atterrò all’aeroporto internazionale di Teheran. La folla si accalcò ad accoglierlo, probabilmente almeno tre milioni di persone, tant’è che Khomeini dovette prendere un elicottero per riuscire a spostarsi fino al cimitero di Behest-e Zahra, dove erano sepolti numerosi martiri. Il colpo di grazia per il governo dello shah arrivò il 9 febbraio: squadre di giovani ufficiali e reclute attaccarono la guardia regale e immediatamente decine di migliaia di civili scesero in strada armati. La rivoluzione era in iniziata.


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