il massacro dei prigionieri politici iraniani

di Gabriele Moretti

Il massacro dei prigionieri politici perpetrato dal regime iraniano durante l’estate del 1988 non è mai stato riconosciuto da Teheran e, più di trent’anni dopo, rimane una delle pagine più scure della storia contemporanea. Tuttavia, il caso non ha mai ricevuto particolari attenzioni né della politica né dei media occidentali.

Le esecuzioni cominciarono a fine luglio 1988 e proseguirono per alcuni mesi. Un numero compreso – a seconda delle fonti – tra gli 8000 e i 30'000 prigionieri politici, la cui grande maggioranza apparteneva all’organizzazione dei Mojahedin del Popolo Iraniano o Esercito di Liberazione Iraniano (PMOI) o al partito Tudeh (il partito comunista iraniano), vennero brutalmente massacrati a seguito un decreto promulgato dall’Ayatollah Khomeini: “Chiunque in qualunque momento continui a militare nel PMOI deve essere giustiziato. Bisogna annientare immediatamente i nemici dell’Islam! […] Coloro che sono detenuti nelle prigioni di tutto il paese e persistono nel supportare il PMOI stanno portando avanti una battaglia contro Dio, e perciò devono essere condannati alla pena capitale… sarebbe ingenuo perdonare chi si combatte una guerra contro Dio!”

Le esecuzioni ebbero dunque inizio pochi giorni dopo l’emissione del decreto e ogni giorno, per settimane, centinaia di prigionieri politici vennero impiccati, i loro corpi sepolti in fretta in fosse comuni irriconoscibili sparse per le principali città del paese, in particolare nel grande cimitero di Khavaran, un vastissimo luogo di sepoltura informale pochi chilometri a sud-est di Teheran.

L’Ayatollah Hossein-Ali Montazeri (1922-2009), un religioso che nei dieci anni precedenti era stato considerato il successore designato dell’Autorità Suprema e per due anni, tra 1985 ed il 1987, aveva ricoperto il ruolo di vice di Khomeini, protestò alacremente contro le esecuzioni di massa e propose la firma di una moratoria che potesse fermare la strage. Ciononostante, Khomeini insistette per la linea dura, negando persino di commutare le esecuzioni in ergastoli quantomeno nel caso di bambini, adolescenti o donne incinte. Tutti dovevano essere immediatamente uccisi. Proprio a causa della sua esposizione a favore dei condannati, Montazeri perse la stima delle autorità politico-religiose e venne allontanato da ogni posizione di potere nel 1989. Nel dicembre 2000, ormai undici anni dopo i fatti, l’ormai ex secondo uomo più potente dell’Iran pubblicò le sue memorie, rivelando i tremendi dettagli di quell’estate di massacri. A quanto racconta, il governo iraniano pose straordinaria attenzione nel nascondere gli avvenimenti, dunque è proprio grazie a queste memorie e ad altre testimonianze dirette se ne siamo a conoscenza.

Secondo le testimonianze, la preparazione del massacro cominciò ben prima della fatwa emessa da Khomeini: già nel 1987 le guardie carcerarie cominciarono a separare i prigionieri politici nelle carceri, ordinandoli secondo l’affiliazione politica. Poi, nel 1988, quelli che sarebbero stati condannati a morte vennero messi in completo isolamento, in modo da non avere contatti né con i compagni di prigionia né tantomeno con il mondo esterno. Una sera nella tarda primavera del 1988 le porte delle celle vennero chiuse come ogni giorno, ma a partire dalla mattina seguente non furono più riaperte. I cavi telefonici furono tagliati, le grate oscurate, radio e TV sequestrate e venne persino impedita la consegna di medicinali urgenti. Alle guardie e ai lavoratori venne ordinato di non rivolgere né la parola né tantomeno lo sguardo ai prigionieri in isolamento. Alcuni prigionieri riuscirono comunque a costruire un sistema radio artigianale per avere notizie, ma nessuno al di fuori delle prigioni sembrava essere a conoscenza dei fatti.

In seguito, il governo fece compilare una serie di formulari ai prigionieri, assicurandoli che si trattava di una procedura necessaria per l’amnistia generale. In primis veniva domandato a quale organizzazione appartenevano o erano stati legati precedentemente: per chi rispondeva ‘Mojahedin’, il test era terminato e la condanna scritta. A chi rispondeva altro, veniva chiesto quanto fossero disponibile a denunciare i propri ex-compagni e fino a che punto di delazione si sarebbero spinti. I prigionieri legati ai gruppi di sinistra ricevettero invece un altro questionario, in cui veniva chiesto loro se fossero musulmani, se credessero nell’esistenza di Dio, nel paradiso, quali fossero i loro comportamenti durante il Ramadan, cosa pensassero del materialismo storico ed altri quesiti relativi alla sfera politica e religiosa.

Alla fine, chiunque non avesse risposto “correttamente” anche ad una sola domanda, venne condotto in un ufficio dove si diede la possibilità di redigere le ultime volontà. In seguito, il condannato veniva paradossalmente condotto davanti ad una corte, in cui subiva un processo di pochi minuti che decretava ufficialmente la condanna a morte. Da lì, i prigionieri venivano trasportati in camion fino ai luoghi delle esecuzioni: i pochi testimoni raccontano che il numero delle vittime era così alto che si decise di impiccarli a delle gru per costruzioni, mentre i corpi venivano trasportati a gruppi di sei su dei carrelli elevatori, in una sorta di sanguinaria catena di montaggio.

Nel 2007 venne istituito l’Iran Tribunal, una corte internazionale con sede a L’Aia che si occupa di investigare sui crimini contro l’umanità compiuti dal regime iraniano. Teheran continua a negare qualsiasi accusa e l’unico commento ufficiale mai trapelato risale ad un consiglio comunale della città di Khorram-Abad, datato 28 agosto 1988: “Siamo orgogliosi di aver applicato l’ordine divino riguardo ai mojahedin.”


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