La guerra del calcio

ANDREA BERNABALE

LA GUERRA DEL CALCIO

1969: IL CONFLITTO TRA EL SALVADOR E HONDURAS

«I due governi sono rimasti soddisfatti della guerra, perché per qualche giorno Honduras e Salvador hanno riempito le prime pagine dei giornali di tutto il mondo e suscitato l'interesse dell'opinione pubblica internazionale. I piccoli Stati del Terzo, del Quarto e di tutti gli altri mondi possono sperare di suscitare qualche interesse solo quando decidono di spargere sangue. Strano ma vero.»

(Ryszard Kapuscinski, “La prima guerra del football e altre guerre di poveri”)

È il 27 giugno 1969 e allo stadio Azteca di Città del Messico si affrontano le nazionali calcistiche di Honduras ed El Salvador in un decisivo match di spareggio per accedere ai mondiali di “Messico 1970”. Tra i due paesi confinanti non scorre buon sangue e già nelle due partite precedenti di andata e ritorno si erano verificati scontri tra le due tifoserie e gli stessi calciatori avevano subito intimidazioni. La partita di spareggio verrà vinta da El Salvador ma, nonostante le preventive misure adottate di ordine pubblico, le due tifoserie verranno nuovamente a contatto prima e dopo la gara, scatenando una vera e propria guerriglia urbana che portò, la sera stessa della partita, alla rottura delle relazioni diplomatiche tra Honduras ed El Salvador.

I violenti scontri di Città del Messico non furono altro che il preludio ad una sanguinosa guerra tra i due paesi e che il celebre giornalista Ryszard Kapuscinski chiamerà “guerra del calcio”.

Le radici del conflitto, tuttavia, non risiedono nella rivalità calcistica ma hanno radici più profonde. Sin dagli anni ‘20, ovvero circa cinquant’anni prima del conflitto, masse di contadini salvadoregni migrarono illegalmente verso i vicini territori honduregni per via della sovrappopolazione. Migrarono in misura sempre maggiore, senza tuttavia ottenere mai il possesso legale delle terre occupate e senza mai essere interessati ad ottenere la cittadinanza honduregna.

In Honduras erano disponibili nuove terre da coltivare e i suoi territori costituivano, dunque, opportunità economiche per i contadini salvadoregni, seppur si trattasse di due paesi estremamente poveri.

El Salvador era comunque tecnologicamente più avanzato, grazie soprattutto agli investimenti americani, ma socialmente più instabile rispetto all’Honduras: si trattava infatti di un territorio dalla superficie piuttosto esigua e popolato all’inverosimile, condizioni che generarono una dirompente disoccupazione. Per evitare una rivolta contadina il governo salvadoregno stipulò un accordo con il vicino Honduras nel 1967 per la libertà di transito e diritto di residenza, legalizzando dunque i flussi migratori che da decenni vedevano i contadini salvadoregni espatriare. L’accordo non fu certamente ben visto dai contadini honduregni, che già erano in fermento contro il governo per le loro condizioni di miseria quotidiana e che ora vedevano la concorrenza degli immigrati salvadoregni, peraltro noti per la loro laboriosità agricola.

Nel 1969 si contavano dai 100mila ai 200mila salvadoregni in Honduras. Il risentimento di quest’ultimi nei confronti dei primi era palpabile, ma i rapporti divennero particolarmente tesi solo in seguito al crescente nazionalismo di ambo le parti.

Nella primavera del 1969, il presidente honduregno Oswaldo Lopez Arellano, per evitare una rivolta sociale, varò insieme all’Instituto Nacional Agrario (INA) un programma di redistribuzione delle terre in chiara violazione dell’accordo bilaterale stipulato tra i due paesi solamente due anni prima. Il programma prevedeva infatti la confisca delle terre a tutti coloro che avessero proprietà terriere nel paese senza tuttavia essere in possesso della nazionalità honduregna. A tale provvedimento seguiva il rimpatrio forzato degli interessati. I contadini salvadoregni furono dunque privati dei propri campi e dei loro possedimenti in territorio honduregno, nonché costretti a tornare in madrepatria senza alcuna prospettiva lavorativa. Di lì a poco si sarebbero infatti verificati i violenti scontri in occasione delle qualificazioni ai Mondiali di Messico 1970 sopra citati.

Tuttavia, i salvadoregni furono restii a tornare in patria, dove lo stesso governo di El Salvador esortava i concittadini a non tornare ma di ribellarsi al governo honduregno. Nel luglio 1969, pochi giorni dopo i fatti dello stadio Azteca, scoppiarono rivolte a Tegucigalpa (capitale honduregna) e, in sostegno dei ribelli, truppe salvadoregne varcarono il confine invadendo Honduras. Le truppe rapidamente raggiunsero le città di Nueva Ocotepeque e Santa Rosa de Copàn, facendo intendere che l’obiettivo fosse raggiungere e assediare la capitale Tegucigalpa.

Il governo honduregno rispose allora mobilitando l’aviazione militare - di gran lunga più avanzata in termini di potenziale bellico rispetto a quella salvadoregna - bombardando le riserve di combustibile fossile del Salvador, distruggendone circa il 20%. Seguirono poi ulteriori attacchi aerei, di cui uno al napalm, che misero El Salvador in ginocchio.

Nonostante la situazione non favorevole, il 18 luglio l’OAS (Organization of American States) impose il cessate il fuoco che non fu accolto da El Salvador, che ancora riteneva possibile poter raggiungere la capitale honduregna. Tale rifiuto costò la condanna di El Salvador da parte dell’OAS come Stato aggressore. Solamente il 5 agosto le truppe salvadoregne batterono in ritirata ripristinando lo “status quo ante bellum”. Ad un trattato di pace, invece, si arrivò solo il 30 ottobre 1980, sotto la supervisione del presidente statunitense Jimmy Carter.

Nel complesso, i costi della guerra furono alti: circa 6mila vittime, per lo più honduregni, 15mila feriti e un indefinito numero compreso tra i 60’000 e i 130’000 contadini salvadoregni che dovettero far ritorno in patria. Nonostante la durata limitata, si trattò di uno dei conflitti più sanguinosi del secondo dopoguerra.