Il golpe cileno del 1973

MARCO BERTUCCIO

IL GOLPE CILENO DEL 1973

“Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un Paese diventa comunista a causa dell'irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli”

(Henry Kissinger)

L’11 settembre 1973 il presidente Salvator Allende muore, armi in pugno, tra le rovine della casa presidenziale bombardata dall’aviazione militare cilena. Il golpe fu seguito dalle televisioni che mostravano lo “spettacolo” dello stadio di Santiago de Chile pieno di prigionieri. Seguiranno anni bui di sequestri ed assassinii, che colpiranno oltre 30.000 cileni, ma il cui numero esatto rimarrà per sempre un mistero. Il generale Augusto Pinochet, a capo della junta militar, diventava la più alta carica cilena, inaugurando un’era che avrà, nei fatti, fine, solo con la sua morte nel 2006. Come si arrivò a quell’11 settembre? Quale fu il ruolo degli Stati Uniti?

Nelle elezioni presidenziali del 1970 quella che oggi chiameremmo una “coalizione” di sinistra, Unidad Popolar, guidata dal socialista Salvator Allende, vince con il 36% dei voti. Compagine composita quella di Unidad Popolar, divisa al suo interno tra una anima moderata, legata al riformismo costituzionale, ed una estrema che spinge verso l’insurrezione. Pur tra queste difficoltà interne, il governo Allende procedette all’attuazione di una serie di riforme di stampo socialista, volte a dare centralità al ruolo dello Stato nell’economia.

Tra queste, in estrema sintesi, ricordiamo: la nazionalizzazione di vari settori strategici (miniere, industrie e banche); il rilancio della riforma agraria, con un tetto di 70 ettari per la proprietà fondiaria; aumenti salariali e retributivi, atti ad allargare la domanda interna; incremento della spesa pubblica come lotta alla disoccupazione; ruolo attivo dello Stato nello stimolare l’offerta e, contemporaneamente, nello scongiurare l’inflazione da domanda, attraverso il controllo dei prezzi. Le cose non andarono come previsto, e già nel 1972 le difficoltà vennero a galla. Si assistette, infatti, ad effetti ben diversi da quelli sperati, primo fra tutti un aumento esasperato dell’inflazione, che toccò punte del 180%, dovuto in particolar modo all’eccesivo aumento della spesa pubblica. L’inflazione causò enormi difficoltà dell’offerta e portò alla svalutazione del peso e all’ampliamento del mercato nero. Inoltre molti produttori agricoli e industriali, ovvero buona parte dell’élite economica e dirigenziale, iniziarono una vera e propria opera di decapitalizzazione, sia per sfiducia verso la situazione economica del paese, sia per minare alla base le politiche intraprese da Allende, viste come un attacco al proprio potere politico ed economico. A tutto ciò va aggiunto l’attivo ruolo di sabotaggio messo in atto dagli Stati Uniti di Nixon.

L’elezione di un marxista come Allende e le politiche da esso intraprese, avvenivano in un contesto storico ben preciso, quello della Guerra Fredda, e più nel particolare in un periodo in cui gli Stati Uniti osservavano con particolare attenzione quello che Kissinger amava definire (e reputare) il proprio “cortile di casa”, con la paura che potesse nascere una seconda Cuba in America Latina. Ci troviamo inoltre a ridosso della grande crisi economica che attraversò tutti gli anni ’70, e le nazionalizzazioni intraprese da Allende toccarono direttamente gli interessi economici statunitensi. Sono questi infatti gli anni in cui trova applicazione la cosiddetta “dottrina Mann”, dal nome di Thomas Mann, sottosegretario di Stato per gli Affari latinoamericani, elaborata nel 1964 e riassumibile nei seguenti quattro punti: promozione della crescita economica regionale; protezione degli investimenti privati USA; indifferenza per il tipo di regime, democratico o autoritario; decisa opposizione al comunismo. In sintesi, la stabilità, la crescita economica e la lotta al comunismo divenivano gli obbiettivi principali da sostenere in America Latina, a discapito di democrazia e riforme sociali.

Il golpe militare brasiliano del 1964 di Humberto Castelo Branco ne rappresenta la prima applicazione. Per quel che concerne il Cile, gli Stati Uniti procederono verso un taglio netto del flusso dei crediti sia diretti, sia mediati da istituzioni finanziarie internazionali (FMI e Banca Mondiale in primis), arrivando addirittura a porsi contro la rinegoziazione del debito cileno. In contemporanea aumentarono invece gli aiuti e l’assistenza USA alle forze armate cilene, che passarono tra il 1970 e il 1973 da 5 a 19 milioni di dollari.

La conflittualità socio-politica, la deriva economica e l’influenza a stelle e strisce portano l’esercito verso la radicalizzazione. Siamo inoltre in una fase in cui lo stesso Allende, per assicurarsi la lealtà degli alti comandi dell’esercito, garantisce ad essi un ruolo di primo piano nell’arena politica. In questo modo il contrammiraglio Ismael Huerta venne posto alle Opere Pubbliche e il generale di brigata Claudio Sepúlveda al ministero delle Risorse Minerarie. Ben più importante la nomina di Carlos Prats, comandante in capo dell’esercito cileno, successore di quel René Schneider assassinato nel 1970 per essersi opposto ad una soluzione golpista contro l’elezione di Allende, a Ministro dell’Interno (in seguito ricoprirà anche il ruolo di Ministro della Difesa e Vicepresidente). Il blocco economico USA, spalleggiato dalle multinazionali, i piani destabilizzatori della CIA, la radicalizzazione dell’esercito cileno, l’opposizione dell’élite locale attraverso il sabotaggio economico e l’ostruzionismo politico, le divisioni interne di Unidad Popolar e la recessione economica, portarono ben presto il paese nel caos, e Carlos Prats alle dimissioni nell’agosto del 1973 (fu assassinato con la moglie in Argentina nel 1974). Ad esso gli succedette il generale Augusto José Ramón Pinochet Ugarte. Quello che accadde nelle settimane successive è tristemente noto a tutti.

L’11 settembre 1973 Pinochet cinse d’assedio il palazzo presidenziale e lo bombardò. Salvator Allende, secondo la versione ufficiale, si suicidò con il suo AK-47 prima dell’irruzione dei militari. La junta militar, composta dai quattro capi dell’esercito, Pinochet, della marina, Castro, dell’aviazione, Guzmàn, e dei caribineros, Duràn, si organizzò per una presidenza a rotazione e nominò Pinochet capo permanente della giunta. Tale rotazione, però, non avvenne mai. Il 13 settembre la junta sciolse il Congresso e assunse il potere legislativo, mettendo fine all’esperienza democratica cilena e inaugurando un regime dittatoriale che durò fino al 1998. In questo modo ebbe fine il modello desarrolista cileno fondato sul ruolo interventista dello stato, ed ebbe inizio quella rivoluzione neoliberista che fece da avanguardia al mondo intero.