la dottrina weinberger

di Lorenzo Bonaguro

«Impiegare le nostre forze indiscriminatamente… ci farebbe sicuramente precipitare in disordini interni senza raggiungere l’obiettivo per il quale abbiamo utilizzato le nostre forze»


Negli anni successivi alla guerra del Vietnam, i cui strascichi negativi si fecero sentire ben oltre gli anni Settanta, gli Stati Uniti dovettero ripensare completamente la loro politica di intervento militare. Un’intera generazione di militari, analisti, studiosi e politici dovette fare i conti con questo trauma nazionale. Uno di questi uomini fu Caspar Weinberger, che esercitò il ruolo di Segretario della Difesa durante gli anni della presidenza Reagan, affiancato dal Colin Powell, il quale contribuì in maniera fondamentale a delineare la dottrina del suo superiore e che riprese, con alcune modifiche, quando lavorò nell’amministrazione Bush. L’influenza di quest’ultimo fu tale che talvolta si parla di dottrina Weinberger-Powell. Fin da subito Weinberger si pose come una figura chiave nei processi decisionali della politica estera reagania: ad esempio spingendo per una condotta molto rigida verso l’Unione Sovietica, scontrandosi spesso con il Dipartimento di Stato guidato da George Shultz, che fu uno dei grandi critici della dottrina.

La lezione appresa dal Vietnam, secondo Weinberger, è che ci sono dei limiti a quello che gli USA possono sacrificare in termini di soldi e vite umane. Non possono comportarsi unilateralmente come se fossero i poliziotti del mondo. Tuttavia non bisogna cedere alle tentazioni isolazioniste, o “cripto-isolazioniste” come le definì, sempre presenti nel popolo americano, perché il pericolo sovietico era sempre dietro l’angolo. Ciò rendeva il proseguimento del “containment” inevitabile.

La dottrina Weinberger, esposta per la prima volta davanti al National Press Club, si può riassumere in sei punti. Prima di tutto, mai impiegare l’esercito se non per tutelare gli interessi nazionali; ma quali sono gli interessi nazionali? Bisogna essere pronti a impegnare al massimo le energie militari del paese, senza esitazioni. Siccome gli interessi rientrano in un ampio spettro, con varie sfumature di importanza da caso a caso, da scenario a scenario, l’uso della forza deve essere assolutamente flessibile, ma sempre deciso. A tal fine ogni aggiustamento possibile per conseguire un miglioramento della situazione sul campo deve essere adottato senza alcun impedimento o rigidità interna. Gli ultimi due punti sono quelli in cui il trauma del Vietnam è più evidente: la politica militare deve ricevere sempre il sostegno del Congresso e dell’opinione pubblica, e infine l’opzione militare deve essere l’ultima spiaggia.

Insomma, secondo il Segretario della Difesa l’uso della forza doveva rimanere l’ultima carta da giocare, ma se giocata, il governo deve essere pronto ad andare fino in fondo. Bisogna evitare a tutti i costi il gradualismo dell’escalation militare che aveva portato al pantano in Indocina: «[il gradualismo] esagera l’illusione del controllo, viola il principio strategico della concentrazione delle forze e spinge a sottovalutare i costi politici interni». Weinberger riteneva che la vittoria politica (l’aver convinto il Vietnam del Nord a firmare una pace) non aveva portato a nulla perchè non era fondata su una vittoria decisiva conquistata sul campo. Un uso efficiente della forza militare richiede rapidità d’esecuzione, potenza schiacciante e di conseguenza una limitazione dei tempi e dei costi della guerra. In questo Weinberger ricalcava perfettamente la strategia militare come fu intesa da Clausewitz. L’errore era stato a suo dire l’essersi convinti che la guerra non fosse altro che un “negoziato armato”, una “diplomazia della violenza”, in cui l’incremento graduale degli effettivi avrebbe portato alla capitolazione del nemico.

Oltre a rispondere alla catastrofe del Vietnam, la proposta di Weinberger rispondeva alle problematiche che andavano delineandosi negli anni Ottanta. Un mondo in cui le minacce agli USA e ai suoi interessi non provenivano solo dal blocco sovietico, ma anche dal mondo islamico, sotto forma dei così definiti “stati canaglia” e organizzazioni terroristiche. La dottrina di Weinberger voleva rispondere proprio a questo nuovo stato delle cose: il paese doveva decidere attentamente quali minacce affrontare e quali no. Nell’ultimo decennio, questa flessibile impostazione della politica militare è stata ripresa in considerazione dopo gli otto anni di fallimentare politica muscolare voluta dalla presidenza Bush.


LETTURE E APPROFONDIMENTI:

Discorso di Weinberger al National Press Club, https://www.pbs.org/…/…/shows/military/force/weinberger.html

Air Force Magazine, “The Weinberger Doctrine”, https://www.airforcemag.com/article/0314weinberger/

Corrado Stefanachi, "America invulnerabile e insicura", Vita e Pensiero, 2017