“TEN’NOSEI FASHIZUMU” - IL FASCISMO GIAPPONESE


LA DOTTRINA E IL PENSIEROLORENZO BONAGURO

Gli storici giapponesi ancora oggi dibattono sulla natura del regime politico vigente nel paese del Sol Levante dagli anni Trenta fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La storiografia occidentale di certo non aiuta, spesso troppo ancorata ai modelli fascisti europei per comprendere le peculiarità del caso giapponese. Tuttavia, una caratteristica del fascismo giapponese è che ne sono esistite due varianti o modelli contemporaneamente: il cosiddetto “movimento fascista” sostenuto dal basso e ispirato alle idee di Kita Ikki, e il tennosei fashizumu (fascismo del sistema imperiale), quello ufficiale imposto dal blocco di potere dominante composto da politici, burocrati, ufficiali dell’esercito e grandi capitalisti.

Kita Ikki (1883-1937), intellettuale d’ispirazione nazionalista e socialista, fu fondamentale per lo sviluppo del fascismo giapponese e si occupò dei due argomenti più dibattuti in quel periodo: la necessità dell’espansione del Giappone a discapito dell’“imperialismo bianco” e la necessità di riformare le istituzioni e l’economia. Secondo Kita, la riorganizzazione interna significava distruggere il ceto dirigente, arrivando anche a sospendere l’attività del Parlamento e creare un’assemblea di «uomini probi», annullando quindi la Costituzione Meiji. Riguardo all’economia invece, era fondamentale limitare il potere degli zaibatsu, conglomerati industriali e finanziari gestiti da potenti famiglie; inoltre, Kita proponeva l’introduzione di un limite alla proprietà terriera, ai patrimoni e ai capitali societari. Sul piano internazionale invece, il Giappone avrebbe dovuto allearsi con gli Stati Uniti ed espandere la propria influenza dall’India all’Australia; questa idea era in realtà condivisa da molti e sarà alla base dell’istituzione della “Sfera di proprietà comune della Grande Asia Orientale (1942)”. Il pensiero di Kita ebbe vasto eco tra burocrati e membri dell’esercito e si diffuse tramite numerose piccole organizzazioni sparse sul territorio. Queste idee critiche e sovversive del sistema imperiale non furono però tollerate a lungo: Kita fu imprigionato, processato e giustiziato a seguito del fallito colpo di Stato noto come “incidente del 26 febbraio” per opera dei quadri intermedi dell’esercito.

Dal 1937, anno della morte di Kita, il fascismo imposto dall’alto ebbe modo di concretizzarsi senza più ostacoli; l’unione dell’ideologia fascista con quella imperiale era ormai compiuta. Data d’inizio del processo di fascistizzazione del Giappone può essere considerata il 12 maggio 1925, con l’approvazione della “Legge per il mantenimento dell’ordine pubblico”: essa fu una legge speciale che permise la sospensione della certezza del diritto e permise al ceto dirigente di reprimere ogni forma di dissenso nei confronti dell’ideologia ufficiale. Inoltre, vietava qualsiasi alterazione del kokutai (termine molto vago e interpretabile discrezionalmente) che indica il “sistema nazionale”, perseguitando gli oppositori politici con la creazione di un corpo di polizia segreta detta Tokkoo, ossia “abiura della posizione ideologica”, e di una rete di spie e informatori sparsi in qualunque sfera della società. Insomma, una macchina repressiva orwelliana vera e propria.

Altresì, fu messa in piedi anche una efficientissima macchina del consenso il cui fulcro primario era la scuola, trasformata in un vero e proprio centro di indottrinamento dell’ideologia imperiale, la quale ruotava attorno alla figura dell’Imperatore, “tennoo”, ritenuto diretto discendente della dea solare Amaterasu e trascendente gli affari politici. Egli era visto come la personificazione stessa del kokutai, padre amorevole di tutti i giapponesi che a lui dovevano un amore filiale e l’assoluta dedizione come lavoratori e soldati. Altri strumenti per il consenso furono le numerose associazioni territoriali, rionali, di categoria, giovanili, etc.

Oltre al Trono del Crisantemo, tre sono i pilastri del tennosei fashizumu: il kazokushugi, il noohonshugi, e il panajiashugi. Il primo è traducibile con il termine familismo e indica il già citato rapporto di amore e devozione filiale, rafforzato dall’idea dell’omogeneità razziale del popolo nipponico, che permea la società giapponese e lega i sudditi al sovrano. A questa idea si collega quella del “familismo imprenditoriale” che instaurò un sistema industriale corporativo che avrebbe dovuto superare il conflitto capitale-lavoro e che, seppur molto diluito, esiste ancora oggi. Il noohonshugi, idea di matrice confuciana e traducibile con “ruralismo”, idealizza la comunità agricola e la prende a modello per la società giapponese per la sua capacità di superare ogni antagonismo sociale. Il terzo pilastro, il panasianismo, giustificava l’occupazione giapponese come difesa dei popoli asiatici, del loro stile di vita e valori dall’imperialismo occidentale; al tempo stesso, garantiva l’accesso a materie prime, praticamente inesistenti nell’arcipelago, per le industrie e uno sbocco ai capitali dei zaibatsu.

LETTURE ED APPROFONDIMENTI:

R. Caroli, F. Gatti, “Storia del Giappone”, Mondadori, 2017

F. Gatti, “Il fascismo giapponese”, ed. Cafoscarina, 1997