Gandhi: la teoria della non-violenza

ANDREA BERNABALE

GANDHI: LA TEORIA DELLA NON-VIOLENZA

«Il genere umano può liberarsi della violenza soltanto ricorrendo alla non-violenza. L'odio può essere sconfitto soltanto con l'amore. Rispondendo all'odio con l'odio non si fa altro che accrescere la grandezza e la profondità dell'odio stesso.» (M. Gandhi)

Mohandas Gandhi, nato nel 1869 e più tardi conosciuto in India come il “Mahatma” (grande anima), nella sua lotta per l’indipendenza indiana dal dominio coloniale britannico formulò la teoria del “satyagraha”, ovvero della “forza della verità”, “perseveranza nella verità” o resistenza non-violenta.

Secondo Gandhi la violenza è uno strumento che non dev’essere utilizzato in nessuna condizione, qualunque sia il suo fine, in quanto produce sofferenza, distruzione reciproca e, in ultima istanza, produce ulteriore violenza. In altri termini, la violenza alimenta violenza generando circostanze poco auspicabili e vantaggiose per nessuno.

Il Mahatma sosteneva che coloro che fanno uso dello strumento della violenza sono convinti che il fine giustifichi i mezzi, ammettendo dunque qualsiasi grado di sofferenza e distruzione pur di arrivare ad un dato obiettivo. Tuttavia, tale convincimento presuppone che utilizzando la violenza, colui che la ritiene opportuna sostenga, allo stesso tempo, di agire dalla parte del “giusto” secondo principi morali, etici o di altro tipo. Secondo Gandhi, tuttavia, nessuno possiede la completa verità, valori etici e morali sono concetti relativi e, pertanto, nessuno ha la facoltà di stabilire chi siano i “giusti” e chi gli “ingiusti” che debbano essere puniti.

Partendo dal presupposto che gli uomini siano tutti eguali e meritino il dovuto rispetto, la violenza collide con il concetto di razionalità mentre il satyagrahi (ovvero colui pratica la non-violenza) incoraggi e sia conforme al raziocinio. In altre parole, la violenza non è mai figlia della razionalità dell’individuo ma è figlia delle passioni.

Seppur rigetti la violenza, Gandhi non nega le possibilità di conflitto, inteso come ribellione alle ingiustizie subite. Il conflitto è dunque necessario laddove vi siano situazioni di dominio, ovvero circostanze in cui alcuni neghino l’autonomia e le libertà di altri, come nel caso dell’India sotto il dominio britannico. La ribellione però si struttura secondo metodi non-violenti e di mobilitazione di massa di individui guidati dal principio del satyagraha.

La non-violenza è anche più efficiente della violenza poiché sconfiggendo l’avversario con la violenza (ad esempio militarmente) non si elimina il germe del conflitto, poiché non converte il nemico. La rivolta non-violenta, invece, tende a convertire il nemico convincendolo che la sua azione e ideale sia quello giusto, eliminando così il germe del male.

Infine, la teoria della non-violenza di Gandhi, che può essere adottata da chiunque, presuppone però una qualità da parte dell’individuo: il coraggio. Questo perché l’azione non-violenta presuppone comunque dei rischi. Gandhi ritiene infatti che il coraggio sia l’unica via verso il cambiamento e coloro che non sono dotati di sufficiente coraggio, non abbiano gli strumenti per condurre una lotta non-violenta ed è pertanto meglio essere dalla parte dei violenti piuttosto che essere indifferente e incapace di ingaggiare un’azione non-violenta dinnanzi alle ingiustizie.

Estremizzando il suo ragionamento, Gandhi intendeva ribadire l’universalità dell’azione non-violenta, applicabile in qualsiasi circostanza.

La teoria della non-violenza gandhiana fu tuttavia criticata proprio per la sua inapplicabilità in alcune circostanze (ad esempio, gli ebrei sotto il regime nazista) e, secondo altri, per la condizione perpetua della violenza, come strumento ineliminabile.