di Andrea Bernabale

ARTICOLO 19


«Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.»


L’art. 19, insieme al successivo art. 20 Cost., afferma implicitamente il principio di laicità: ovvero, lo Stato garantisce a tutti, cittadini e stranieri, di professare la propria fede, qualunque essa sia, senza che una religione sia privilegiata rispetto alle altre. Ciò accadeva, invece, sotto il regime fascista, quando lo Stato era dichiaratamente cattolico (e, quindi, confessionale) e tollerante verso le diverse fedi.

Tuttavia, l’art.19 ha trovato piena applicazione solo dopo la firma del nuovo concordato del 1984, che ha stabilito l’uguale libertà di tutte le confessioni religiose.

Il principio di laicità è fondamentale negli Stati multietnici, dove sono presenti fratture di tipo religioso e dove convivono, più o meno pacificamente, etnie professanti religioni diverse. Risulta, comunque, un principio fondamentale a tutti gli Stati moderni, sia come espressione generale della libertà dell’individuo, sia per gli Stati stessi: le recenti migrazioni a livello globale - intese sia quelle per motivi umanitari sia economici - e la dimensione sempre più cosmopolita del cittadino, orientano sempre più le società verso un multiculturalismo che, a sua volta, è necessario essere accompagnato proprio dal principio di laicità implicitamente espresso dall’art.19 Cost., affinché sia garantito anche ai non cittadini il diritto di professare il proprio credo e quindi di favorire un’integrazione sociale pacifica.

In alcuni casi però l’esercizio di questo diritto ha generato molte polemiche, soprattutto quando ha dato vita a riunioni e manifestazioni che turbavano la vita quotidiana di molte persone: è stato il caso delle riunioni religiose della moschea di viale Jenner a Milano, salite alla ribalta della cronaca alcuni anni fa perché i fedeli musulmani occupavano i marciapiedi non trovando spazio nell’angusta moschea. In altre circostanze suscitano perplessità alcuni aspetti esteriori di religioni e culture giunte di recente in Italia, come il pugnale portato dai Sikh o il velo integrale di alcuni gruppi islamici. La problematicità di questi casi non è però legata alla mancanza di “buon costume”, ma a difficoltà di ordine pratico (gli spazi) o a incomprensioni culturali.

La dottrina ha spesso qualificato la libertà religiosa come un diritto soggettivo dell'individuo, di natura non esclusivamente pubblica (in quanto appartenente sia allo Stato che all'individuo) e non negativo (perché principi e diritti costituzionali non possono sostanziarsi in comportamenti omissivi dello Stato). Infine, libertà di religione significa anche il diritto ad essere atei.

Allo scopo di rendere effettiva la tutela del fenomeno religioso, la Costituzione riconosce la facoltà dei singoli e delle associazioni religiose di costituire enti a carattere ecclesiastico, a fine di religione o di culto. Si impedisce in tal modo al legislatore di introdurre trattamenti sfavorevoli o discriminatori a carico di alcuni enti religiosi rispetto ad altre associazioni che perseguano scopi diversi e di ricorrere ad un trattamento fiscale peggiorativo per alcune categorie.

Come altre libertà, anche quella religiosa incontra dei limiti e, in particolare, non limiti di ordine e sicurezza pubblica ma si fa riferimento a limiti legati al “buon costume”, ovvero un concetto che raffigura l’insieme dei principi etico-morali misurati sul sentire dell’uomo medio, o di quella che potremmo definire opinione pubblica comune. Si fa riferimento, quindi, a principi che non offendano il pudore, la pubblica decenza (art.527 c.p.), la sfera sessuale e, più in generale, la morale comune.