LE LEGGI ELETTORALI IN ITALIA


JURISLUCA MATTEI


IL SUFFRAGIO UNIVERSALE

Nella nostra epoca si tende a dare per scontata la possibilità di poter partecipare, sia attivamente che passivamente, all’elezione dei nostri governanti. Eppure questa possibilità è relativamente giovane, poiché legata alle lotte per la conquista del diritto di voto e realizzazione democratica del XIX e XX secolo.

Fino alla piena promozione del Suffragio Universale, il potere statale rimase, nei fatti, nelle mani di pochi. Mentre durante il Medioevo l’esercizio del potere era legittimato da considerazioni dinastiche o sovrannaturali, con la fine del XVIII secolo osserviamo l’emergere dei primi veri istituti democratici.

A spingere per il cambiamento fu soprattutto l’orrore dei grandi conflitti religiosi, prima fra tutti la Guerra dei Trent’anni, che diffuse nel popolo il bisogno di confrontarsi con un ordinamento statale laico e indipendente.

Fino ad allora, i sovrani quasi ignoravano gli interessi del popolo e ciò spinse quest’ultimo a voler partecipare alla gestione della cosa pubblica, erodendo gradualmente il potere assoluto regio, il quale veniva sempre più percepito come un arcaicismo irragionevole. Storicamente questo grande passaggio è testimoniato dai grandi cambiamenti costituzionali in Gran Bretagna durante la Dinastia degli Hannover (1714), ma ancora di più dagli eventi rivoluzionari, francesi e americani, di fine Settecento.

Ovviamente, la monarchia non accettava di buon grado il nuovo ordine sociale e questa opposizione porterà agli eventi della Restaurazione.

Ma oramai i tempi erano cambiati: la maggior parte delle monarchie furono costrette ad accettare il nuovo status-quo ponendo dei limiti al potere regio, il più delle volte previsti all’interno delle carte costituzionali. In questo periodo nacquero i primi parlamenti eletti dal popolo ed indipendenti dal re, quindi perseguenti l’interesse generale e non quello particolare del monarca.

Nel Regno di Sardegna questo passaggio avvenne con la concessione, da parte del re Carlo Alberto di Savoia, del c.d. Statuto Albertino (1848). All’interno di esso viene previsto un Parlamento bicamerale, composto da un Senato di nomina regia (art. 33) e una Camera dei Deputati di nomina elettiva (art. 39).

La Camera elettiva riuscì con il tempo ad ottenere buona autonomia dal potere del re, nonostante a quest’ultimo rimanessero ancora poteri consistenti: la nomina delle cariche pubbliche, la promulgazione e la sanzione delle leggi, il ruolo di capo dell’Esecutivo e la nomina stessa del Senato.

La Camera dei Deputati era composta in maggior parte dalla ricca borghesia, ceto sociale in forte ascesa in quell’epoca e quindi in grado d’imporre la propria influenza persino nei confronti del sovrano, sebbene formalmente gli fosse sottoposta.

Questo graduale sviluppo del parlamentarismo non deve trarre in inganno, basta poco per rendersi conto che siamo ancora molto lontani da una vera democrazia, in quanto solo una ristretta élite aveva diritto di votare o di essere votata per la Camera dei Deputati: disponevano del “diritto di voto solo i cittadini di sesso maschile di almeno 25 anni che sapessero leggere e scrivere, che godessero dei diritti civili e politici e che pagassero un censo di imposte dirette non inferiore alle 40 lire” mentre alcune categorie sociali come gli alti prelati e gli avvocati disponevano dei diritti elettorali a priori. In conclusione, la grande maggioranza della popolazione era ancora esclusa dalla vita politica e il Parlamento rimaneva sostanzialmente un’espressione dei privilegiati. Anche dopo l’Unità d’Italia la situazione non mutò: alle prime elezioni politiche partecipò solo l’1,89% della popolazione e ancora “vent’anni dopo, nel 1880, gli elettori furono soltanto il 2,2% della popolazione totale”.

In seguito all’organizzazione delle prime proteste operaie e all’impegno del Presidente del Consiglio, Agostino De Pretis, il 7 maggio 1882 fu varata una riforma elettorale, estendendo la base elettorale fino al 6,9% della popolazione, permettendo quindi anche ad alcuni esponenti del basso ceto di essere eletti alla Camera dei Deputati.

Già in queste prime esperienze democratiche è osservabile come le restrizioni di una legge elettorale possano piegare l’ordinamento costitutivo a vantaggio di un gruppo politico rispetto ad un altro. Solo per fare un esempio, i grandi esclusi dal voto erano gli analfabeti, presenti in maggioranza nel Sud della penisola italica, favorendo di conseguenza una presenza parlamentare del Nord Italia e alimentando le accuse che sostenevano che il Parlamento fosse espressione del Piemonte e non dell’Italia intera.

Sotto il profilo tecnico-elettorale, la legge del 1882 era una plurinominale maggioritaria: “essa sostituì i collegi uninominali previsti dalla norma precedentemente in vigore con collegi plurinominali che eleggevano da due a cinque deputati. Tale sistema, tuttavia, accrebbe l'instabilità del governo, cosicché nel 1891 la legge venne emendata ripristinando i collegi uninominali”, ossia un deputato per collegio elettorale. Queste riforme furono giudicate dalla popolazione insoddisfacenti, come testimoniato dalle frequenti proteste del basso ceto, fra di esse particolarmente nota è l’esperienza del movimento di massa dei “fasci siciliani” (1894).

Nonostante ciò, il suffragio universale maschile sarà introdotto solo nel 1912 dal governo Giolitti IV, portando la base elettorale dall’8% al 23%. In base ad esso, finalmente potevano votare tutti i cittadini di sesso maschile di qualsiasi ceto sociale, a patto di essere maggiori di anni trenta, mentre per i maggiori di anni ventuno rimanevano le vecchie restrizioni cetuali. La riforma elettorale ebbe degli effetti sconvolgenti nell’ordinamento costituzionale italiano, portando al potere i grandi partiti di massa come il Partito Socialista Italiano. Sebbene la legge del 1912 fu apostrofata come “Legge sul Suffragio Universale”, esso fu effettivamente raggiunto solo nel 1946, per l’elezione dell’Assemblea Costituente e nel Referendum costituzionale per la scelta tra monarchia o repubblica, quando i diritti elettorali furono estesi anche alle donne, cancellando qualsiasi riferimento censitario.


L’ETÀ GIOLITTIANA E IL FASCISMO


«La maledetta legge elettorale (fondata sul proporzionale anziché sul collegio uninominale) aveva frazionato la Camera in modo da rendere impossibile un governo omogeneo, forte, capace di avere e di attuare un programma. [..] Riuscirà il nuovo ordine di cose?»

(Giovanni Giolitti a Luigi Ambrosini dopo la formazione del governo Mussolini)


La “Belle Époque” (1901-1914) fu contrassegnata da un progressivo inasprimento tra le forze conservatrici e liberali al potere e i movimenti socialisti operai. In questo contesto di instabilità spiccava la figura di Giovanni Giolitti, Presidente del Consiglio per ben cinque volte e proveniente dalla corrente conservatrice, ma da sempre interessato ad inglobare i partiti socialisti all’interno del suo governo attraverso l’applicazione di un moderato riformismo sociale.

A causa di questa ambiguità, Giovanni Giolitti fu una persona influente, ma anche scomoda sia nell’ambiente liberale borghese che tra i movimenti operai, che continuavano a guardarlo come ad un “padrone”.

Ciò lo spinse, nel 1909, a cercare voti al di fuori della propria corrente politica, nello specifico interagendo con la comunità cattolica, rappresentata dall’Unione Elettorale Cattolica Italiana (UECI) di Vincenzo Ottorino Gentiloni.

Per comprendere appieno le conseguenze di questa alleanza è necessario fare un passo indietro: dopo l’Unità d’Italia, la Chiesa Cattolica Romana aveva più volte manifestato del malcontento verso le istituzioni italiane, fino a divenire apertamente ostile dopo la Presa di Roma (1870). Diversi pontefici, come Leone XIII, ma soprattutto Pio IX, indignati dalla perdita del proprio potere temporale, affermarono definitivamente l’antagonismo della Santa Sede verso il Regno d’Italia attraverso la disposizione papale del “non expedit”: il divieto, per i fedeli cattolici, di partecipare alla vita politica nazionale, elezioni incluse.

Agli albori del XX secolo questo principio era ancora valido, ma molti, fedeli e prelati, appartenenti alla Santa Chiesa Romana, cominciavano ad esserne insoddisfatti e spingevano per un’entrata in politica del mondo cattolico. A questo scopo, Papa Pio X stipulò un accordo con i liberali giolittiani. All’UECI (Unione Elettorale Cattolica Italiana) veniva concesso un potere molto invasivo sulla scelta dei deputati, i quali dovevano essere in linea con i principi della Chiesa Romana. In cambio, i liberali di Giolitti ottennero i voti del mondo cattolico.

A partire dalle elezioni del 1909, Papa Pio X alleggerì il “non expedit”, appoggiando il partito conservatore di Giolitti e, il connubio tra cattolici e conservatori - in termini di numero di seggi in Parlamento ottenuti - sembrò dare i suoi frutti; in realtà questa non era che una mera apparenza.

Oramai la situazione sociale era insostenibile e una mediazione tra i “padroni” e i movimenti operai non era più un’opzione praticabile.

La Prima Guerra Mondiale non fece che acuire la tensione sociale: la frustrazione della popolazione per una guerra da molti esplicitamente non voluta, la rabbia di chi riteneva che l’Italia non avesse ricevuto un compenso adeguato per il proprio intervento militare, l’enorme prezzo pagato in vite umane e l’ingente costo economico confluirono nei disordini del c.d. “biennio rosso” (1919 – 1920) e “costituirono il terreno di coltura per la diffusione di un clima antidemocratico ed anti-parlamentare; presupposti, questi, che apriranno la strada, di lì a poco, al ventennio di dittatura fascista.

A seguito del 1919 venne varata una riforma elettorale di tipo proporzionale, secondo la quale potevano votare tutti i cittadini di sesso maschile che avessero compiuto 21 anni, conferendo ancora più potere ai grandi partiti, ma ebbe anche la grave controindicazione di aumentare i già pesanti problemi di governabilità a causa della frammentazione dell’Assemblea.

La crisi di governo divenne manifesta e molti auspicavano per una figura nuova e credibile, capace di farsi carico dei problemi del paese, in primis, dei partiti socialisti, che “volevano fare come in Russia”, dove nel 1917 c’era stata la rivoluzione bolscevica. Questa evenienza era particolarmente sgradita ai partiti monarchici e conservatori al governo, fra i quali continuava a figurare lo stesso Giolitti. A causa del veto di don Luigi Sturzo, leader del Partito Popolare Italiano, ad un nuovo governo Giolitti, il fronte cattolico-liberale decise di rivolgersi al nascente movimento fascista guidato da Benito Mussolini per contrastare la “minaccia rossa”.

Costoro, fra i quali spiccava la figura del filo-giolittiano Luigi Facta, si illusero di riuscire a controllare e parlamentarizzare lo squadrismo dei fascisti. “L’esito fu, come noto, quello, non già di una normalizzazione del fascismo, bensì la completa fascistizzazione delle istituzioni”. La situazione raggiunse il suo culmine con la famosa Marcia su Roma di fine aprile del 1922, quando il re Vittorio Emanuele III nominò Benito Mussolini come Presidente del Consiglio.

Così, in un clima intimidatorio e tra le critiche di diversi esponenti socialisti, Mussolini varò la legge elettorale del 18 novembre 1923, la n. 2444, detta anche “Legge Acerbo”, dal nome del deputato fascista Giacomo Acerbo, che ne stilò il testo con la forte approvazione di Giolitti.

In questa normativa veniva assegnato un premio di maggioranza dei due terzi del Parlamento a chi raggiungesse il 25% dei voti, mentre per la restante assegnazione dei seggi continuava ad essere valido il sistema proporzionale. Alle successive elezioni del 1924, tuttavia, il Partito Nazionale Fascista non figurava ancora come una forza politica indipendente, dovendosi alleare nella Lista Nazionale con altri politici conservatori e cattolici per contrastare l’evenienza di una vittoria dei socialisti.

Nonostante nella coalizione la presenza dei fascisti fosse eminente (227 deputati su 543 totali) fu nei solamente nei mesi successivi che Mussolini riuscì a trasformare il suo governo in un vero regime autoritario, soprattutto a partire dalle celebri “Leggi Fascistissime” degli anni ‘20, infrangendo definitivamente le speranze dei conservatori, Giolitti in primis, per una “normalizzazione del fascismo”, in particolar modo dopo la formazione della lista unica nazionale fascista e la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del Fascismo. Questo procedimento di “esautorazione del Parlamento” divenne completo solo con la legge del 19 gennaio 1939 n. 129, che provvide a sostituire la Camera dei Deputati con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, priva di qualsiasi connotato rappresentativo.


L’ETÀ DELLA COSTITUENTE


Durante il Ventennio fascista si assistette ad un progressivo rafforzamento del Governo rispetto al Parlamento, fino ad arrivare al completo esautoramento di quest’ultimo con la legge del 19 gennaio 1939 / n.129.

Da questo preciso avvenimento storico lo Stato italiano perse qualsiasi caratteristica di rappresentatività democratica: la Camera dei Deputati fu sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, organo istituzionale “del tutto privo di autonomia politica, con funzioni meramente consultive e sottomesso alla volontà politica e normativa del governo”.

Non sussisteva nessun legame elettorale tra il popolo e la Camera dei Fasci, in quanto quest’ultima era nominata dalla classe dirigente fascista. “Fu così che si realizzò il definitivo annullamento del potere parlamentare, spazzando via quanto di liberale, democratico e rappresentativo ancora esprimevano le deboli istituzioni dei primi anni del Novecento”.

L’esperienza istituzionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni ebbe, comunque, vita breve. Con il regio decreto n. 705 del 2 agosto 1943 essa venne sciolta “ripristinando gli istituti e le procedure di stampo liberal-democratico”.

Il quadro politico venne ricomposto con il Patto di Salerno, del 12 aprile 1944, dove gli esponenti del fronte comunista, filo-sovietici, vennero a patti con la classe borghese italiana e la monarchia, istituendo una momentanea “tregua istituzionale” in nome dell’opposizione al regime fascista. Prima ancora della definitiva sconfitta di Mussolini, fu emanato il decreto legislativo n.151 del 25 giugno del 1944, “in base al quale fu stabilito di convocare un’assemblea costituente eletta a suffragio universale che avrebbe provveduto, sia alla stesura delle nuova Costituzione, sia a scegliere la forma istituzionale del nuovo Stato”.

Con decreto legislativo luogotenenziale del 2 febbraio 1945, n. 23. anche le donne furono ammesse alle elezioni, per la prima volta nella storia italiana. Il tutto grazie alla concorde, seppur per motivazioni differenti, sponsorizzazione di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi e all’appassionata opera politica dei comitati femministi, fra i quali spicca il “Comitato Pro Voto”.

L’anno seguente fu emanato anche il decreto legislativo luogotenenziale n.74 del 10 marzo 1946, con il quale si stabiliva che la consultazione politica nazionale per l’elezione dell’Assemblea Costituente e sulla scelta tra la forma di governo repubblicana o monarchica sarebbe avvenuta sulla base di un sistema proporzionale, fondato su collegi plurinominali a liste concorrenti.

Com’è noto, il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 stabilì l’abolizione dell’istituto monarchico, ma questo creò alcune problematiche in seno all’Assemblea Costituente, che nel frattempo si accingeva a redigere la Costituzione.

Ci si rese conto immediatamente che, data la grande varietà delle forze politiche in gioco, il sistema elettorale da adottare nel futuro non poteva che continuare ad essere quello proporzionale.

Il sistema maggioritario avrebbe escluso dall’attività parlamentare ampi schieramenti politici e peraltro era noto che un sistema del genere funzionasse meglio con sistemi presidenziali, sul modello americano.

Tuttavia, a causa del regime fascista, da poco debellato, l’Assemblea Costituente non riteneva fosse il caso di creare un ordinamento imperniato sull’esecutivo, come avvenne nell’esperienza fascista, preferendo dare maggiore spazio al Parlamento e ai partiti politici. Sul finire dei suoi lavori si affrontò anche il tema della costituzionalizzazione della legge elettorale, su proposta del grande giurista Democristiano Costantino Mortati. Tale proposta non venne però accolta, poiché emerse in seno all’Assemblea la volontà di non irrigidire la legge elettorale e di lasciarla alla libera disposizione del legislatore ordinario. Ad ogni caso, è popolare la controversia che vede presupposto nella Costituzione Italiana il sistema elettorale proporzionale. A ben vedere, diversi meccanismi nella nostra Costituzione, come l’elezione del Presidente della Repubblica, prevedono l’utilizzo di accordi e coalizioni parlamentari, elementi tipici di un Parlamento eletto su base proporzionale. Ad oggi questa posizione dottrinaria non è, tuttavia, maggioritaria.

Quando terminarono i lavori dell’Assemblea e venne promulgata la Costituzione Italiana c’erano solo vaghe indicazioni che indicavano esplicitamente nel dettato costituzionale la disciplina per le leggi elettorali della Camera dei Deputati e della Camera del Senato. Per quest’ultima, la decisione era particolarmente critica, poiché non c’erano precedenti leggi elettorali a cui rifarsi, dato che fino ad allora il Senato era stato composto secondo nomina regia.

Per la Camera dei Deputati, fu deciso di adottare la stessa normativa elettorale proporzionale che era stata utilizzata per l’elezione dell’Assemblea Costituente, con la legge del 20 gennaio 1948. Per la Camera del Senato, invece, si discusse se l’elezione dovesse avvenire su base regionale, come avveniva usualmente nei sistemi bicamerali federali, come una sorta di Camera delle Regioni.

Questa proposta non venne accettata e ne rimase solo un flebile eco: la successiva legge elettorale per il “Senato della Repubblica” n.29 del 6 febbraio 1948, si basava, infatti, su collegi uninominali regionali e su meccanismi maggioritari. Questi meccanismi , tuttavia, si rivelarono fin dall’inizio solo apparentemente maggioritari. Sebbene in Assemblea Costituente nel c.d. “ordine del giorno Nitti” si era affermata la volontà di una legge elettorale maggioritaria al Senato, “la stessa Assemblea, smessi i panni di legislatore costituente e assunti i panni di legislatore costituito” prescelse un meccanismo elettorale solo apparentemente maggioritario, ma in realtà proporzionale. Fu, infatti, stabilita una soglia di attribuzione del seggio molto elevata, del 65%, “da essere praticamente irraggiungibile”. In mancanza del raggiungimento della soglia, tornava ad essere valida la ripartizione dei voti proporzionale, come avveniva per la Camera dei Deputati. Fu, quindi, il sistema proporzionale ad emergere dai lavori dell’Assemblea Costituente, seppure con alcune differenze sostanziali, per entrambe le Camere della neo-nascente Repubblica Italiana.


DALLA PRIMA ALLA SECONDA REPUBBLICA


«Non si dimentichi mai che si è eletti per operare; e non si opera per essere eletti. La confusione dei fini risulterebbe nefasta».

(Giulio Andreotti)

Nei sistemi politici democratici si denotano, generalmente, tre moduli elettorali: il sistema maggioritario, quello proporzionale e il sistema misto, che opera una sintesi delle due formule precedenti. La scelta per un sistema elettorale o un altro è riflessa dell’attuale rapporto istituzionale tra i poteri dello Stato e i singoli cittadini, ma allo stesso tempo è anche elemento attivo, perché la legge elettorale può far mutare drasticamente le sembianze al proprio ordinamento. Ad esempio, negli Stati Uniti si utilizza un sistema elettorale di stampo maggioritario bipolare, basato su esecutivi forti e sulla dialettica fra due soli partiti, Repubblicani e Democratici.

Un sistema del genere funziona bene in nazioni come gli Stati Uniti, poichè paese relativamente coeso dal punto di vista ideologico. Altrettanto non si può dire della Repubblica Italiana, la quale fin dalla sua costituzione registra un’altissima frammentazione interna e quindi impossibilitata a creare un sistema basato su due soli partiti.

Già in seno all’Assemblea Costituente, ogni schieramento politico, non conoscendo ancora il suo peso elettorale, temeva di essere sopraffatto in caso di sconfitta alle future elezioni nazionali e, pertanto, il primo sistema elettorale della Repubblica Italiana adottato fu quello proporzionale. Quest’ultimo ha il grande pregio di riuscire a rappresentare fedelmente anche realtà politiche divise ma, al tempo stesso, in caso di eccessivi contrasti fra i partiti, può portare all’ingovernabilità e ad esecutivi deboli.

Il leader Democristiano Alcide De Gasperi, non reputando il sistema proporzionale “puro” adeguato alla Camera dei Deputati, provò quasi immediatamente a spingere per un suo temperamento con la Legge n. 148 del 31 marzo 1953, bollata in seguito dall’opposizione come “legge truffa”.

In conformità a questa normativa era assegnato un premio di maggioranza pari al 65% dei seggi disponibili alla Camera dei Deputati allo schieramento politico che avesse superato la metà dei voti validi. Tuttavia, probabilmente anche a causa delle modalità forzose e aggressive con la quale il governo pose la fiducia sulla novità elettorale, alle nuove elezioni tenutesi il 3 giugno del medesimo anno, la Democrazia Cristiana registrò un netto calo dei propri consensi e il premio di maggioranza non scattò. Con grande soddisfazione dell’opposizione, il meccanismo del premio di maggioranza venne abrogato l’anno seguente, con la legge n. 615 del 31 luglio 1954.

A seguito della vicenda, per tutta la Prima Repubblica il sistema proporzionale si pose come inevitabile normativa elettorale, rafforzando il ruolo delle assemblee elettive nei confronti dell’Esecutivo. I partiti si affermarono come i veri detentori delle redini dello Stato; conseguentemente la politica del periodo si caratterizza la c.d. “democrazia compromissoria” o “consociativa”, ossia del continuo accordo in seno alla Camera dei Deputati tra maggioranze e opposizioni. Anche al Senato il ragionamento era altrettanto valido, giacché vigeva un sistema solo apparentemente maggioritario: fintanto che uno schieramento non avesse ottenuto l’irraggiungibile risultato elettorale del 65% (circostanza mai avvenuta), la ripartizione dei voti avveniva su base proporzionale.

In questo periodo manca anche, quasi completamente, una normativa sulla “par condicio” fra i diversi partiti politici. Quest’ultimi, coerentemente con il loro essere veri “domini” della politica italiana, preferivano rimettere la disciplina ai rapporti di forza fra i diversi schieramenti, privilegiando le fazioni più forti economicamente e in grado di imbastire grandi campagne elettorali, con grande nocumento per i partiti minori. Questo sistema rimarrà pressoché immutato per quasi quattro decenni, fino ai due referendum elettorali del 1991 e del 1993, che aboliranno il voto plurimo alla Camera e la soglia che impediva al meccanismo maggioritario del Senato di operare. La stagione referendaria e gli scandali di “Mani Pulite” che da lì a poco “decapiteranno” parte della classe dirigenziale italiana forniranno la spinta per un definitivo superamento del sistema compromissorio proporzionale e l’adozione di un sistema uninominale maggioritario (in realtà misto) con le Leggi elettorali n. 276 e 277 del 4 agosto 1993, detto anche “Mattarellum”.

La disciplina si basava sulla ripartizione maggioritaria del 75% dei seggi. Alla Camera, il rimanente 25% veniva ripartito su base proporzionale, mentre al Senato attraverso un meccanismo di recupero degli schieramenti meno rappresentati nella quota maggioritaria attraverso il cosiddetto “scorporo”. Quest’ultimo meccanismo, volto a dare rappresentanza anche alle liste della minoranza, sarà successivamente aggirato tramite l’istituzione di apposite “liste civetta” da parte della coalizione di centro-destra.

La logica del “Mattarellum” era quella di promuovere l’istituzione di un sistema bipolare, basato sull’alternanza al governo tra maggioranza e opposizione, riequilibrando i rapporti tra Parlamento ed esecutivo, in precedenza completamente sbilanciati in favore del primo. L’idea era che per raggiungere le alte soglie dei collegi uninominali, i partiti avrebbero dovuto allearsi e indicare un leader dell’intera coalizione, favorendo logiche di tipo bipartitico. Nello stesso anno venne varata anche la prima disciplina organica sulla “par condicio” volta a garantire un’appropriata visibilità a tutti i partiti politici con la legge n. 515 del 10 dicembre 1993, poi ulteriormente aggiornata con la legge n. 28 del 22 febbraio 2000. Questo sistema maggioritario, con correttivi proporzionali, rimarrà in vigore fino alla legge n. 270 del 21 dicembre 2005, detta anche Legge Calderoli o “Porcellum”, la quale reintrodurrà nuovamente un sistema elettorale proporzionale, ma con dei correttivi del sistema maggioritario.


LA SECONDA REPUBBLICA

“In passato il dittatore rovesciava la democrazia, il passaggio all'autocrazia era manifesto, rivoluzionario. Oggi questo processo avviene senza alcuna rivoluzione, senza neppure bisogno di riforme.”

Giovanni Sartori

Nella Prima Repubblica ancora si sentiva molto forte la scelta dei padri costituenti riguardo un sistema elettorale di tipo proporzionale. Tuttavia, a partire dai primi anni ’90, si percepisce con sempre maggiore insofferenza la debolezza dell’Esecutivo nei confronti del Legislatore con possibili crisi di ingovernabilità. Questa situazione porterà all’instaurazione di un nuovo sistema elettorale, questa volta maggioritario - anche se con dei temperamenti di tipo proporzionale – la c.d Legge Mattarella, dal nome del suo relatore Sergio Mattarella, o “Mattarellum”, secondo un’espressione latinicizzante del celebre politologo e accademico Giovanni Sartori; una modalità terminologica talmente influente che verrà ripresa anche per tutte le leggi elettorali successive.

L’obiettivo di questa novella legislativa era quello di compattare le frammentate compagini politiche italiane in due schieramenti, favorendo logiche di tipo bipolare, sul modello anglosassone, con conseguente rafforzamento dell’esecutivo. Questo nuovo meccanismo rimarrà in auge fino al 2005, durante un delicato momento di tensione politica tra il centrodestra, che vedeva il suo leader in Silvio Berlusconi e il centro-sinistra, guidato da Romano Prodi.

In questo momento storico sono sempre più pressanti le critiche nazionali e internazionali al Presidente del Consiglio Berlusconi; conseguentemente, il centro-destra corre ai ripari e riesce a far approvare, con legge n. 270 del 21 dicembre 2005, detta Legge Calderoli o “Porcellum”, una riforma alla disciplina elettorale di tipo proporzionale con bonus di maggioranza.

In particolare, è previsto tale bonus senza una soglia minima, mentre sono altresì previste delle soglie di sbarramento per evitare la dispersione del consenso popolare e le liste bloccate, ossia senza voto di preferenza al singolo candidato da parte dell’elettore. Il seguente governo di centro-sinistra verrà fortemente destabilizzato da questo repentino cambio di disciplina e cadrà poco dopo nel 2008.

Da questo momento, diviene chiaro a tutti quanto la legge elettorale possa influenzare la stabilità dei rapporti istituzionali e la forza del potere Esecutivo; non c’è quindi da stupirsi nel constatare che negli ultimi decenni, diversamente dalla Prima Repubblica - caratterizzata più o meno stabilmente da un sistema proporzionale per più di quarant’anni - la legge elettorale viene posta al centro del dibattito politico, avvicinandosi maggiormente ad uno strumento di prevaricazione politica che di meccanismo di raccolta del consenso popolare. Dati i recenti sviluppi diviene, forse, criticabile secondo alcuni autori, la decisione di non definire la materia elettorale a livello costituzionale, ma concedendogli solamente la riserva d’assemblea ex Art. 72 Comma 4, riserva che, peraltro, ha avuto poco spazio operativo, stante la giurisprudenza costituzionale.

Proprio la Corte Costituzionale avrà modo di esprimere, anni dopo, numerose perplessità sulla legittimità del “Porcellum”, fino ad arrivare alla dichiarazione del 4 dicembre 2013. Nella motivazione, successivamente depositata nella Sent. 1/2014, si esplica la scelta del collegio giudicante nel ritenere il premio di maggioranza assegnato senza alcuna soglia e il rigido sistema di liste bloccate (che rafforza il potere dei partiti ma diminuisce la rappresentatività dei votati) contrari alla Costituzione Italiana.

Da qui nasce la spinosa questione sulla legittimità del Parlamento all’epoca operante, eletto tramite un meccanismo evidentemente incostituzionale. Molti partiti, in primis il Movimento Cinque Stelle, reclamarono manifestando l’intenzione di andare subito alle urne con il vecchio “Mattarellum”. Tuttavia, la situazione venne moderata dalla Corte Costituzionale stessa che, nella sua stessa dichiarazione del 2013, reputa il Parlamento idoneo a varare nuove leggi elettorali, quindi legittimato, in ossequio al principio di continuità istituzionale.

Nonostante il permanere di alcune critiche, la Sentenza della Corte Costituzionale riscrive di fatto il “Porcellum”, facendolo diventare un proporzionale puro. Successivamente, nel 2015, promossa dal Partito Democratico di Matteo Renzi e da Forza Italia di Silvio Berlusconi, viene approvata una nuova disciplina elettorale alla Camera dei Deputati, con la legge 6 maggio 2015, n. 52, denominata altrimenti “Italicum”. In essa era previsto un doppio turno, un premio di maggioranza e cento collegi plurinominali con lista bloccata, con possibilità per il candidato di partecipare fino ad undici collegi elettorali, mentre al Senato continua ad essere valido il ”Porcellum bis”, limato dalla Corte Costituzionale.

Quest’ultima nel gennaio del 2017 dichiara incostituzionale, in parte, anche la nuova legge elettorale della Camera. In particolare viene caducato il doppio turno e vengono posti dei correttivi alla soglia del premio di maggioranza e sulle modalità di costituzione delle liste bloccate. La derivante nuova disciplina elettorale verrà denominata dal Movimento Cinque Stelle come “Legalicum”.

Nel frattempo assistiamo ad un variegato ed eterogeneo numero di progetti e proposte legislative elettorali, a testimonianza di come il sistema elettorale sia percepito sempre meno come un elemento neutro del sistema. Vale la pena nominare lo “Speranzellum” dei Dem, il “Verdinellum” di Ala e il “Democratellum” del Movimento Cinque Stelle.

Sebbene rivisto, l’”Italicum” non verrà mai utilizzato, in quanto con legge 3 novembre, n. 165 del 2017 verrà varato il “Rosatellum bis”, dal nome del suo relatore, Ettore Rosato e “bis”, perché lo stesso Rosato era stato relatore di una differente legge elettorale, mai varata a causa dello scarso sostegno Parlamentare che la riteneva eccessivamente maggioritaria.

Questo nuovo “Rosatellum” è un sistema elettorale misto: il 37% dei parlamentari è eletto con impianto maggioritario uninominale a turno unico, detto anche “secco” mentre il restante 63% è eletto con un sistema proporzionale su base nazionale alla Camera e regionale al Senato, con soglia di sbarramento di base al 3% per entrambi i rami parlamentari.

Attualmente, le travagliate vicende che hanno legato le leggi elettorali alle vicende politiche stanno inducendo la dottrina ad un’ampia riflessione sull’effettivo legame dei sistemi elettorali con la forma di governo parlamentare.

LETTURE ED APPROFONDIMENTI:

-Enzo Cheli, Forma di governo e legge elettorale, il Mulino, 2014.

-Franco Modugno, “Diritto Pubblico”, Giappichelli (2017).