di Luca Mattei

LA NORMATIVA ITALIANA IN TEMA DI SOSTANZE STUPEFACENTI


Il 9 ottobre del 1990 veniva promulgato il D.P.R. n. 309, contenente il Testo Unico in materia di disciplina degli stupefacenti, prevenzione e riabilitazione dai relativi stati di tossicodipendenza, detta anche legge “Iervolino-Vassalli”, dal cognome dei loro relatori. Con questo vasto dettato normativo si acuiva il durissimo scontro fra Stato e narcotraffico, già aperto anni prima con l’emanazione di alcune leggi regionali, come la Legge Regionale della Regione Lombardia n.51 del 1988.

Il tema infiammò velocemente l’opinione pubblica: il confronto si caratterizzò fin da subito da grandi polemiche, oscillazioni sociali e mutamenti giurisprudenziali. Infatti, solo pochi anni dopo l’approvazione del Testo Unico, un referendum abrogativo promosso dal Partito Radicale, inserendosi nelle grandi contestazioni di inizio anni ’90 contro la Prima Repubblica, sanciva che il semplice consumatore di sostanze stupefacente non potesse essere punito con la pena del carcere. Parallelamente, la Corte Costituzionale con una Sentenza del 1991, precisava che possedere un quantitativo di sostanza stupefacente leggermente superiore alla “dose media giornaliera” non bastasse per integrare il reato di spaccio.

Sebbene alcuni la definirono come una legge “liberticida”, la “Iervolino-Vassalli” conteneva meccanismi abbastanza moderati. All’interno vi era contenuta la distinzione tra “droga leggera” e “droga pesante”, individuate successivamente in base a delle tabelle emesse dal Ministero della Salute. Di conseguenza anche il trattamento sanzionatorio era diversificato: dagli 8 ai 20 anni di carcere per produzione e spaccio di “droghe pesanti”, mentre una reclusione dai 2 ai 6 anni, più una multa, nel caso di “droghe leggere”. All’art. 75 del T.U. possiamo osservare come l’uso personale della droga fosse soggetto nel peggiore dei casi solo a sanzioni di tipo amministrativo (come il ritiro della patente) e da programmi di recupero, nell’ottica che il semplice consumatore non fosse un criminale, ma un “malato” e, quindi, da curare della sua dipendenza. In questi casi il Prefetto, di concerto con il Servizio Pubblico per le Tossicodipendenze (o “Ser.T.”) poteva predisporre un piano terapeutico per il soggetto.

L’articolo 73 del T.U. prevedeva, invece, lapidariamente fino a 20 anni di reclusione per chi “coltiva, fabbrica, estrae, raffina, offre o mette in vendita, cede o riceve a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene sostanze stupefacenti o psicotrope”.

Quindi, in teoria, chiunque coltivi piante dalle quali si può estrarre principi attivi e sostanze stupefacenti, a prescindere dal quantitativo, non rientra nella ipotesi del semplice consumatore, ma nella più dura ipotesi dello spaccio.

Il cambio di rotta avviene durante gli ultimi mesi del Governo Berlusconi III: la normativa previgente veniva incisa dalla Legge n. 49 del 21 febbraio del 2006, detta “Fini-Giovanardi”, poiché fortemente supportata dai ministri Gianfranco Fini e Carlo Giovanardi. Tale legge mutava drasticamente il quadro legislativo in tema di traffico di stupefacenti: cadeva la distinzione tra “droga leggera” e “droga pesante”, accomunandole nella stessa tabella. Cambiava anche il trattamento sanzionatorio, prevedendo da 6 a 20 anni di galera per le ipotesi di spaccio e fissando delle soglie massime di principio attivo, oltre le quali non era configurabile l’ipotesi di uso personale (per fare un esempio, 500 milligrammi di principio attivo per la cannabis).

La “Fini-Giovanardi” è stata ampiamente criticata per la sua asprezza, ma anche per delle problematiche eminentemente pratiche. Ad esempio, molti studi hanno suggerito che l’eccessiva rigidità della normativa in questione avesse causato il sovraffollamento delle patrie galere.

A cambiare nuovamente le carte in tavola, tuttavia, non sono queste criticità, bensì un vizio formale. La Corte Costituzionale nel 2014, con la Sentenza n. 32, ha tacciato di incostituzionalità la legge “Fini-Giovanardi”, poiché accorpata nella legge di conversione del Decreto Legge del 30 dicembre 2005, n. 272, che si occupava del finanziamento delle Olimpiadi Invernali di Torino 2006. La Corte Costituzionale, rilevando come la “Fini-Giovanardi” fosse stata rocambolescamente inserita all’interno di una legge di conversione dal contenuto completamente diverso, non ha potuto che decretarne l’illegittimità.

Immediate le reazioni degli addetti ai lavori e del mondo politico. Sandro Gozi, vicepresidente dell'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha affermato: "Anche se per ragioni formali, dalla Consulta è arrivata la bellissima notizia della bocciatura della legge Fini-Giovanardi: una normativa adottata non solo attraverso le forzature nelle procedure ma, soprattutto, a scapito del comune buon senso".

Grande è invece la scontento da parte di alcune personalità di centro-destra, come Maurizio Gasparri, allora vicepresidente al Senato, e lo stesso Carlo Giovanardi.

Riemerge la disciplina della “Iervolino-Vassalli”, anche se con alcuni necessari aggiornamenti contenuti nel decreto legge n. 36 del 2014, c.d. Decreto Lorenzin. Due novità particolarmente importanti sono: la tabellazione delle nuove droghe emerse dal traffico di stupefacenti; mentre al comma 5 dell’art. 73 viene inserita la forma di reato autonoma di spaccio di lieve entità, calibrata alle ipotesi di spaccio meno allarmanti.

La situazione va incontro all’ennesimo drastico mutamento il 2 dicembre 2016, quando in ottemperanza alla Direttiva Europea 2002/53/CE del 13 giugno 2002 del Consiglio Europeo viene promulgata la legge n. 241 che consente la coltivazione di alcune tipologie di canapa per fini alimentare, di cosmesi, di bioedilizia e per la bonifica di siti inquinati.

L’equivocità di tale legge crea una zona grigia nel tessuto normativo in tema di sostanze stupefacenti, facendo emergere una serie di iniziative private volte alla commercializzazione della c.d. cannabis light: sostanza dal contenuto di principio attivo inferiore allo 0.6%. Sulle questione sta ancora dibattendo animosamente la Cassazione Penale (in linea di massima, parte dell’indirizzo giurisprudenziale spinge per l’illiceità della commercializzazione della cannabis light; un secondo indirizzo fissa la soglia massima di principio attivo a 0.6%; mentre un indirizzo minoritario perora per una soglia più bassa, stimabile allo 0.2%), fino ad approdare alla recentissima Cassazione Penale, Sentenza a Sezioni Unite, n. 30475/2019, che ambiguamente sancisce l’esclusione della commercializzazione di qualsiasi sostanza con “efficacia drogante”. Di fatto, in maniera pilatesca, delegando ai tribunali di merito la decisione sulla qualificazione come sostanza stupefacente della c.d. cannabis light.