La Convenzione di Ginevra (1951)

GIACOMO TOMMASI

LA CONVENZIONE DI GINEVRA (1951)

LO STATUS DI RIFUGIATO

Nel secondo dopoguerra, in seguito alle tristi vicende verificatesi nella prima metà del secolo – quali l’esodo trentino durante la Grande guerra, il genocidio degli armeni, i “rifugiati bianchi” in fuga dalla Russia bolscevica, i milioni di vittime del nazifascismo – la comunità internazionale avvertì la necessità di redigere una convenzione che potesse affermare definitivamente il diritto degli individui ad essere protetti da guerre e persecuzioni.

Nel 1948 le neonate Nazioni Unite promossero la stesura di una Dichiarazione universale dei diritti umani, firmata a Parigi il 10 dicembre '48 e condivisa da tutti i membri dell'organizzazione – seppur ritenuta non vincolante dai paesi non democratici – ha segnato un passo fondamentale per sancire l'universalità dei diritti individuali e la sua applicazione nella giurisprudenza internazionale. Tre anni più tardi i rappresentanti dei paesi ONU si incontrarono a Ginevra per discutere l'art. 14 della Dichiarazione universale, riguardante lo status di rifugiato, per stabilire chi e come ne avesse diritto e quali fossero le responsabilità degli stati. Entrambi i documenti portarono ad una svolta epocale ed è grazie a questi primi fondamentali passi se si è potuto dare vita ad un sistema pressoché globale di tutela dei diritti umani, limitando la discrezionalità dei singoli paesi riguardo il trattamento degli stranieri. Questo tema in particolare è stato oggetto di nuovi accordi, volti a precisarne le sfumature eliminando le clausole temporali, nel 1967.

Firmata da 144 contraenti, la Convenzione si è occupata di disciplinare quelli che sono i diritti dei migranti e nello stesso tempo i doveri degli Stati verso di essi, da un lato definendo tassativamente chi può considerarsi espressamente “rifugiato” e affermando l’innocenza di quei rifugiati che entrano illegalmente in un altro Stato per sfuggire da un Paese in cui la loro vita sarebbe fortemente a rischio, dall’altro stabilendo appunto gli obblighi che ogni Stato ha verso queste persone, ribadendo il divieto di respingimento o di rimpatrio forzoso in un Paese nel quale finirebbero per trovarsi esposti a persecuzioni di varia natura. Oggi questo divieto è considerato una norma di diritto consuetudinario internazionale.

Vi è inoltre per gli Stati Parti un obbligo di cooperazione con l’UNHCR (o, se utilizziamo la sigla in italiano, l’ACNUR, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), creato nel 1950 tramite risoluzione delle Nazioni Unite, come organo sussidiario di natura non politica, bensì umanitaria e sociale, dell’Assemblea Generale, e che dal 2003 si è visto attribuire un mandato permanente in materia. L’UNHCR ricopre pertanto de facto il ruolo di organo di controllo della Convenzione di Ginevra, sorvegliando sulla sua effettiva applicazione, nonostante non abbia la competenza di adottare atti con portata giuridica obbligatoria.

Tuttavia l’apporto maggiormente significativo che la Convenzione ha offerto in materia si può identificare proprio all’articolo 1A(2) del trattato in esame, dove, attraverso la cd. “clausola di inclusione”, vengono definiti i requisiti, le condizioni che un soggetto deve possedere o alle quali deve essere sottoposto, per poter beneficiare dello status di “rifugiato”.

Viene pertanto definito “rifugiato” dalla Convenzione stessa “chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.”

La riserva temporale (“avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951”) è stata eliminata nei confronti degli Stati che hanno ratificato anche il Protocollo di New York del 1967.

Analizzando ulteriormente quelli che sono i principi cardine affermati dalla Convenzione di Ginevra, alla base di tutto il sistema ben più articolato di protezione dei migranti, non si può non citare il principio di non-refoulement, sancito espressamente dall’articolo 33 del documento.

L’articolo in questione, al paragrafo 1, afferma che:

“Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.”

Affinché questo principio possa trovare reale applicazione, non è in alcun modo rilevante il fatto che al richiedente asilo sia stato già concesso o meno lo status di rifugiato e neanche il fatto che sia entrato sul territorio del Paese ospitante in modo legale o meno, dal momento che il divieto di respingimento si applica a prescindere, come elemento ineludibile nella tutela dei diritti del migrante. Ciò non significa né che tutti gli individui abbiano diritto all’applicazione di questo principio nei propri confronti, né tantomeno che da questo principio debba discendere un qualche tipo di obbligo in capo allo Stato di garantire accoglienza a chi ne faccia richiesta, o di riconoscere automaticamente lo status di rifugiato a chi sostenga di possederne i requisiti. Ciò che è obbligatorio per gli Stati Parte è innanzitutto, proprio in virtù del principio sopra citato, il permesso di ingresso sul proprio territorio al richiedente asilo che si trovi alla frontiera, e in seguito la predisposizione nell’ordinamento interno di procedure adeguate e effettive per la presentazione individuale e l’esame di ogni singola domanda d’asilo, solo in seguito alla quale, potrà eventualmente essere riconosciuta o meno una qualche protezione ma soltanto in base al caso specifico e alle motivazioni esposte.