Il processo di Francoforte

LUCA MATTEI

IL PROCESSO DI FRANCOFORTE (1963-1965)

La Seconda Guerra Mondiale è stata sotto molti punti di vista un punto cruciale per il diritto internazionale. In ossequio al principio della gerarchia militare, all’epoca era consuetudine ritenere responsabile della commissione di eventuali crimini di guerra solo l’organo esecutivo, deresponsabilizzando conseguentemente i gerarchi intermedi e gli esecutori materiali da ogni responsabilità, anche in caso di commissione di fatti atroci.

Con l’inizio del XX sec. si fece lentamente strada l’idea che questo principio dovesse cambiare. Questa corrente di pensiero venne definitivamente accettata solo verso la fine del secondo conflitto mondiale, durante il quale vennero utilizzati mezzi di distruzione così catastrofici che quelle che prima erano solo astrazioni teoriche divennero un problema attuale. Basandosi su questa posizione i giudici del Processo di Norimberga contro le alte cariche naziste, del 1945-1946, riuscirono a promulgare una prima direttiva di quello che verrà definito anni dopo come “diritto penale internazionale”.

In queste prime linee giuridiche emerge come il singolo individuo sia considerato personalmente responsabile delle sue azioni in caso di commissione di crimini particolarmente efferati, come i “crimini di guerra” o i “crimini contro l’umanità”. Il singolo ha, conseguentemente, il dovere di opporsi agli ordini del proprio Stato se questi ledono i più fondamentali diritti umani.

Nel 1961, grazie alle coraggiose indagini del procuratore distrettuale Fritz Bauer, si riuscì a localizzare altri criminali nazisti citandoli in giudizio nel celebre Processo di Francoforte, ma i tempi erano già cambiati e i “princìpi di Norimberga” non godevano più dello stesso consenso.

In seguito alla chiusura del conflitto la Germania aveva cercato di ritornare gradualmente alla normalità e facendo pressione sulle autorità statunitensi riuscì nel 1955 a far revocare la “Allied Control Council Law Number 10” e ad emanciparsi dalla gestione delle potenze vincitrici: gli Stati Uniti, Russia, Francia e Gran Bretagna.

Lo scetticismo della dottrina verso una corrente giuridica giovane e inconsueta come il “diritto penale internazionale”, unita al sentimento del popolo tedesco che voleva solo dimenticare gli orrori accaduti appena due decenni prima, spinse il giudice Hofmeyer a ritenere applicabile al Processo di Francoforte solo il diritto nazionale tedesco e non i principi internazionali di Norimberga.

Questa non fu la sola sconfitta per l’accusa, guidata da Bauer, poiché l’applicazione del diritto nazionale era strutturalmente concepito per la risoluzione di casi relativamente modesti e non per affrontare la risoluzione di “crimini contro l’umanità”. L’applicazione del diritto nazionale, conseguentemente, influì pesantemente sulla risoluzione del caso, al punto che lo stesso Bauer ritenne il procedimento un parziale fallimento.

In primo luogo, mentre nel Processo di Norimberga era stato sancito che il fatto di agire sotto l’ordine di un superiore non fosse una valida scriminante di fronte a crimini particolarmente efferati, nel Processo di Francoforte si rovesciò completamente questa argomentazione.

Nella giurisprudenza tedesca, specificatemente nello “Stashynsky Case” del 1963, si era riaffermato il tradizionale principio gerarchico. Conseguentemente molti degli accusati nel Processo di Francoforte poterono invocare l’argomentazione degli “ordini dall’alto”, venendo giudicati come complici in omicidio, piuttosto che diretti carnefici. Bauer fu particolarmente critico di questa posizione del collegio giudicante asserendo che la colpa di un disastro come l’Olocausto non potesse ricadere solo sui pochi membri esecutivi del Reich: «Prima di Hitler, la Germania era la casa di feroci nazionalisti e anti-semiti. Senza di loro, Hitler sarebbe stato impensabile. Lui li ha legittimati, mentre loro legittimavano lui».

In secondo luogo, l’applicazione del diritto nazionale aveva fatto emergere anche un delicato problema collegato al principio di non retroattività della legge penale. Una volta ritenuto applicabile il diritto nazionale tedesco al caso di specie, i giudici di Francoforte dovettero rifarsi al diritto vigente all’epoca dei fatti per dirimere la controversia, il quale era vistosamente inadeguato ai crimini contestati.

Il codice penale tedesco prevedeva due diverse tipologie di omicidio, il “Mord”, all’incirca l’equivalente del nostro omicidio di primo grado, e il residualmene più leggero “Totschlag”. Entrambe le fattispecie erano pensate e concepite come risposta al crimine privato e non a crimini su larga scala.

Una volta esclusa l’applicazione dei Principi di Norimberga al caso, alla procura si prospettò una situazione paradossale. Il “Totschlag”, il quale prevedeva già di per se una pena molto leggera, era inapplicabile ai crimini commessi durante la guerra, poiché caduto in prescrizione nel 1960. Dunque a Bauer non rimase che contestare il “Mord”, ma questa operazione non si rivelò facile.

Stando al codice tedesco, per poter contestare il “Mord” la procura doveva dimostrare l’elemento psicologico, ossia che l’imputato avesse agito con un intento particolarmente malevolo e crudele. La procura trovò molto difficile dimostrare che i delitti fossero stati eseguiti “senza pietà e sangue freddo”, caratteristica tipica del “Mord”, poiché decifrare la mente di assassini facenti parte di una fredda macchina burocratica di morte, priva di emozioni, quale era l'impero nazista, non era affatto agevole.

In definitiva, il diritto nazionale tedesco rivelò tutta la sua inadeguatezza nel confrontarsi con il diritto internazionale, sia a livello sanzionatorio che procedurale. Il Processo di Francoforte rese evidente come principi universali di responsabilità penale fossero ancora acerbi per una loro puntuale applicazione, ed infatti riportò ad un numero inferiore di condanne, sia per numero che per entità, del Processo di Norimberga o del Processo di Cracovia.