di Adelmo Maria Imperi

Sport: la palestra militare di inizio ‘900


L’avvento della società di massa a inizio ‘900 modificò gli equilibri politici e introdusse nuovi soggetti all’interno del suo sistema. Anche l’Italia, che in quel momento stava uscendo da un lungo periodo di divisione regionale, di soggezione politica e di generale arretratezza culturale - nonostante i traguardi raggiunti da singoli scienziati, artisti e letterati - partecipò allo sviluppo della società di massa in maniera determinante. Tali evoluzioni si stavano svolgendo intorno ad un versante politico, in cui la situazione, dopo anni di subbuglio pre e post unificazione, si era stabilizzata attorno alla personalità dominante di Giovanni Giolitti.

Oltre all’affermato e radicato giolittismo però, nei primi anni del Novecento, le correnti culturali con marcate impronte politiche che maggiormente spiccarono, diventando prima di tutti dei movimenti di massa, furono quella cattolica, socialista e nazionalista.

Per quanto riguarda il cattolicesimo, la diffusione dei primi movimenti politici si ebbe già prima dell’inizio del “secolo breve”, nel 1891, quando salì al soglio pontificio Leone XIII. La sua enciclica “Rerum novarum”, dedicata ai problemi di condizione degli operai, esortò lo sviluppo di movimenti cattolici, nella speranza che diventassero strumenti di collaborazione fra le classi sociali e di emancipazione. I cattolici adottavano metodi molto simili a quelli dei gruppi socialisti, associandosi e concentrandosi principalmente sulla rivendicazione dei diritti dei lavoratori, in particolare della categoria contadina.

Sul versante socialista, in Italia il partito di riferimento fu il PSI (Partito Socialista Italiano), fondato da Filippo Turati e Guido Albertelli nel 1892 sotto il nome di Partito dei lavoratori italiani. Dopo 3 anni turbolenti caratterizzati dall’inglobamento del “Partito Socialista Rivoluzionario Italiano” e dalla repressione crispina che fece sciogliere il partito, nel 1895, gli attivisti che dai primissimi giorni ne facevano parte, si riorganizzarono dando vita al “Partito socialista italiano”. Il neo rifondato partito, però, subì quasi subito delle spaccature ideologiche, prima ci fu una scissione guidata da Arturo Labriola che, a differenza dell’ala socialista che vedeva di buon occhio l’apertura liberale di Giolitti, dopo lo sciopero nazionale del 1904 propugnò il lavoro del sindacalismo rivoluzionario criticando quello del partito procurando così una spaccatura interna che portò Labriola a lasciare il partito nel 1907 insieme ai sindacalisti rivoluzionari. In seguito, nel 1912, Leonida Bissolati, dopo esser stato espulso dal partito a causa delle sue dichiarazioni favorevoli alla guerra in Libia, fondò il PSRI (Partito Socialista Riformista Italiano). Di pari passo con la crescita del PSI, si allargò anche il movimento sindacale fino al congresso costitutivo della “Confederazione generale del lavoro”, meglio nota con l’acronimo di C.G.d.L.

L’altro movimento che si sviluppò a inizio secolo e che più di tutti ebbe un’influenza determinante e profonda all’interno delle coscienze popolari fu il nazionalismo. In assenza di un’idea comune di Nazione, lo scopo di tale movimento fu quello di promuovere il risveglio di una viva coscienza nazionale e un’ambiziosa e aggressiva politica estera coloniale. Il movimento ebbe un enorme consenso nella borghesia e, in particolare, tra i giovani. Nel 1910, lo scrittore e politico Enrico Corradini, fondatore della rivista “Il Regno” ed esponente di quel gruppo di intellettuali che fin dai primi anni del Novecento sosteneva il Nazionalismo, fondò l’ANI (Associazione Nazionalista Italiana). Questa associazione dava molta rilevanza all’eroismo, al sacrificio per la collettività nazionale, alla necessità della disciplina nella società, alla grandezza dell’antica Roma e all’amore del rischio e del pericolo. Tutti questi elementi di cui tale movimento era caratterizzato, divennero facilmente accomunabili all’interno della pratica sportiva. Dagli anni ’10 del ‘900 alla fine della Grande Guerra, il Nazionalismo, grazie anche al suo seguito estremamente giovane, iniziò a vedere lo sport sotto una dimensione diversa. In particolar modo nel 1911, quando stava per esplodere la guerra in territorio libico, la questione della preparazione militare della Nazione tornò ad essere predominante e la connessione diretta con la pratica sportiva fu quasi immediata. In tale ottica, alcuni sport furono considerati funzionali alla disciplina militare. Alcune discipline sportive per i nazionalisti avevano infatti la possibilità di svolgere la funzione di sviluppare e migliorare le capacità cognitive e mentali dei soldati, come ad esempio il cricket, altre di miglioramento delle prestazioni fisiche come l’atletica, il podismo, il ciclismo, il nuoto, la lotta, l’alpinismo e il calcio. A queste pratiche sportive si aggiungevano anche discipline tecnologiche, come ad esempio l’aviazione, che giocò ad un certo punto un vero e proprio doppio ruolo.

Per entrare maggiormente nel merito della questione, va affermato che quello in cui i nazionalisti credevano e affermavano riguardo alla propedeuticità dello sport alla guerra, era che le discipline, al di là del loro valore aerobico, avessero intrinsecamente delle virtù capaci ad addestrare i soldati. Il podismo, ad esempio, era quella categoria che permetteva di sviluppare una maggiore tonicità muscolare e di migliorare la capacità polmonare dei futuri soldati. Inoltre, attraverso questa pratica, sarebbero stati forniti di una migliore preparazione atletica e di una maggiore resistenza fisica, rendendoli più performanti rispetto ai ritmi e alle difficoltà che durante la guerra si possono riscontrare. Vi erano poi, per questa corrente politica, attività paragonabili a riproduzioni di momenti di guerra, come ad esempio, il “lancio del peso” o “del giavellotto”, visti come sport prettamente funzionali ad addestrare al meglio un uomo al lancio di un esplosivo o di un qualsiasi altro oggetto verso il nemico. L’idea di base era che, maggiore fosse la capacità in questo sport, più lontano l’esplosivo o l’arma poteva arrivare sul campo di battaglia.

Per la stessa ragione del podismo fu preso in considerazione anche il ciclismo: anche se diversamente, attraverso la pedalata, con la pratica di questa disciplina si miglioravano le prestazioni aerobiche e polmonari. L’utilità in ambito militare per loro era data dal fatto che la bicicletta poteva essere utilizzata come mezzo di trasporto per le risorse di qualsiasi genere utili per la sopravvivenza in battaglia. Più si era rapidi e forti in questa pratica, più velocemente e con quantità maggiori di carico, i generi potevano arrivare ai soldati impegnati a combattere. Il nuoto, invece, aveva la finalità di rendere il soldato operativo e competitivo anche in situazioni dove fosse necessario muoversi nei corsi d’acqua o nei fiumi. In queste situazioni, non esser capaci di nuotare avrebbe reso il soldato inerme nei confronti del nemico o, ancora peggio, incapace di proseguire il percorso strategico ordinato dal suo ufficiale di plotone, bloccando le operazioni militari e di fatto facendo fallire la missione. Saper nuotare offriva dunque all’esercito in battaglia una risorsa ed una strategia in più da poter utilizzare in qualsiasi momento. Altre discipline erano sostenute dal nazionalismo anche al di là delle caratteristiche tecniche o atletiche. L’alpinismo fu una disciplina praticata e considerata importante più per la sua rilevanza geografica e politica.

Il CAI (Club Alpino Italiano) infatti, s’impegnò da subito affinché gli uomini fossero preparati a sopravvivere nelle catene montuose del nord Italia. Fu esso, per primo, ad iniziare a rivendicare le aree di lingua italiana dell'Impero Austro-Ungarico e a stabilire frequenti scambi e collaborazioni con le associazioni alpinistiche irredentiste di area trentina e giuliana.

Più complesso è inoltre il discorso sul calcio, che si riempiva anche di significati simbolici. Esso infatti è sport di squadra, e i nazionalisti erano assolutamente convinti che meglio di chiunque altro poteva sviluppare il “cameratismo” all’interno del plotone. Tuttavia, dire solo che è sport di squadra non bastava per spiegare tale capacità. Per loro, una caratteristica davvero particolare di questa disciplina era quella della situazione di gioco: sono presenti infatti, proprio come in guerra, su un “campo” contrapposti due schieramenti frontali, ogni giocatore ha dunque la possibilità di vedere al proprio fianco e alle proprie spalle la sua squadra che avanza verso l’altra parte di tale campo in cui c’è la squadra avversaria schierata nel medesimo modo. Secondo la concezione del periodo preso in esame, questa caratteristica peculiare del calcio, permetteva ai praticanti di sviluppare una capacità di visualizzare la distinzione tra compagni e avversari, anche grazie al colore della divisa e della differenza del simbolo di cui si era custodi, in maniera simile a quella che si ricordava in battaglia tra alleati e nemici. Il campo sportivo come campo di battaglia, la maglia di gioco come divisa, il simbolo come la bandiera, il gioco di squadra come la strategia di guerra dei camerati.

Insomma, in quella fase lo sport venne totalmente contaminato dal mito della guerra e la figura dello sportivo di lì a poco venne investita da un vero e proprio processo di glorificazione e divismo che avrebbe reso eroica e leggendaria l’immagine dell’atleta. La figura dello sportsman/soldato sarà da lì in poi un emblema chiave per la retorica e la propaganda di guerra che già nel primo conflitto mondiale venne messa in atto. Sport e Guerra furono due facce della stessa medaglia che per decine d’anni furono inscindibili e di cui ancora oggi se ne percepiscono le particolarità e le comparazioni.