di Adelmo M. Imperi

Lo sport al popolo: il sovietismo atletico

Il Novecento fu senza dubbio il secolo in cui venne sancita la centralità dello Sport nella società civile e nelle istituzioni stesse. In particolare esso assunse una dimensione culturale fondamentale soprattutto per i regimi totalitari: oltre al fascismo e al nazismo, questa caratteristica fu centrale anche in URSS. Prima dell’ascesa bolscevica al Palazzo d’Inverno, infatti, la Russia zarista era completamente estraniata dal mondo sportivo mondiale in quanto non vi fu mai, da parte delle famiglie regnanti, un interesse particolare per esso. Con l’affermazione sovietica nel 1917, tra le tante questioni che subirono stravolgimenti, ci fu anche quella della pratica sportiva.

L’idea di base che caratterizzò il nuovo regime in questa prima fase era quella di puntare sullo sport per creare donne e uomini forti, produttivi e capaci di essere costruttori e difensori della propria patria. A differenza quindi della concezione che ebbero sia il fascismo sia il nazismo, che puntarono invece sulla preparazione fisica per scopi militari, quella sovietica fu fin da subito un’idea “civile”, in quanto doveva essere prima di tutto uno strumento utile per il miglioramento degli uomini, della produzione e del lavoro. I sovietici, pur continuando a migliorare la loro preparazione fisica con lo scopo di alimentare la loro idea di sport di base, avviarono anche una serie di provvedimenti per poter perfezionare sul piano agonistico il livello di preparazione fisica e la competitività degli atleti. Tali provvedimenti erano tutti indirizzati verso l’incentivazione della diffusione dello sport di massa e, a partire da questo, sviluppare anche una nuova dimensione legata al concetto di “campione”.

Contrariamente a quanto accadeva nei paesi occidentali, in cui si cercò di creare una pratica sportiva professionistica investendo nella costruzione di impianti nelle città e attraverso l’assegnazione di ricchi premi agli atleti che si fossero distinti per merito, il lavoro che venne avviato dai rappresentanti dell’URSS fu molto più complesso: furono create numerose manifestazioni sportive a livello popolare e costruiti una grande quantità di impianti e attrezzature sia nelle aree urbane che rurali, in modo tale da generare uguaglianza tra tutti gli abitanti e far emergere spontaneamente gli atleti con maggiori doti tecniche. Grazie agli investimenti economici statali per il miglioramento delle associazioni sportive e all’ impegno delle organizzazioni sindacali, tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni ’60, attraverso la massificazione dello sport, l’Unione Sovietica ottenne degli ottimi risultati sul piano agonistico e soprattutto consolidò il controllo della pratica sportiva indirizzandola politicamente verso una strategia dell’ampio e profondo consenso. Proprio il modo di operare in termini sportivi dell’URSS fu determinante per dettare la strategia politica al comunismo europeo pronto ad affermarsi come il più grande partito di massa nella società continentale del dopoguerra.

Fu in particolare dopo il conflitto mondiale che, infatti, il blocco occidentale e l’URSS iniziarono a misurarsi a livello sportivo ed è proprio in questa fase storica che è possibile individuare ed analizzare in maniera cristallina cosa significò in termini politici lo sport per l’Unione Sovietica. Erano gli anni che diedero inizio alla guerra fredda e dopo la divisione in due blocchi del pianeta generata da USA e URSS, le due forze iniziarono un confronto non direttamente militare in cui l’una cercò di far prevalere il proprio modello rispetto all’altra. Non essendo un conflitto tradizionale, per dominare l’avversario furono utilizzati tutti gli strumenti tecnologici a disposizione e tutte le peculiarità culturali possibili per poter veicolare messaggi di propaganda. Tra questi, uno dei più importanti fu appunto lo sport e in particolare, vista la propensione internazionalista, le Olimpiadi: mentre gli USA parteciparono alle edizioni olimpiche già dai primi anni dalla sua riproposizione, classificandosi spesso prima nel medagliere finale, l’Unione Sovietica iniziò la preparazione atletica della sua delegazione dagli anni successivi alla seconda guerra mondiale. L’accesso ai Giochi venne concesso ai sovietici per la prima volta solo nel 1952 ad Helsinki, ottenendo un clamoroso successo in termini di medaglie fino a classificarsi in seconda posizione nel medagliere generale dietro solo agli USA. Questo successo sovietico fece clamore non solo per il lato sportivo, ma anche per quello politico: per la prima volta infatti si erano sfidati sui campi sportivi le due potenze su cui si poggiava la (in)stabilità del pianeta, e la superiorità sfoggiata dagli americani e propagandata tramite i successi sulle piste d’atletica non era più scontata. L’Olimpiade si tramutò, quindi, dal punto di vista mediatico e politico, in una manifestazione che più di tutte poteva essere strumentalizzata per tentare di mettere in luce la superiorità di una o di un’altra potenza. Il medagliere finale non fu più solo una semplice classifica sportiva, ma, come ai tempi dei fascismi, tornò ad essere un vero e proprio specchio su cui era riflessa la superiorità di un sistema.

Dopo questa prima competizione in cui gli USA ne uscirono vincitori, alle Olimpiadi di Melbourne del 1956, i sovietici terminarono la competizione al primo posto nel medagliere, con ampio distacco rispetto agli Stati Uniti che chiusero secondi. A quel punto la situazione si ribaltò e fu l’URSS a poter sfruttare meglio degli americani le Olimpiadi, per mettere in evidenza il loro trionfo e la loro superiorità. Dopo Helsinki e Melbourne, i Giochi erano diventati un vero e proprio terreno di scontro e ad avvicinarsi c’era un’edizione che avrebbe portato con sé molte novità dal punto di vista mediatico: Roma 1960.

A differenza delle Olimpiadi precedenti, quella di Roma, oltre allo scenario in cui si sarebbero svolte, che molto riprendeva l’olimpismo classico, avevano una profonda novità, ossia la trasmissione delle gare e delle cerimonie in diretta in mondovisione. Questo significava che nel momento in cui si fosse fatta propaganda, questa sarebbe arrivata immediatamente a tutti senza nessun tipo di censura od omissione di informazioni. Tale situazione era l’ideale per le forze comuniste e occidentali per cercare di mostrare al mondo in maniera nitida la propria superiorità e questo il CIO lo sapeva. Fu per tale ragione che a poche settimane dall’inizio della manifestazione furono lanciati numerosi appelli, affinché l’Olimpiade non venisse strumentalizzata per scopi di propaganda politica e che venisse mantenuto lo spirito olimpico nella sua integrità. Nonostante tali appelli, lanciati fino a pochi giorni prima, la strumentalizzazione dell’edizione romana era già iniziata da tempo, sia dal punto di vista globale con le forze dell’Unione Sovietica e quelle americane alle prese con la loro preparazione atletica, politica e di spionaggio al fine di poter prevalere sugli avversari, sia dal punto di vista nazionale dove le autorità politiche italiane la utilizzarono fin dalla fase di organizzazione, per impostare una campagna di opposizione ai partiti contrapposti.

Simbolicamente la guerra tra socialisti e capitalisti si può facilmente affermare che venne combattuta proprio all’interno degli impianti sportivi in occasione di questa tipologia di eventi. Per i due blocchi che si rispettavano e temevano il conflitto militare, quello sportivo rappresentò il giusto compromesso in cui potersi sfidare e misurare in maniera ben visibile agli occhi dell’opinione pubblica e strumentalizzare la vittoria sportiva per veicolare un messaggio di supremazia del modello di cui si facevano portavoce. Ed è per questo motivo che dopo Roma olimpica, nulla sarebbe stato più lo stesso.