La diplomazia del Ping Pong


di Lorenzo Balma

LA DIPLOMAZIA DEL PING PONG


«Un ponte è stato gettato questa settimana dall’Oriente rosso fino agli Usa». Washington Post 14 aprile 1971


Dopo che l’amministrazione Kennedy rispettò - quasi immobile - la logica dei blocchi costruita a Yalta, venne il turno di Richard Nixon, dall’ala destra del Partito Repubblicano. Durante tutta la sua amministrazione, Nixon venne sempre accompagnato da Henry Kissinger, il segretario di Stato USA, il cui rapporto con il presidente fu sempre contrassegnato da un’unione di intenti che venivano talvolta scalfiti dai sospetti reciproci rispetto le negoziazioni.

La dinamica coppia era concorde riguardo la necessità di trovare una maniera per alleggerire le tensioni ed instaurare un clima di caratterizzato dalla massima “vivi e lascia vivere” con i contendenti. I due mirarono a costruire una nuova struttura di relazioni globali, che poggiassero sulla distensione, ovvero sul miglioramento delle relazioni con l’Unione Sovietica e la Repubblica Popolare Cinese, oltre che sulla devoluzione tramite lo sviluppo di nuove relazioni con gli stati “amici” in Europa e nel Terzo mondo. Sostenne in maniera enigmatica lo stesso Nixon: «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».

Questo piano diplomatico richiedeva sul piano interno la massima concentrazione di potere, per evitare che questo frenasse o compromettesse le manovre internazionali (i predecessori di Nixon già sperimentarono la durezza e le conseguenze che il sistema bipartitico, le lobby di interessi e l’opinione pubblica statunitensi potevano creare).

L’obiettivo di Nixon e Kissinger però, malgrado la consapevolezza che ad una concessione fatta all’avversario ne sarebbe seguita un’altra in termini opposti, fu di esercitare pressioni su Mosca passando prima da Pechino. Fu la vera innovazione diplomatica degli anni Settanta e una nuova strategia d’approccio alla guerra in Vietnam, che mirava come esito finale a destabilizzare Hanoi (sulla quale però il Cremlino non ebbe mai il pieno controllo). Le premesse alla “apertura cinese” furono sicuramente il declino della “Rivoluzione culturale”, la volontà e l’interesse di entrambe le parti ad indebolire la presenza russa nel Pacifico, gli scontri sanguinosi alla frontiera sino-sovietica nel 1969, oltre al fatto (non secondario) che RIchard Nixon fu uno dei massimi rappresentanti della “China Lobby”. La prospettiva più oscura per gli Stati Uniti era quella che in uno slancio espansionistico l’URSS potesse controllare la RPC. Lo stesso Kissinger espresse questa preoccupazione ai cinesi: “è contro i nostri interessi permettere che si instauri un’egemonia in Eurasia dominata da Mosca”. Le preoccupazioni erano anche fondate sul fatto che all’inizio degli anni Settanta erano presenti quasi un milione di soldati sovietici al confine cinese.

In questo incerto scenario fu una “circostanza felice” ad avvicinare gli Stati Uniti alla Cina: fu proprio in occasione del campionato del mondo di ping pong nell’aprile del 1971 in Giappone, nel quale i giocatori statunitensi e quelli cinesi stabilirono una vera e propria amicizia. Fu uno studente statunitense, Glenn Cowan, che avvicinò il cinese Chang Tsetung, rimediando un passaggio nell’autobus della squadra cinese diretto alla visita del vivaio di perle della penisola di Mie. Dopo questo incontro la nazionale cinese invitò quella americana in visita a Pechino, dove furono accolti dal premier Zhou Enlai. Cowan servì, insomma, l’assist perfetto alla delegazione americana per mostrare la volontà di rinsaldare il proprio rapporto con la Repubblica popolare cinese. Lo sport venne messo al servizio della politica e della diplomazia che Washington aveva già iniziato a mettere in pratica con Pechino e viceversa.

L’evento si rivelò decisivo per aprire nuovi tavoli di trattativa durante la seconda parte della guerra fredda, ma non invertì il senso di discontinuità che i rapporti tra i due paesi lasciavano trapelare. Il triangolo diplomatico che si formò in un clima di relativa distensione (soprattutto riguardo i negoziati sulle armi nucleari), i cui vertici furono USA, URSS e RPC, mostrò i propri limiti quando cominciarono a riemergere i sospetti di tutti e tre i Paesi, ma soprattutto di Pechino. Nonostante Kissinger sostenesse davanti ai cinesi che gli accordi con il Cremlino avessero una funzione di distensione globale, o al limite di contenere le sinistre in Occidente e limitare una possibile avanzata sovietica, questi pensarono che gli americani stessero facendo il doppio gioco. Inoltre, Pechino non avrebbe avuto alcun interesse nel provocare Mosca o di avere obblighi futuri nei confronti di Washington. Nel 1975 Deng Xiaoping fu lapidario durante una visita a Pechino di Kissinger: “Abbiamo sempre creduto di dovere fare affidamento sulla nostra forza indipendente per trattare con l’Unione sovietica e non abbiamo mai nutrito illusioni a riguardo”.

Accantonando lo sport e passando a spicciole strategie geopolitiche, gli Stati Uniti considerarono la Cina la più debole tra i due avversari e così fece quest’ultima, in una partita mondiale che stava diventando a tre. Rimane innegabile che l’evento sportivo, per quanto fosse spontaneo e per quanto siano romantiche alcune narrazioni della vicenda, venne pilotato da entrambe le potenze per raggiungere i rispettivi obiettivi: per i Cinesi fu il riconoscimento dell’unicità dell’esperienza socialista in campo occidentale e l’abbandono delle truppe americane a Taiwan, mentre per gli Stati Uniti fu il profitto legato all’aumento del proprio potere contrattuale con il Cremlino.


LETTURE E APPROFONDIMENTI:

J. L. Harper, “La Guerra Fredda”, Il Mulino.