di Adelmo Maria Imperi

ROMA ’60: MONDO NUOVO O DECLINO?


Quando si parla di Olimpiadi di Roma del 1960 è impossibile non effettuare un parallelismo con il contesto storico italiano. Non si può non tenere a mente infatti che quelli erano gli anni del miracolo economico, della Dolce Vita e dello sviluppo sociale della Nazione. Erano gli anni dell’incremento dell’acquisto dei beni di consumo di massa, del boom demografico, del tasso di disoccupazione più basso di sempre e della produzione fiorente e rigogliosa. Era la fase della distensione, dei sorrisi, della ricostruzione e del ritorno alla vita dopo “l’oscura” e straziante parentesi della Seconda Guerra Mondiale e del fascismo. Fu dunque altrettanto inevitabile che le Olimpiadi - che in quel contesto si sarebbero disputate - sarebbero diventate l’emblema di tutto ciò, assumendo il ruolo di veicolo propagandistico cruciale per mettere in luce all’intero pianeta la ruggente ascesa che l’Italia con fierezza stava instancabilmente cavalcando.

In questa cornice tutto doveva apparire bellissimo e splendente, la città, Roma, grazie al suo imponente patrimonio culturale e monumentale, ben si prestava a offrire questa immagine dorata. Tuttavia i tempi erano cambiati, le Olimpiadi avevano assunto una rilevanza internazionale e quelle romane sarebbero state le prime in assoluto ad essere trasmesse in mondovisione sulle reti televisive. Non era sufficiente quindi mostrare la bellezza del Colosseo e dei Fori Imperiali per rendere l’evento degno del periodo storico o, quantomeno, per dare all’opinione pubblica internazionale l’immagine auspicata. Serviva una impattante e grandiosa organizzazione e la strada non era affatto in discesa.

Fu proprio la gestione della manifestazione olimpica a rompere i già precari equilibri esistenti in sede politica. Quando il CIO ufficializzò Roma come città ospitante delle Olimpiadi del 1960 tutti gli esponenti politici videro infatti una grande opportunità per volgere la situazione a proprio favore.

La Democrazia Cristiana che era l’allora principale forza di Governo, come detto, voleva a tutti i costi mostrare lo splendore dell’Italia attraverso la magnificenza e la bellezza della sua Capitale e se ciò fosse riuscito avrebbe avuto un tornaconto non indifferente in termini di consenso elettorale; i neo fascisti videro l’opportunità di un ritorno alle liturgie mussoliniane e riaccendere quella fiamma soffocata pochi anni prima ma mai spenta del tutto, non va dimenticato infatti che Mussolini a lungo auspicò di organizzare una Olimpiade a Roma e molto aveva puntato sull’organizzazione della città e sulla preparazione sportiva (quella macchina perfetta chiamata CONI era una sua creatura); il Vaticano, che comunque un peso politico lo aveva, accolse la notizia in maniera ambivalente, c’era infatti la parte più ortodossa che le rifiutava in quanto la concezione di sport competitivo non era quella professata dalla Chiesa, mentre c’era la linea più “concreta” che invece individuò nelle Olimpiadi un momento di valorizzazione della Chiesa non solo in termini spirituali ma anche economici e di prestigio sociale; infine c’era il PCI che accolse con riserva le Olimpiadi perché riconobbe il potenziale di cui queste erano custodi, se gestite e realizzate secondo determinati criteri.

Al centro di tutto questo c’era poi il Coni presidiato da Giulio Onesti: era proprio quell’Ente che aveva il compito di organizzare l’evento in accordo con la politica. Non va sottovalutato, in questo senso, il caso italiano relativo alla gestione dello Sport: proprio per un’intesa cordiale tra Giulio Andreotti della DC e Giulio Onesti (la famosa intesa dei due Giulio) l’Italia divenne l’unico caso al Mondo in cui lo sport non era gestito da un ministero, ma da un ente parastatale (appunto il Coni), a condizione però che venisse rispettato l’indirizzo politico che l’Italia sceglieva. Questa strategia fu messa in atto volutamente da Andreotti perché un settore così pesante come lo Sport che aveva una risonanza mediatica molto amplificata e destinata a crescere ulteriormente, secondo lui era meglio governarlo “nell’ombra” in quanto qualsiasi provvedimento e beneficio di cui lo Stato ne avrebbe tratto, sarebbe rimasto nascosto o comunque non direttamente attribuibile all’esecutivo. Un caso specifico fu ad esempio la situazione del Totocalcio, che era sì gestito dal Coni che quindi ne intascava gli incassi ma che, tramite fiscalità e percentuali, una parte dei proventi era costretto a destinarlo alle casse dello Stato. L’effetto quindi tangibile dell’intesa Giulio–Giulio era, oltre all’apparente libertà statale dal peso dello sport, anche il ribaltamento economico rispetto all’epoca fascista: se durante il ventennio era infatti Mussolini a foraggiare lo sport e il Coni, con questa nuova modalità fu lo sport e il Coni a rimpinguare le casse dello Stato. L’intesa però non favorì solo Andreotti e lo Stato: Onesti era un apolitico per scelta (uscì dal Partito Socialista e aderì a questo accordo proprio per fortificare la sua posizione) e governando un settore importante come lo Sport senza essere vincolato a logiche partitiche lo poneva in una posizione di comodo. Anche egli infatti, grazie al peso specificò che conferì al suo ente, poté indirizzare la politica e spingerla verso linee strategiche a lui favorevoli. E di ciò tutti gli esponenti della classe dirigente ne erano al corrente e spesso andarono a parlarci affinché l’Olimpiade prendesse una determinata piega, piuttosto che un’altra. L’abilità e la posizione apolitica di Onesti, fece si che egli si confrontò con tutti gli attori di spicco, assumendo una posizione mediana tra questi proponendo decisioni che fossero distanti ma allo stesso tempo vicine a tutte le forze. Il risultato che ottenne fu di mantenere il Coni, tranne qualche sporadico caso in cui venne criticato dalla sinistra, in una posizione integra, incontaminata e di fiducia da parte della maggior parte delle voci istituzionali.

La partita più cruenta, quindi, si giocò nelle aule parlamentari, in particolare chi alzò la voce in maniera insistente ed acuta fu il Partito Comunista che assunse una posizione estremamente critica verso l’esecutivo a trazione DC. Il PCI sapeva bene che ci si stava giocando molto con quell’ Olimpiade; erano gli anni infatti in cui la Guerra Fredda stava entrando nel vivo e un evento di tale portata a Roma per un paese che ancora faticava a trovare una vera e propria posizione nello scacchiere internazionale poteva significare anche un rovesciamento della linea politica filo-capitalista faticosamente improntata da De Gasperi nel 1947. La strategia del PCI era dunque quella di far prevalere un sistema sportivo di stampo sovietico, pertanto le sue critiche verterono: da un lato su uno Sport non adeguatamente statalizzato e quindi troppo fuori dal controllo nazionale così come le Olimpiadi che invece, secondo loro, dovevano essere al centro del dibattito politico; dall’altro sulla professionalizzazione dello sport, per il PCI considerata un’eresia vista la sua propensione verso uno sport completamente popolare e non elitario. La lotta su tali aspetti fu cruenta, i comunisti sapevano che se fosse riuscita a prevalere questa linea e lo sport fosse diventato più popolare e sotto il controllo dello Stato, avrebbero potuto dire la loro insinuando all’interno delle associazioni sportive in maniera ancor più marcata di come già stavano lavorando, impartendo la loro ideologia e cercare di modificare “dal basso” il pensiero popolare, tentando di rovesciare il potere tramite una conquista dell’opinione pubblica senza quello delle istituzioni. Il controllo degli organi statali sarebbe stata a quel punto una inevitabile conseguenza data dalla rivoluzione culturale costruita.

Parallelamente a Roma lo scontro dialettico principale fu rivolto al Piano Regolatore e alla realizzazione delle infrastrutture di contorno ai palazzetti dello sport: il PCI chiedeva la variante del P. R. mentre la DC continuava a usufruire di quello approvato nel periodo fascista. I comunisti accusarono così i democristiani di voler creare una città disorganizzata e di fare gli interessi dei loro simpatizzanti politici e del Vaticano con la costruzione di opere pubbliche e impianti nei territori di loro proprietà o vicini, in maniera tale che questi acquistassero valore dando vita ad un vortice speculativo senza fine. Per corroborare questa critica il PCI ne legò un’altra, ossia quella che chiamarono “operazione foglia di fico”: in quel caso il partito accusò la DC di aver lavorato solo per la riqualifica delle aree in cui si sarebbe svolta l’Olimpiade, che guarda caso si sviluppava nei terreni vaticani e democristiani, mentre il resto delle periferie, che furono isolate e mascherate da cartelloni pubblicitari e separé, versavano ancora in condizioni igienico – sanitarie critiche. In altre parole, uno sperpero di denaro per pochi, mentre gli ultimi rimanevano ultimi. Non fu un caso che alcuni atleti sovietici che trionfarono all’Olimpiade furono fatti sfilare dal PCI, come degli eroi di guerra, proprio all’interno di questi centri periferici. I comunisti immaginavano che il loro consenso e quello sovietico avrebbero trovato terreno fertile in queste estese aree e nei malumori di chi le abitava. Sfilare lì significava mostrare chi non si era dimenticato di loro e quale era il modello da seguire per il loro benessere e liberazione dalla povertà in cui erano intrappolati.

In altre parole, la manifestazione olimpica romana fu un grande e spettacolare evento sportivo in una cornice suggestiva e ciò, grazie anche alla retorica che venne costruita intorno ad esse, giovò moltissimo alla Democrazia Cristiana. Dall’altro lato però, la scelta strategica assunta da questa si rivelò un’arma a doppio taglio, in quanto tutti i territori periferici furono conquistati irreversibilmente dal PCI che grazie ad essi poté alimentare il dibattito su quello che altrimenti sarebbe passato alla storia come un incontrastato trionfo democristiano. Invece ancora oggi la domanda resta aperta: le Olimpiadi di Roma furono un momento di svolta per l’Italia o un’opportunità persa?

L'affare Olimpiadi. Storia dell'opposizione del Partito Comunista Italiano ai giochi di Roma del 1960

di Aldo Maria Imperi