L’economia italiana tra le due guerre

di Lorenzo Balma

“La catastrofe, che si abbatté sul resto del mondo nel 1929, in Italia si sovrappose a una crisi “privata”, provocata dalla rivalutazione della lira, della quale il popolo italiano doveva ringraziare Mussolini”

Gaetano Salvemini, “Sotto la scure del fascismo”


Dopo la fine del primo conflitto mondiale, l’Italia fece registrare un incoraggiante +0,6% nel PIL nazionale, inferiore solo alla Gran Bretagna e alla neutrale Spagna, mantenendo praticamente intatto lo scheletro produttivo del paese. Lo stesso invece non si poteva dire del tessuto sociale, sono centinaia di migliaia i soldati morti al fronte che costituivano la manodopera e il capitale umano del paese.

Negli anni immediatamente successivi alla guerra iniziò il processo di riconversione civile delle strutture industriali che furono utilizzate per la produzione bellica, che si concentrava soprattutto nelle regioni del Nord e nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova.

Il finanziamento della Grande Guerra tramite la creazione di debito e stampa della moneta creò una spirale inflazionistica senza precedenti, che causò un aumento dei prezzi e una riduzione dei salari reali (tra il 1915 e il 1921 il costo della vita crebbe del 400% a fronte di una pressione fiscale invariata), oltre che un’intensa stagione di lotte sindacali che culminarono con le elezioni del 1919 in cui il Partito socialista unitario prese il 32% dei voti.

Mentre nel 1922 iniziava ad arrestarsi l’inflazione, in seguito anche alla crescita del lavoro sul capitale e alla frenata dei profitti speculativi degli industriali del settore delle armi, i socialisti riuscivano ad entrare nell’area di governo in concomitanza con una crescita dei salari e quindi del reddito medio pro capite. La classe dirigente conservatrice e una parte dell’area liberale reagì politicamente con una militarizzazione della società che si sarebbe rivelata l’anticamera del fascismo, in un gioco in cui i fascisti si proponevano agli occhi degli industriali come utile argine contro la sinistra, ma che finì con il colpo di Stato dell’ottobre di quello stesso anno.

Il regime fascista ereditava una situazione tutto sommato buona. Il ministro dell’economia, il fascista Alberto De Stefani e le sue politiche economiche, vengono spesso considerati come elemento di continuità rispetto all’età liberale. Raggiunse infatti nel 1925 il pareggio di bilancio, continuò la politica di sostegno alle banche miste per generare investimenti e riunì le imposte in un unico tributo progressivo.

Sul piano industriale il grande merito del fascismo fu la riconversione dell’industria bellica in industria pesante, completando l’ammodernamento (per lo meno nel Nord e in alcune parti del Centro) iniziato in età giolittiana dell’industria siderurgica, meccanica e anche chimica. Fu proprio questo scheletro industriale che fece la fortuna dell’Italia nel dopoguerra e la proiettò nella cosiddetta “età dell’oro”.

È con l’insediamento al ministero dell’economia di Giuseppe Volpi, ex governatore della Tripolitania, che il corso della politica economica del regime cambia. Non restava che risolvere l’ultima questione macroeconomica nel processo di riassestamento dell’economia italiana dopo la guerra ovvero la stabilizzazione del cambio della lira. Con “Quota 90” la lira venne fortemente rivalutata (servivano 90 lire per fare una sterlina), ma questo comportò una stretta deflattiva che provocò la diminuzione dei salari e un calo delle importazioni. L’obbiettivo principale di Quota 90 fu senza dubbio il lancio dei nuovi settori di produzione per modernizzare l’Italia, tramite aiuti e incentivi agli industriali, anche a costo di un abbassamento del reddito medio pro capite.

Questa ricetta economica se da un lato riuscì a lanciare i nuovi settori e ad avvicinare l’Italia alle grandi potenze mondiali, dall’altro peggiorò la situazione italiana l’indomani della crisi del ‘29.

Le risposte che diede il regime furono in linea con le altre potenze europee: dapprima l’intervento statale permise di sostenere l’offerta e mantenere la domanda, cercando di limitare i danni che furono comunque catastrofici, ma successivamente l’ondata protezionistica (che provocò una contrazione del commercio mondiale) trasformò definitivamente anche il corso dell’economia fascista, inaugurando definitivamente la via all’autarchia e la strategia denominata di “industrializzazione sostitutiva di importazioni”.

Attore centrale di questa industrializzazione fu l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), fondata per volere del regime da Alberto Beneduce, che venne nomitato il “dittatore economico degli anni ‘30 (fu inoltre Ministro del lavoro prima del fascismo nel governo Bonomi). L’Istituto aveva come scopo principale il salvataggio delle banche miste e delle imprese a loro connesse, stipulò nel 1934 con le tre principali (Banca Commerciale italiana, Credito italiano e Banca d’Italia) tre distinte convenzioni con cui gli istituti di credito cedevano all'IRI le proprie partecipazioni industriali e i crediti verso le imprese, in cambio di liquidità, necessaria a proseguire l'attività bancaria.

L’IRI sopravvisse al fascismo e alla guerra, insieme all’impianto d’industria pesante fascista, per ripresentarsi come fattori fondamentali dello sviluppo economico nell’Italia repubblicana.

Non va dimenticato che una parte decisiva della spesa italiana di quegli anni fu impiegata nell'attività coloniale, che comportò un grande sforzo economico a fronte di guadagni materiali e territoriali modesti. L'imperialismo italiano (sia quello di età liberale che di età fascista), definito "straccione" da Lenin, rappresentò il lato oscuro dello sviluppo capitalistico industriale nazionale e un'altrettanto oscura pagina della storia italiana (ad esempio, secondo le stime di Angelo del Boca, l'occupazione italiana in Libia dal 1911 al 1943 causò 100 mila morti a fronte di una popolazione libica di 800 mila abitanti).

La grande sfida mancata dei governi di età liberale e poi del regime rimase sicuramente la questione meridionale. Benché privilegiare l’industrializzazione al Nord fosse stata una scelta trasversale dall’unificazione fino al 1945, la politica economica italiana tra le due guerre mancò l’appuntamento di modernizzare l’impianto produttivo del Sud Italia, rimanendo ancorato (anche con la complicità della classe dirigente a maggioranza ancora dedita al grande latifondo) ad un anacronistico uso dell’agricoltura estensiva. Solo dopo la creazione della “Cassa per il Mezzogiorno” nel 1950 si riuscì a ridurre il drammatico divario e l’Italia poté così convergere per decollare nella grande stagione di crescita economica del primo dopoguerra.


LETTURE E APPROFONDIMENTI:

-E.Felice “Ascesa e declino. Storia economica d’Italia”, il Mulino, 2015;

-V. Zamagni “Dalla rivoluzione industriale all’integrazione europea”, il Mulino, 1999;

-G.Toniolo “L’economia dell’Italia fascista”, Laterza, 1980.