di Riccardo Avignone

La vita in trincea

All’inizio della Guerra Europea, nell’estate del 1914, tutti i belligeranti erano concordi su un’unica cosa: il conflitto sarebbe durato qualche mese e, al più tardi, si sarebbe tornati a casa entro il Natale del 1915 a festeggiare la vittoria con la propria famiglia. Poco meno di un anno dopo ogni fantasia di vittoria decisiva era scomparsa: non solo il conflitto si sarebbe trasformato in una logorante guerra di posizione ma, il 24 maggio 1915, il Regno di Italia si sarebbe aggiunto al fianco della Triplice Intesa.

I due schieramenti si assestarono su lunghe linee parallele di trincee, decisi a non lasciare il terreno conquistato se non da vincitori e trasformando il conflitto in una lunga guerra di logoramento. Immersi nel fango e nel sangue, durante quattro lunghi anni di combattimenti, nelle trincee si formarono vere e proprie comunità di uomini che, loro malgrado, si ritrovarono ad essere i primi soldati di una guerra di massa moderna.

In Francia, i Tedeschi, decisi a non lasciare i territori conquistati, si prepararono a una guerra difensiva scavando sin da subito trincee rinforzate, fornite di rifugi profondi fino a nove metri detti Stollen, e in grado di proteggere i soldati dai bombardamenti più intensi. Dall’altro lato, i comandi francesi e inglesi, fremevano per prendere in mano l’iniziativa del conflitto, preoccupandosi più di non indebolire lo spirito combattivo delle truppe che di salvaguardare la sicurezza dei soldati. A tal proposito, si può citare la massima del generale francese Grandmaison il quale sosteneva che “il posto del soldato francese è in campo apertoe “solamente se necessario” in trincea.

Fu con il prolungarsi del conflitto che gli anglo-francesi apportarono migliorie al loro schieramento. La profondità dei camminamenti raggiunse progressivamente i due metri, onde evitare di essere costantemente esposti al fuoco. Inoltre, le linee rette non si sviluppavano per più di 10 metri, preferendo una disposizione a zig-zag cosi da non perdere, durante un assalto o un bombardamento nemico, una porzione di trincea eccessivamente lunga.

Tra i due schieramenti, ormai statici e tenuti sotto controllo dalle postazioni di mitragliatrici, vennero stesi kilometri e kilometri di filo spinato, rendendo di fatto impossibile il controllo di tale zona che, per questo, fu rinominata terra di nessuno.

Sulle montagne del Trentino Alto-Adige e del Carso, dove Italiani e Austro-ungarici combatterono dal 1915, la situazione era diversa rispetto ai territori gessosi e collinosi della Francia, più facili da scavare, ma più soggetti alle inondazioni causate dalle falde acquifere sottostanti. Trattandosi di ammassi rocciosi, appunto, era estremamente difficile scavare delle linee profonde. Per questo motivo, in molti punti del fronte le trincee italiane non arrivavano al metro di profondità. I combattimenti, aspri come il terreno che li ospitava, presero vita ad alte quote, sulla cima delle montagne innevate.

Ma l’esperienza della Prima guerra mondiale, indipendentemente dal fronte preso in esame, aveva come tratto in comune la vita in un inferno fatto di fango, topi e inedia, una lotta costante per la sopravvivenza e senza nessuna via di uscita che non contemplasse la morte.

Nelle trincee, l’odore del fango e dell’acqua stagnante sul fondo dei camminamenti, si mischiava a quello dolciastro dei corpi in decomposizione, riaffioranti qua e là dalle pareti della trincea stessa. Scavare, o uscire allo scoperto per recuperare i corpi dei compagni morti, era estremamente pericoloso perché esponeva i soldati al tiro dei cecchini. Per questo motivo, lo strazio di vedere i propri amici divorati dai topi, si aggiunse ai traumi che avrebbero afflitto i sopravvissuti per tutta la loro vita.

I soldati, rannicchiati sui lati delle trincee con i piedi costantemente a bagno, non potevano allontanarsi nemmeno per espletare le proprie funzioni corporee. Tale ennesima umiliazione era affogata con scarso successo nei litri di alcol che venivano forniti dai comandi. L’unico momento di igiene personale in prima linea, giungeva al termine della colazione: i rimasugli di tè o caffè sul fondo della gavetta dovevano bastare per ridare al viso una parvenza umana.

Ma se non erano le malattie, come il piede da trincea o l’inedia, oppure i topi e i pidocchi, sempre più grandi e affamati di carne umana, a uccidere gli uomini ci pensava l’artiglieria. Grazie allo sviluppo pre-bellico, infatti, i cannoni e gli obici erano ora in grado di portare la loro forza devastatrice a distanze maggiori da postazioni nascoste in punti lontani dal fronte. Non è un caso, infatti, che nella Grande Guerra il 60% delle morti (circa 6.000.000 di soldati) sia stato causato dalle bocche di fuoco pesanti, che martellavano costantemente le linee nemiche per eliminare fisicamente o mentalmente quanti più uomini possibile. Una delle patologie maggiormente riscontrate tra i soldati, durante e dopo la guerra, era lo Shell shock, ovvero un disturbo post-traumatico da stress che spesso colpiva in forma permanente i sopravvissuti rendendoli mentalmente invalidi per il resto delle loro vite. L’intensificazione dei bombardamenti, che in alcuni casi si prolungavano ininterrottamente per giorni e notti, era il preambolo del momento più temuto dai soldati di ogni schieramento: l’assalto alla baionetta.

Possiamo solo provare a immaginare la paura di quegli uomini nel momento in cui veniva dato l’ordine di innestare la baionetta e prepararsi. Tra le pagine del romanzo Un anno sull’Altipiano, scritto da Emilio Lussu, ufficiale della Brigata Sassari impiegata sul Carso contro l’Impero austro-ungarico, ci viene sottolineato come “di tutti i momenti della guerra quello era il più terribile”. E chi non usciva allo scoperto finiva davanti al plotone di esecuzione.

Chi invece trovava il coraggio e la forza di mettersi in marcia, veniva schierato in linee compatte, parallele alle trincee, divenendo facile preda delle mitragliatrici, arma simbolo di questa guerra. Interi battaglioni, composti da cinque-seicento uomini, potevano essere falcidiati nel giro di venti metri o poco più. Tra la pioggia di bombe e i colpi di fucile, l’avanzata si arrestava spesso alle linee di filo spinato dove gli attaccanti venivano falcidiati in pochi, terribili, istanti. Gli ultimi sopravvissuti, giunti fino alle trincee nemiche, affrontavano l’incubo peggiore: dare un volto all’uomo da uccidere.