di Mario Curreli

La strage di palazzo d'accursio

Nel teso clima sociopolitico che caratterizzò il quadriennio tra la fine della Grande Guerra e la presa di potere del fascismo, una vicenda in particolare viene ricordata come paradigma delle violenze tra fascisti e socialisti durante il cosiddetto biennio rosso: i fatti di Palazzo d’Accursio a Bologna. Diverse persone morirono e molte altre rimasero ferite, ma, oltre la tragedia umana, l'accaduto segnò uno spartiacque politico: il socialismo mostrò la sua fragilità, mentre il fascismo sfruttò la vicenda a proprio favore, acquistando forza e diventando un movimento sempre più potente e temuto.

Nei mesi precedenti il 21 novembre 1920 - data designata per l’insediamento del neoeletto sindaco socialista di Bologna Enio Gnudi, rappresentante della corrente massimalista del partito che mirava all'instaurazione di una repubblica di stampo bolscevico - l’atmosfera si era particolarmente inasprita in conseguenza della generale tensione tra le varie anime della sinistra e il movimento fascista, per altro esasperate da alcune dinamiche locali. In primo luogo, l’ex sindaco Francesco Zanardi, anch’egli massimalista, che aveva ricoperto la carica dal 1914 al 1919, aveva appoggiato apertamente la massiccia ondata di lotte contadine che avevano infiammato le campagne di tutta la Val Padana accentuando i contrasti tra proletariato e padronato. In secondo luogo, il 14 ottobre, lo stesso Zanardi e l’anarco-rivoluzionario Errico Malatesta tennero un comizio in Piazza Umberto I (l'attuale Piazza dei Martiri) e, una volta concluse le orazioni, marciarono insieme alla folla fino alla prigione cittadina, dove ebbero uno scontro a fuoco con le guardie regie che si concluse con l'uccisione di quattro manifestanti e due esponenti delle forze dell'ordine. Ai funerali di questi ultimi, organizzati due giorni dopo i fatti, gruppi di fascisti locali colsero l’occasione per attaccare i socialisti, distruggendo una libreria. Nei giorni successivi i socialisti risposero duramente, ferendo l'avvocato fascista Dino Grandi e devastando il suo ufficio. Due settimane dopo, il 31 ottobre 1920, la compagine socialista si impose alle elezioni amministrative e il nuovo consiglio municipale elesse alla carica di sindaco Enio Gnudi. In tutta risposta, qualche giorno più tardi, gli squadristi Leandro Arpinati e Arconovaldo Bonaccorso annunciarono, attraverso dei manifesti, che avrebbero impedito alla nuova giunta comunale di insediarsi e di "issare il loro cencio rosso sul palazzo comunale". Altri scontri violenti seguirono il 4 novembre, giorno in cui gli squadristi bolognesi devastarono la Camera del Lavoro locale.

Il 21 novembre si prospettava dunque una giornata difficile con probabili problemi di ordine pubblico. I timori vennero del tutto confermati, e anzi, i fatti che si verificarono ben furono più gravi di quanto ci si potesse immaginare. Come previsto i contrasti cominciarono molto presto. I socialisti issarono la bandiera rossa sulla Torre Asinelli, ma prontamente un gruppo di fascisti vi si recò lì e la rimosse. Nel frattempo la folla si era riunita in piazza, circondata da un cordone di guardie regie a protezione dall’annunciato attacco fascista, nella zona antistante Palazzo d’Accursio, all’interno del quale si stava svolgendo regolarmente la cerimonia d’insediamento della nuova giunta. Il neosindaco Gnudi, affacciandosi dal balcone del palazzo decorato con la bandiera rossa, era in procinto di prendere la parola. È in questi istanti che i fascisti, provenienti da via Rizzoli e dall'Archiginnasio, assieme ad alcuni rinforzi giunti da Ferrara e guidati dallo squadrista Olao Gaggioli, tentarono di rompere il cordone di sicurezza, venendo in un primo momento bloccati, iniziarono a sparare, riuscendo quindi a sfondarlo e a dirigersi verso il palazzo. La folla terrorizzata si accalcò nel tentativo di entrare nel cortile per trovarvi rifugio e le guardie rosse, formazioni composte da socialisti e massimalisti incaricati di difendere il palazzo comunale, scambiarono la folla impaurita per un attacco fascista e reagirono lanciando alcune bombe a mano che uccisero dieci persone e ne ferirono altre cinquantotto. Contemporaneamente era scoppiato il caos anche nell’aula consiliare: vennero esplosi alcuni colpi di pistola, da qualcuno di cui non si scoprì mai l’identità, che colpirono i consiglieri di minoranza Cesare Colliva, Bruno Biagi e Giulio Giordani. Quest’ultimo, ferito gravemente, morì poco dopo.

Il movimento fascista si adoperò fin da subito per strumentalizzare la vicenda a proprio favore, volendo avocarsi il ruolo di tutore dell’ordine contro l’attivismo di matrice socialista. Giordani, mutilato di guerra e medaglia d’argento al valor militare, di orientamento liberale e mai espressosi favorevolmente circa il fascismo, venne iscritto postumo al fascio bolognese e celebrato come il “primo martire fascista”. La salma venne esposta in un'aula del tribunale e vegliata da picchetti di camicie nere armate; mentre, il 23 novembre, ai funerali, il feretro sfilò accompagnato dal gonfalone del comune portato dai fascisti, e il corteo funebre si trasformò in una “grande manifestazione antisocialista”.

La neoeletta giunta di Gnudi venne sciolta, e il comune affidato al commissario prefettizio Vittorio Ferrero, che restò in carica fino al 1923, mentre le indagini circa le esatte dinamiche della strage rimasero avvolte dal mistero. Per i fascisti fu una vittoria totale. Sul piano morale addossarono la responsabilità della strage ai socialisti, indicati come colpevoli di aver esasperato gli animi e perturbato l’ordine pubblico con le lotte operaie e contadine in città e nelle campagne. Sul piano materiale imputarono loro la colpa di aver causato la morte e il ferimento di un gran numero di persone, con il lancio delle bombe a mano da parte delle guardie rosse.

Il movimento fascista, da questo momento in poi, vide accrescere esponenzialmente la propria potenza politica, soprattutto grazie all’appoggio dei grandi proprietari terrieri e alla connivenza di buona parte delle istituzioni pubbliche. Lo squadrismo agrario divenne uno strumento quasi quotidiano nella lotta contro il socialismo. Nelle campagne della Valle Padana le “spedizioni punitive” delle camicie nere divennero frequenti e sistematiche: il sistema delle leghe rosse venne ridimensionato e il radicamento del partito socialista sul territorio ridotto notevolmente. Per i socialisti invece fu una disfatta. Questa vicenda, oltre ad assestare un colpo politico durissimo, che segnò il percorso del partito negli anni a venire, mise in luce la mancanza di coesione all’interno del movimento, la cui spaccatura tra riformisti e massimalisti era soltanto la più ampia e visibile. Dunque, furono in primis le dinamiche interne al partito a minarne la stabilità e, di conseguenza, la forza per un’affermazione sul campo politico. Ambiente quest’ultimo, che stava vivendo una traslazione dal piano istituzionale a quello della violenza.