LA GRANDE emigrazione italiana

di Gabriele Pato

Tra i paesi dell’Europa occidentale, l’Italia è considerata paese dell’emigrazione per antonomasia. Non solo gli Italiani sono emigrati in numero molto maggiore rispetto ad ogni altra popolazione Europea, ma sono anche gli unici ad averlo fatto per il più lungo lasso di tempo e verso le più svariate destinazioni. Ciò che spinse gli Italiani a emigrare fu, innanzitutto, la disastrata situazione economica di alcune aree del paese, ma in molti casi anche fattori politici e sociali giocarono una parte importante. Per farsi un’idea della vastità dell’emigrazione italiana tra l’ultimo quarto del XIX secolo e la Grande Guerra, basti pensare che su un totale di cinquanta milioni di Europei che raggiunsero le Americhe in questo periodo, ben quattordici milioni, ovvero il 28%, erano italiani, mentre l’Italia ospitava soltanto l’11% della popolazione europea.

Sebbene la penisola italiana fosse un’area caratterizzata da alti tassi di mobilità in entrata e in uscita quantomeno dal tardo Medioevo, la fase della Grande Emigrazione cominciò soltanto dopo l’unificazione dell’Italia sotto i Savoia e, in particolare, dalla metà degli anni ‘70 del XIX secolo, quando il tasso di emigrazione continuò a crescere costantemente fino alla vigilia della Prima guerra mondiale: se nel 1876 era emigrato lo 0,4% della popolazione, nel 1890 la cifra era più che raddoppiata (0,9%) e triplicata (> 1,2%) nel periodo tra il 1900 e lo scoppio del conflitto. Il picco fu raggiunto nel 1906 e nel 1913, quando il tasso raggiunse rispettivamente il 2,2 ed il 2,3% della popolazione totale.

Dal punto di vista geografico, la Grande Emigrazione degli italiani fu tutt’altro che omogenea sia nello spazio che nel tempo: mentre nella prima fase, tra il 1870 ed il 1900, gli emigranti provenivano in gran parte dal nord (60% contro 12% dal centro e 29% dal sud) la proporzione mutò lentamente “a favore” dei meridionali, che tra il 1900 ed il 1915 erano il 45% e che arrivarono a costituire due terzi del totale negli anni ‘60 del Novecento. Contemporaneamente, cambiarono anche i paesi di destinazione: nonostante l’emigrazione italiana sia spesso associata ai viaggi transatlantici, nell’ultimo quarto del XIX secolo oltre un terzo dei migranti lasciava l’Italia diretto verso Francia e Impero Austro-Ungarico, le mete più tradizionali dei migranti provenienti rispettivamente dal nord-ovest e dal nord-est e dove, di conseguenza, esisteva un forte processo di “migrazione a catena”, ovvero luoghi in cui esisteva già una comunità di immigrati italiani a cui poter chiedere consigli e supporto. In questo periodo, inoltre, le principali destinazioni oltreoceano erano Argentina, Brasile e Uruguay, mentre soltanto poco più del 10% era diretto verso gli Stati Uniti d’America, che invece diventarono di gran lunga il primo paese di destinazione per i migranti italiani, soprattutto per quelli provenienti dal sud Italia.

Ma quali furono i fattori che causarono questo esodo di massa durato oltre quarant’anni? Innanzitutto, è importante sottolineare che le cause furono tanto interne quanto relative alla congiuntura internazionale. Inizialmente, nei primi due decenni che seguirono l’unità d’Italia, moltissimi giovani uomini emigrarono per evitare la leva obbligatoria e la nuova tassazione – in particolare la famigerata “tassa sul macinato” – appena introdotta dai Savoia. Dal 1880 invece un nuovo fondamentale fattore, ’entrata del grano americano e russo sul mercato internazionale, sconvolse l’economia mondiale e ebbe gravi ripercussioni anche in Italia, creando grandi masse di poveri pronti a lasciare il paese. A quell’epoca, la grandissima maggioranza degli italiani viveva ancora di agricoltura. L’industria era scarsamente sviluppata e si concentrava nel nord ovest, tra Torino, Milano e Genova e così, con il crollo repentino del prezzo dei cereali ai suoi minimi storici, milioni e milioni di possidenti, agricoltori e braccianti si trovarono indebitati e privi di terra da lavorare. Inoltre, nello stesso periodo, anche gli ultimi due grandi paesi con una forte economia schiavista, Brasile e Stati Uniti, optarono per l’emancipazione, mentre tanto in Europa centro-occidentale quanto in Nord America fioriva la grande industria manifatturiera. Entrambi questi fattori fecero accrescere smisuratamente la domanda di lavoratori non specializzati, di cui l’Italia era grandissima esportatrice. Inoltre, in particolare dopo il 1900, lo sviluppo di nuove tecnologie di navigazione permise una sensibile riduzione dei costi di trasporto, che permise anche alle classi più basse di progettare un futuro oltreoceano, in quello che veniva percepito come un paradiso terrestre nel quale chiunque avrebbe accumulato grandi ricchezze. Tuttavia, specialmente negli Stati Uniti, la realtà si rivelò ben diversa. Certamente molti riuscivano ad inserirsi e fare fortuna (o semplicemente condurre una vita dignitosa) ma moltissimi altri ebbero enormi difficoltà a scalare la piramide sociale, sia per l’emarginazione di cui soffrivano in quanto non WASPs (ovvero non bianchi, anglosassoni e protestanti), ma anche per il sistema di padronato che vigeva soprattutto tra i migranti campani e siciliani. A dimostrazione delle difficoltà di integrazione nella realtà nordamericana vi è l’altissimo tasso di ritorni: oltre la metà degli emigranti che lasciarono l’Italia per gli Stati Uniti tra il 1905 ed il 1915 decisero, una volta messi da parte abbastanza risparmi, di tornare al paese e investire in una casa e in un pezzo di terra.

Infine, la Grande Emigrazione italiana conobbe una fortissima contrazione nel periodo tra le due guerre e anche questo fu a causa tanto di fattori interni quanto di fattori esterni. Innanzitutto, dal 1912 l’Italia era diventata una “potenza” coloniale con l’annessione della Libia, e il governo tentò, con scarsi risultati, di indirizzare i migranti verso la nuova colonia. Poi, tra il 1917 e il 1924, il governo statunitense strinse sempre più le maglie, limitando l’ingresso di migranti italiani ad un massimo di 5000 ogni anno. Contemporaneamente in Italia la salita al potere del fascismo tentò con ogni mezzo di limitare la costante perdita di popolazione, promuovendo anch’esso – con esisti altrettanto scarsi – il trasferimento verso la Libia e, dal 1936, l’Etiopia. Le bonifiche di grandi aree paludose in Sardegna, Maremma e Agro Pontino, la conseguente fondazione di oltre cento nuove città e la distribuzione di terre e abitazioni risultò invece essere un mezzo ben più efficace e in grado di assorbire decine di migliaia di migranti interni, moltissimi di questi appartenenti al bracciantato veneto ed emiliano.

Alla conclusione della fase della Grande Emigrazione, intorno alla metà degli anni ’20, oltre 14 milioni di Italiani avevano lasciato le loro case per trovare fortuna all’estero e più della metà di essi fece ritorno al proprio paese. Questi emigrati diedero un grande contributo allo sviluppo italiano, sia grazie all’importazione delle competenze acquisite all’estero sia, soprattutto, grazie al denaro spedito alle famiglie rimaste in Italia: nel periodo pre-fascista le rimesse degli emigrati costituirono quasi il 5% del PIL.