la conferenza navale di washington

di Lorenzo Bonaguro

Nell’immediato dopoguerra le grandi potenze cercarono in vari modi di creare dei meccanismi internazionali per prevenire nuovi e devastanti conflitti. Una delle strade scelte fu quella di stringere degli accordi che riguardassero, nello specifico, la questione della potenza navale dei singoli paesi: il controllo dei mari era – ed è tutt’ora – la chiave per l’egemonia. I tentativi della Germania guglielmina di strappare all’impero britannico la supremazia dei mari fu uno dei fattori che portarono alla Grande Guerra. Negli anni Venti era però ormai evidente che gli Stati Uniti e il Giappone stavano per superare la marina di sua Maestà grazie alla loro più fiorente economia, ma ciò poneva il problema delle crescenti tensioni nel Pacifico a causa dell’espansionismo giapponese. Fu deciso quindi di stabilire un intesa comune sul controllo degli armamenti per la prima volta nella storia.

La Conferenza si tenne a Washington dal novembre del 1921 al febbraio del 1922. L’amministrazione repubblicana di Warren Harding era in sintonia con l’opinione pubblica americana cui non piaceva il potenziamento della marina voluto da Woodrow Wilson negli anni precedenti, poiché si temeva che una nuova corsa agli armamenti avrebbe portato ad un altro conflitto, gli inglesi speravano di fermare una corsa che non potevano vincere a causa della debolezza della loro economia, mentre l’Impero giapponese fu riconosciuto una volta per tutte come grande potenza, di livello pari a quelle europee. Durante la conferenza furono firmati tre diversi trattati.

Il trattato delle grandi potenze, o “Patto per il Pacifico”, impegnava USA, Giappone, Inghilterra e Francia a tutelare anche tramite consultazioni lo status quo nel Pacifico. Questa impostazione collettiva fu fortemente voluta soprattutto dagli americani per cercare di porre un freno alle ambizioni nipponiche.

Il trattato per il disarmo navale, firmato anche dall’Italia, fu centrale per il controllo degli armamenti. Infatti, le parti si impegnavano a non costruire corazzate e incrociatori da battaglia per un periodo di dieci anni. Inoltre erano anche impegnate a rispettare delle determinate proporzioni di grandezza tra i rispettivi tonnellaggi: Stati Uniti e Gran Bretagna 5, Giappone 3 , Italia e Francia 1,75. In aggiunta, tutta una serie di limitazioni nella stazza delle altre tipologie di navi; non fu raggiunta alcuna intesa in merito ai sommergibili. In questo modo fu stabilita su carta la parità della potenza navale inglese e statunitense, francese e italiana. La Francia accettò solamente perché fu isolata diplomaticamente, i giapponesi invece accettarono di essere messi al secondo posto solo perché fu stabilito (ex art. 29) che non sarebbero state costruite ulteriori basi navali nel Pacifico.

L’ultimo trattato firmato fu quello delle nove potenze (aderirono anche Portogallo, Belgio, Olanda e Cina). Fu il più impegnativo ma nonostante le forti divergenze alla fine tutti accettarono la posizione di Washington: per garantire la pace internazionale bisognava che tutti rispettassero la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale cinese. Fu così condiviso il principio della “porta aperta” per il quale nessuna nazione avrebbe avanzato pretese commerciali, monopoli o privilegi a discapito degli altri.

A margine della conferenza fu stipulato un accordo sino-giapponese con la quale Tokyo restituì alla Cina i territori tedeschi acquisiti durante la guerra. In cambio il trono del crisantemo mantenne la propria influenza sulla Manciuria.

Per quattordici anni i risultati della conferenza navale di Washington ressero alle crescenti tensioni. La fine arrivò nel 1936 quando il Giappone, insofferente di tutte le restrizioni poste dall’intesa angloamericana sul Pacifico sulle sue ambizioni imperialiste, decise di recedere. Lo stesso avvenne con la Società delle Nazioni. I meccanismi di risoluzione delle controversie internazionali elaborati nel dopoguerra si dimostrarono insufficienti.


LETTURE E APPROFONDIMENTI:

  • Ennio di Nolfo, “Storia delle relazioni internazionali. Dal 1918 ai giorni nostri”, Laterza, 2011 (pp. 85-88)