Di Lorenzo Balma


La Bielorussia di Lukashenko


Cambiare le figure politiche non significa cambiare la struttura politica del paese o il suo corso. Voi cambiate le decorazioni del paese, ma il corso rimane lo stesso. È dittatura.” A. Lukashenko, in una intervista rilasciata al Washington Post, 2011.


Dopo lo scioglimento dell’Unione sovietica, la Bielorussia diventa una Repubblica presidenziale nella quale le vecchie classi dirigenti (seguendo uno schema ricorrente in tutte le ex repubbliche sovietiche) si riciclarono sotto la bandiera di un nazionalismo patriottico che puntava all’autonomia e al ritorno ad una piena sovranità. Aleksandr Lukashenko, formatosi come uomo di potere all'interno dell'esercito sovietico, e il suo neonato partito dei “Comunisti per la democrazia” si distinsero in questa fase di delicata transizione, avvenuta dopo l’indipendenza ufficializzata il 25 agosto 1991, per l’opposizione all’adesione al CSI (Consiglio degli Stati Indipendenti) che riuniva parte delle ex repubbliche del Patto di Varsavia.

A presiedere i lavori di stabilizzazione interna e di delineamento dei rapporti con l’ex padrona Mosca fu il presidente Suskevic eletto il 26 settembre 1991, ma costretto a dimettersi poi nel 1993 per accuse di corruzione avanzate proprio da una commissione di cui faceva parte anche lo stesso Lukashenko. Questo episodio gli fece godere di una vasta popolarità, tant’è che alle elezioni del 1994 ottenne la prima (delle poi tante) “maggioranze bulgare” della sua carriera presidenziale. Da indipendente Lukashenko prese l’80% dei voti al secondo turno contro l’avversario indipendente Kebir.

In primo luogo, si oppose alle politiche di liberalizzazione del breve governo precedente, iniziando ad inimicarsi fortemente il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, che chiedevano invece riforme strutturali soprattutto in termini di fiscalità, finché sospesero una parte dei prestiti.

Il 1996 rappresenta un anno fondamentale per l’inizio di quella che viene definita l’ultima dittatura d’Europa: Lukashenko sottoscrive l’accordo per la creazione dell’Unione Russia-Bielorussia per regolare gli accordi economici e agganciando in tale maniera il destino del rublo bielorusso con quello di Mosca. Si allontanava così la volontà iniziale di cooperare con gli Stati europei, cedendo invece all’influenza del Cremlino. Nello stesso anno il Presidente della Repubblica propose un referendum costituzionale, approvato in maniera plebiscitaria, per estendere il mandato presidenziale da 5 a 7 anni e ottenere anche maggiori poteri a scapito del Parlamento. Il referendum sancì l’inimicizia dell’UE verso il nuovo presidente, che espulse gli ambasciatori occidentali dal suolo bielorusso, generando l’inizio di una spaccatura insanabile causata dalla continua vicinanza nell’orbita di Mosca ed il crescente autoritarismo.

Una volta riuscito a spostare la fine del suo primo mandato dal 1999 al 2001, Lukashenko vinse le presidenziali del 2001 addirittura al primo turno con oltre il 77% dei voti (che resterà il suo minimo storico alle elezioni). Le democrazie europee e l’Ocse denunciarono subito violazioni degli standard internazionali, avvenute anche durante le elezioni parlamentari del 2000 in cui i suoi candidati si aggiudicarono tutti i seggi in Parlamento.

Con un nuovo referendum del 2004, Lukashenko riuscì ad abolire il limite di mandati alla presidenza, iniziando a svuotare di senso ogni opposizione politica. Già in questa occasione le piazze si riempirono denunciando irregolarità di voto e l’inasprimento delle tendenze autoritarie, causando i primi gravi disordini, gestiti con durezza dalle forze di polizia.

Il referendum fu l’anticamera delle presidenziali del 2006 (alle quali Lukashenko non avrebbe potuto partecipare senza il provvedimento di due anni prima), in cui per la terza volta l’ex militare “sbaragliò” l’opposizione prendendo quasi l’83% dei voti, lasciando il 6% alla diretta avversaria Milinkevic. Una così bassa percentuale, insolita secondo i monitoraggi degli osservatori internazionali, fece ricorrere l’opposizione al ricorso alla Corte Costituzionale denunciando i brogli, ma l’appello fu respinto.

Nei giorni che seguirono l’ufficialità del terzo mandato, nuove manifestazioni e nuovi cortei sfilarono per le piazze di Minsk, mentre cresceva il numero di manifestanti che brandiva bandiere dell’Unione Europea e bandiere tradizionali biancherosse della Repubblica bielorussa (usate fino al 1995).

La tornata elettorale successiva del 2010, anticipata rispetto al 2011, fu di nuovo vinta da Lukashenko con l’80% dei voti e fu ampiamente contestata dall’Ocse per irregolarità durante gli scrutini, mentre gli osservatori politici del CSI ne ribadivano invece la trasparenza. Le elezioni del 2010 rappresentarono anche il sostanziale crollo e sabotaggio di ogni forma di opposizione al regime: tutti i candidati in opposizione a Lukashenko si spartirono uniformemente, a suon di 1%, i voti degli elettori rimanenti.

L’anno successivo l’Unione Europea votò le prime sanzioni contro la Bielorussia in seguito all’incarcerazione di membri dell’opposizione tra i quali Andrei Sannikov, che nelle precedenti elezioni prese il 2% dei voti (che gli valsero il secondo posto dietro al solo Lukashenko). Le sanzioni prevedevano il divieto di entrare in sul suolo di Shengen per i funzionari bielorussi, oltre che per lo stesso Lukashenko, e il congelamento dei conti europei e dei beni in europa.

Sia nelle elezioni parlamentari del 2008 e del 2012 l’opposizione non riuscì ad ottenere seggi in Parlamento.

Mentre proseguiva la repressione del dissenso e delle opposizioni, oltre che il gelo diplomatico sotto il fronte del dialogo con l’Occidente, Lukashenko si vedeva riconfermato il suo mandato (il quinto consecutivo) con l’83,5% dei voti. Solo un anno più tardi l’opposizione riuscì a far eleggere i primi due rappresentanti in Parlamento.

Nel frattempo si era congelato anche il dialogo con la Russia di Putin, anche se continuarono a considerarsi sempre alleate.

La crisi economica colpì ancora più duramente la Bielorussia che era legata esclusivamente a Mosca e ne dipendeva economicamente. I continui litigi sul prezzo del gas e del petrolio e la diversità di vedute sul ruolo della Bielorussia (con Lukashenko che ne voleva conservare l’assoluta indipendenza politica dal Cremlino), non fecero che aumentare un’antipatia latente tra i due leader dei regimi. La spaccatura si accentuò quando Lukashenko non riconobbe l’annessione della Crimea da parte della Russia. E’ proprio con questa chiave geopolitica che va letto il ménage tra la Bielorussia, l’Europa e la Russia: a metà strada tra Mosca e i paesi della Nato è di fondamentale importanza per la Federazione russa avere uno Stato cuscinetto che lo separi ed avvicini allo stesso tempo all’Occidente, a maggior ragione dopo aver perso influenza sull’Ucraina.

La diffidenza tra i regimi e la paura bielorussa di diventare uno stato vassallo sono attestate anche dagli ultimi arresti avvenuti prima delle presidenziali di questo agosto 2020. Barbaryka e Tichanovskij, candidati dell’opposizione, sono stati infatti accusati di essere “burattini manovrati dal Cremlino” in seguito ai loro arresti con conseguenti esclusioni dalle elezioni proprio con l’accusa di russofilia.

Le ultime elezioni tenutesi il 9 agosto scorso, definite inizialmente “non ottimali” anche dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, hanno visto la conferma del sesto mandato per Lukashenko con l’80% dei voti e la sconfitta della principale oppositrice Svetlana Tikhanovskaya, poi rifugiatasi in Svizzera dopo la denuncia dei brogli, con il 10% dei voti.

Subito dopo l’annuncio dei risultati sono iniziate le proteste con le leader dell’opposizione a capo di cortei organizzati, presidi spontanei in piazza e manifestazioni pacifiche, che si sono protratti fino alla “Marcia per la libertà”, convocata il 16 agosto dall’opposizione a cui parteciparono 200.000 persone secondo le stime, la più grande manifestazione pacifica mai avuta in Bielorussia.

Le proteste e le manifestazione vennero anche potenziate dagli scioperi dei lavoratori nelle fabbriche, che già contestarono Lukashenko sulle modalità con le quali è stata gestita l’emergenza del Covid-19.

In queste fasi concitate di protesta, dopo aver occupato il teatro principale di Minsk, una delle leader dell’opposizione Svjatlana Cichanouskaja ha rilasciato un video in cui si dice pronta a guidare il paese attraverso un governo di transizione per organizzare delle nuove elezioni presidenziali.

Lukashenko, che aveva definito i manifestanti “pecore controllate dall’estero”, ha inoltre dichiarato che i servizi speciali avevano registrato chiamate dalla Polonia, dalla Gran Bretagna e dalla Repubblica Ceca, accusando esplicitamente di interferenze estere durante le sollevazioni della società civile e ha promesso, inoltre, che “il paese non sarebbe stato lacerato”.

La repressione sistematica con cui la polizia ha boicottato ogni tentativo di manifestazione pacifica con spesso un illegittimo uso della violenza, è valsa una dura reazione internazionale: da Ursula Von der Leyen e Charles Michel, alla segreteria della Casa bianca, passando per Angela Merkel e Emmanuel Macron, tutti unanimemente denunciano il carattere non legale e non equo delle votazioni, oltre che l’abuso di violenza contro i cittadini bielorussi. Durante le proteste sono infatti state arrestate migliaia di persone, tra cui anche membri della stampa occidentale e locale che hanno descritto gli abusi subiti durante i fermi della polizia. Migliaia invece sono stati i feriti, mentre sono state accertate delle morti durante gli scontri del 10 e dell’11 agosto (non è stato mai smentito infatti l’uso delle armi da fuoco da parte della polizia).

Mentre si prevedono ulteriori sanzioni europee alla Bielorussia, qualora non fosse praticabile la via del dialogo, Mosca promette a Lukashenko un contingente di forze dell’ordine dispiegate sul confine in caso le proteste degenerassero, come confermato dallo stesso Putin a fine agosto in un’intervista rilasciata a Rossija-24.


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